venerdì 28 novembre 2008

Tauran: prolusione per l'apertura dell'anno accademico della Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia meridionale

Il dialogo tra le religioni
Un rischio da correre


"Il dialogo interreligioso: una grazia o un rischio?": se lo chiede il presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, nella prolusione per l'inaugurazione dell'anno accademico 2008-2009 della Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia meridionale, tenutasi a Napoli. Qui di seguito pubblichiamo ampi stralci del discorso del porporato.


di Jean-Louis Tauran

Viviamo in società pluri-culturali e pluri-religiose: è un'evidenza. La tesi di Huntington, lo scontro delle civiltà, si è rivelata falsa: proclamare che il mondo è diviso fra sei o sette civiltà differenti, destinate ad affrontarsi, non regge. Non esiste una civiltà religiosamente pura. Esistono soltanto civiltà composite, che evolvono e che si trasformano con un processo permanente di interazione. In Italia, per esempio, un bambino sin dall'asilo pratica il dialogo interreligioso: si trova in mezzo a compagni musulmani, a volte buddisti, eccetera. Come ha dimostrato Paul Tillich, la storia non conosce una cultura che non sia religiosa.
L'altro giorno in un'edicola dell'aeroporto ho visto tanti libri e le riviste che trattavano argomenti religiosi, esoterici o comunque riferiti a nuove religioni. Non si è mai parlato tanto di religioni come oggi (Gilles Kepel, La Revanche de Dieu). Il presidente francese Sarkozy, ricevendo il Corpo diplomatico all'inizio di quest'anno, ha affermato che, secondo lui, due argomenti determineranno la fisionomia delle società del xxi secolo: le questioni ambientali e quelle religiose. Come ha fatto Dio a ritornare nelle nostre società? Questo, secondo me, è il grande paradosso. Grazie ai musulmani! Sono i musulmani che, in Europa, diventati una minoranza significativa, hanno chiesto spazio per Dio nella società. Inoltre, una seconda causa, è che le religioni sono percepite come un pericolo: il fanatismo, il fondamentalismo e il terrorismo sono stati o sono ancora associati a una forma pervertita dell'islam. Non si tratta ovviamente del vero islam, praticato dalla maggioranza dei seguaci di questa religione, ma è un fatto che, ancora oggi, si viene uccisi per motivi religiosi. Basti menzionare l'assassinio dell'arcivescovo cattolico di Mossul. Leggevo che, nel 2007, centoventitré cristiani hanno trovato la morte perché cristiani: in Iraq, in India e in Nigeria. Le religioni sono capaci del meglio come del peggio. Possono mettersi al servizio di un progetto di santità o di alienazione. Possono predicare la pace o la guerra. Ma qui si deve precisare che non sono le religioni che fanno la guerra, ma i loro seguaci. Di qui la necessità di coniugare fede e ragione, dato che agire contro la ragione, in realtà, è agire contro Dio, come Benedetto XVI ha ricordato nella sua Lectio all'Università di Ratisbona il 12 settembre 2006.
Forse ci eravamo scordati che la persona umana è l'unica creatura che interroga e che si interroga. È interessante ricordare che la Dichiarazione Nostra aetate del concilio Vaticano ii sul dialogo interreligioso, già sottolineava questa dimensione dell'uomo nel suo preambolo: "Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell'uomo: la natura dell'uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l'origine e lo scopo del dolore... la vera felicità, la morte".
Da questo quadro risulta che siamo "condannati" tutti al dialogo. Ma cosa è il dialogo? È la ricerca di comprensione fra due soggetti, con l'aiuto della ragione, in vista di un'interpretazione comune del loro accordo o del loro disaccordo. Suppone un linguaggio comune, onestà nella presentazione del proprio punto di vista, e volontà di fare tutto il possibile per capire gli argomenti dell'altro. Applicati al dialogo interreligioso, questi presupposti aiutano a capire che, quando si parla di dialogo interreligioso, non si tratta di essere gentili con l'altro, per risultargli gradevoli. Non si tratta nemmeno di un negoziato, praticato dai diplomatici: trovo la soluzione al problema e la questione è chiusa. Nel dialogo interreligioso prendo un rischio. Accetto, ovviamente, non di rinunciare alla mia fede, ma di lasciarmi interpellare dalle convinzioni altrui. Accetto di prendere in considerazione argomenti diversi dai miei o da quelli della mia comunità. Lo scopo è di conoscersi, di considerare la religione dell'altro con benevolenza e di lasciarsi arricchire dagli aspetti positivi celati nella sua religione. Ogni religione ha la sua identità, ma accetto di considerare che Dio è anche all'opera in tutti, nell'anima di chi lo cerca con sincerità. Direi che tre sono gli elementi che vanno insieme: identità, alterità e dialogo. Non si tratta, ovviamente, di ricercare una specie di religione universale, o di ricercare il più piccolo denominatore comune. La prima condizione perché il dialogo interreligioso sia proficuo è la chiarezza: ogni credente deve essere consapevole della propria identità spirituale. I capi religiosi devono stare attenti a che il genio proprio di ogni religione sia sempre ben compreso.
Si pone allora il problema di saper come conciliare la nostra fede in Cristo come l'unico mediatore e l'apprezzamento dei valori positivi che troviamo nelle altre religioni. In ogni essere umano c'è la luce di Cristo. Di conseguenza tutto il positivo che esiste nelle religioni non è tenebre. Tutto il positivo partecipa della grande luce che risplende su tutte le luci. E qui dobbiamo rileggere la Nostra aetate: "La Chiesa Cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini" (n.2).
Si può dire che, dalla fine del concilio Vaticano ii fino ad oggi, i cattolici sono passati dalla tolleranza all'incontro per arrivare al dialogo, che non è tanto dialogo fra le religioni quanto fra credenti. E questo dialogo si svolge secondo quattro modalità: 1) dialogo della vita: relazioni di buon vicinato con i non cristiani che favoriscono la condivisione delle gioie e delle prove, incontri in occasione delle feste religiose degli uni e degli altri; 2) dialogo delle opere: collaborazione in vista del benessere degli uni e degli altri, specialmente delle persone che vivono in solitudine, malattia o povertà, collaborazione nelle diverse strutture della vita associativa e in occasione delle grandi catastrofi naturali; 3) dialogo teologico: quando è possibile, che permette agli esperti di ambedue le parti di capire in profondità le rispettive eredità religiose; 4) dialogo delle spiritualità: che mette a disposizione degli uni e degli altri la ricchezza della loro vita di preghiera.
Il dialogo interreligioso mobilita quindi tutti quanti sono in cammino verso Dio o verso l'Assoluto. Tutti i credenti e i ricercatori di Dio hanno la stessa dignità. Per un cattolico, dialogare con gli altri credenti è, prima di tutto, un'esperienza spirituale e, in questo, una grazia. È un'attività prettamente religiosa, animata non solamente dalla conoscenza intellettuale o dall'amicizia, ma anche dalla preghiera. Mi porta ad approfondire la mia fede e a testimoniarla: non devo mai nascondere la mia specificità. Quando parlo con un musulmano, per esempio, non posso mettere fra parentesi i capisaldi del mio credo, quali la Santissima Trinità e l'Incarnazione. Anche semplici gesti, come portare una croce al collo, o avere un rosario in mano, sono gesti che mostrano l'attaccamento alla propria fede. Il dialogo interreligioso suppone da parte mia la sincerità e anche l'umiltà, che porta a riconoscere gli errori del passato e del presente. Non si tratta di sopprimere le differenze, ma di guardarle come mezzi per creare una comprensione e un arricchimento vicendevoli.
Quale servizio il dialogo interreligioso può rendere alla società? È un fatto che i cittadini membri di una religione sono la maggioranza nelle società occidentali. Per il loro numero, la durata delle loro tradizioni, la visibilità delle loro istituzioni e dei loro riti, i credenti sono credenti e visibili. Li si può apprezzare o combattere, ma non lasciano mai indifferenti. Del resto, i responsabili delle società, pur mantenendo il principio della separazione delle Chiese dallo Stato (io preferisco parlare di distinzione) sono costretti a intendersi con le comunità dei credenti, senza confondersi, e a frequentarsi senza opporsi. Le autorità civili devono solo prendere atto del fatto religioso, garantire il rispetto effettivo della libertà di coscienza e di religione, e intervenire solo nel caso in cui l'esercizio di tale libertà nuoccia alla libertà dei non credenti o perturbi l'ordine o la sanità pubblica. Ma, più positivamente, direi che è nell'interesse dei responsabili delle società di favorire il dialogo interreligioso e di attingere, nel patrimonio spirituale e morale delle religioni, tanti valori suscettibili di contribuire all'armonia degli spiriti, all'incontro delle culture e al consolidamento del bene comune. Di fatto, tutte le religioni, attraverso mezzi variegati, spronano i propri fedeli a collaborare dove vivono, con tutti quelli che si sforzano di assicurare il rispetto della dignità della persona umana e dei suoi diritti fondamentali, di sviluppare il senso della fraternità e della solidarietà, di farsi ispirare dal savoir faire delle comunità dei credenti che, almeno una volta alla settimana, radunano milioni di persone, le più diverse, in un'autentica comunione spirituale, e di aiutare gli uomini e le donne di questo tempo a non essere schiavi delle mode, del consumismo e del profitto. I credenti sono quindi chiamati a contribuire concretamente al bene comune, a un'autentica solidarietà, al superamento delle crisi, al dialogo interculturale: devono partecipare al dialogo pubblico nelle società di cui sono membri.
Dovevo rispondere a una domanda. Il dialogo interreligioso è una grazia o un rischio? La mia risposta non è molto originale. Rispondo: le due cose. Un rischio c'è. Quello del sincretismo. Ma direi che potrebbe essere relativo se, come dicevo prima, ogni credente che dialoga esercitasse la sua ragione e, alla luce di essa, fosse spinto ad approfondire la propria fede per renderne conto. Detto questo, c'è un altro rischio, di un'altra natura: quando chiedo a un buddista o a un musulmano: dimmi qual è la tua fede e come la vivi, mi espongo al rischio che, un domani, egli rivolga a me la stessa domanda. Allora il dialogo interreligioso, come dicevo prima, in un certo senso è una grazia, perché mi mette in un continuo stato di vigilanza spirituale; mi spinge a essere coerente e testimone. Nella parola "dialogo" il prefisso dia, che significa attraverso, indica bene che dialogare è consentire a che un'altra parola attraversi la mia parola, e così gli uni gli altri possiamo scoprire non solamente le nostre ricchezze spirituali, ma anche eventuali radici comuni.



(©L'Osservatore Romano - 28 novembre 20008)

L'arcivescovo Takami sui martiri giapponesi

Intervista all'arcivescovo di Nagasaki Joseph Mitsuaki Takami

Il Giappone
e il prezioso tesoro dei martiri


di Francesco Ricupero

Oltre trentamila persone sfidando la pioggia e un vento gelido hanno preso parte domenica scorsa alla solenne beatificazione, presieduta dal cardinale José Saraiva Martins, prefetto emerito della Congregazione della causa dei santi, dei 188 cattolici giapponesi, tra sacerdoti, religiose e laici, uccisi tra il 1603 e il 1639 a causa della loro fede. "Il 24 novembre - racconta a "L'Osservatore Romano" monsignor Joseph Mitsuaki Takami, arcivescovo di Nagasaki - è stato un giorno di festa e di grande coinvolgimento emotivo per la Chiesa in Giappone. Un evento di straordinaria importanza e di autentica e infinita grazia. La beatificazione dei 188 martiri giapponesi potrà essere un'occasione per portare una testimonianza dell'amore di Dio e riscoprire l'importanza della fede".

Arcivescovo Takami, come ha vissuto questo importante evento la Chiesa giapponese e in particolare la sua diocesi?

La comunità cristiana giapponese ha un profondo rispetto e una pia venerazione per i 188 martiri, 44 dei quali provenienti proprio dalla diocesi di Nagasaki. La popolazione si è sentita coinvolta dalle numerose iniziative della nostra diocesi. Sono stati organizzati pellegrinaggi, presentati studi e ricerche sulla vita dei martiri, allestita un'importante mostra sul loro passato in due chiese di Nagasaki. Non solo, ma anche le autorità civili e alcuni musei della città hanno dedicato un'interessante esposizione di opere d'arte. Inoltre, vi è stato un coinvolgimento dei bambini i quali hanno realizzato disegni e composizioni a sfondo religioso.

Quanti cristiani hanno subìto il martirio nel Paese del Sol Levante?

Tanti. Per essere precisi, ventisei martiri del 1597 furono beatificati da Papa Urbano viii in due distinte occasioni nel 1627 e nel 1629. Tutti insieme furono canonizzati da Papa Pio ix nel 1862. Duecentocinque persone, che subirono il martirio tra il 1617 e il 1632, furono beatificate da Papa Pio ix nel 1867, mentre sedici religiosi appartenenti all'ordine dei domenicani furono martirizzati a Nishizaka e Nagasaki tra il 1632 e il 1637, beatificati nel 1981 e canonizzati nel 1987 dal servo di Dio Giovanni Paolo ii. Tra il 1868 e il 1945, il cristianesimo in Giappone - che ebbe inizio proprio a Nagasaki - crebbe e si sviluppò molto grazie ai missionari francesi e successivamente ad altri missionari e congregazioni cattoliche, ma fu per forza di cose coinvolto nell'imperialismo e nel militarismo giapponese. Subito dopo la seconda guerra mondiale, vi furono conversioni di massa in Giappone, ma, in proporzione allo sviluppo economico e consumistico, la conversione diventò sempre più lenta a svilupparsi sia numericamente che spiritualmente. Numerose scuole cattoliche, ospedali e servizi sociali assistenziali hanno serie difficoltà nel proseguire le loro attività, per loro è una grande sfida a causa del numero ridotto di sacerdoti e di religiose. A tal riguardo la Conferenza episcopale del Giappone ha preso l'iniziativa nella convenzione nazionale di incentivazione per l'evangelizzazione nel 1987 e nel 1993, pubblicando la Dottrina della Chiesa cattolica e così anche il catechismo della Chiesa, adattato per il Giappone nel 2003. Inoltre, ha cercato di rispondere alle questioni sociali pubblicando messaggi e documenti sulla vita, l'immigrazione, i diritti umani, la guerra e la pace, per esempio The Reverence of life.

Secondo lei, dei 188 martiri giapponesi chi ha lasciato un'impronta indelebile nella storia della Chiesa in Giappone?

In particolare, Pietro Kibe che si recò a piedi a Roma passando per l'India e Gerusalemme, per essere ordinato sacerdote e ritornare nel 1630 in Giappone, sapendo che vi era una persecuzione in atto. Nove anni dopo fu martirizzato a Edo, l'attuale Tokyo. Vi furono diverse famiglie giapponesi come la Amasaku di Yonezawa, la Hashimoto di Kyoto o la Ogasawara che ci hanno trasmesso e insegnato l'importanza dell'educazione cristiana in famiglia e l'unità della famiglia basata sulla fede cattolica. Gaspar Genka Nishi e sua moglie ebbero un figlio, Thomas, che fu canonizzato nel 1987. I coniugi Nishi e il loro primogenito vennero decapitati. Padre Julian Nakaura, uno dei quattro ragazzi, il primo giapponese ad aver visitato l'Europa e ordinato sacerdote, rimase in Giappone anche dopo la promulgazione di divieto del cristianesimo, si prese cura dei cristiani e fu martirizzato. La presenza del cardinale Saraiva Martins è stata per noi molto significativa. Il porporato non era conosciuto dai cristiani giapponesi prima della sua visita effettuata alcuni mesi fa in Giappone. Il cardinale, prima di presiedere la solenne celebrazione di beatificazione, ha avuto modo di visitare alcuni luoghi sacri del Giappone e ha impartito la sua benedizione ai giovani che si accingevano a compiere un lungo percorso di cinquanta chilometri a piedi per prendere parte alla beatificazione dei 188 martiri.

Quanti sono i cattolici in Giappone e qual è il loro coinvolgimento nelle attività pastorali?

I cattolici giapponesi sono circa 450.000, mentre quelli non giapponesi, quindi immigrati, sono poco più di cinquecentomila. La popolazione cattolica di Nagasaki negli ultimi quarant'anni ha subito un lieve calo. Infatti, si è passati dai 76.000 del 1965 ai 65.000 del 2007. Sebbene nelle diocesi di Tokyo e Yokohama la popolazione cattolica sia aumentata non possiamo attenderci una grande crescita del numero dei cattolici in Giappone. Purtroppo, ci sono pochi bambini nelle famiglie e gli anziani aumentano sempre di più. Il numero dei battesimi è diminuito negli ultimi dieci anni. Gli elementi culturali influiscono in maniera determinante così come la diminuzione delle nascite. Certamente, dobbiamo intensificare i nostri sforzi per evangelizzare il popolo giapponese. L'arcivescovo Shimamoto, mio predecessore, ha preso l'iniziativa di riorganizzare la cura diocesana e di preparare la creazione di piccole comunità cristiane al fine di trasformare l'arcidiocesi di Nagasaki in una comunità missionaria. Io sto cercando di portare avanti questo importante progetto.

Negli ultimi anni la crisi vocazionale è diventata fonte di preoccupazione. Quali sono i fattori determinanti di questo calo e quali misure sta adottando la Chiesa nipponica per arginare questo fenomeno?

In effetti il vero problema per la Chiesa in Giappone è la mancanza di vocazioni. Molti sacerdoti delle nostre parrocchie sono vietnamiti, coreani o filippini. Nel 1989 in tutto il Paese c'erano 130 seminaristi minori e 97 maggiori, mentre nel 2007 erano solo 26 seminaristi minori e 76 maggiori. Nella nostra diocesi abbiamo un seminario minore, l'unico in tutto il Giappone, in cui nel 1989 c'erano 82 seminaristi (solo per Nagasaki) e adesso solo 21 (15 per Nagasaki). Avevamo 36 seminaristi maggiori nel 1989, ora solo 13. Non possiamo attenderci un aumento delle vocazioni sacerdotali nel prossimo futuro, ma speriamo che l'interesse suscitato dalla beatificazione dei martiri possa aiutare la nostra opera di evangelizzazione.



(©L'Osservatore Romano - 28 novembre 20008)

Libro "Oltre la gloria" di David Margolick

Un volume tra reportage e racconto su un incontro di pugilato destinato a segnare un'epoca

E il mito della razza
andò al tappeto


di Gaetano Vallini

"Il declino della potenza nazista ebbe inizio con un gancio sinistro di un autista senza alcuna nozione di politica estera". Detta così sembra un'affermazione decisamente improbabile. Eppure ha un suo fondo di verità. Se non altro quanto accadde la sera del 22 giugno 1938 nello Yankee Stadium di New York - il gancio sinistro con il quale il pugile nero Joe Louis mandò per la terza e definitiva volta al tappeto il tedesco Max Schmeling dopo appena due minuti e quattro secondi di match - fu una sorta di presagio di quanto sarebbe tragicamente accaduto in seguito.
Ad affermarlo è lo scrittore e giornalista David Margolick in Oltre la gloria (Milano, il Saggiatore, 2008, pagine 432, euro 23), un interessante libro a metà strada tra il reportage e il racconto nel quale ricostruisce dettagliatamente la genesi, lo svolgersi e le conseguenze di quell'epico incontro di pugilato combattuto sullo sfondo di un mondo che stava precipitando nel baratro di un'altra guerra mondiale. Un match che agli occhi dell'opinione pubblica mondiale non si presentò solo come un combattimento per il titolo mondiale dei pesi massimi e come la rivincita tra due indiscussi campioni (Louis era stato sconfitto nel 1936): su quel ring si scontravano un nero e un bianco, un americano e un tedesco, il riscatto degli afroamericani e la supposta superiorità della razza ariana.
Un peso davvero eccessivo sulle spalle di due soli uomini, che comunque non esitarono a portarlo, consci di quali sarebbero state le conseguenze in caso di sconfitta. Louis, chiamato il brown bomber, il "bombardiere nero", incarnava la democrazia e realizzava il sogno di tanti suoi simili d'ottenere sul ring una vendetta impunita nei confronti dei bianchi e di dare un colpo alle teorie razziste di stampo nazista. Tre settimane prima dell'incontro Louis era stato ricevuto dal presidente Roosevelt il quale, secondo quanto riportato dal "New York Times", gli avrebbe detto: "Joe, abbiamo bisogno dei tuoi pugni per battere la Germania". E lo stesso pugile scrisse più tardi nella sua autobiografia: "Avevo le mie ragioni per vincere contro Max, ma sapevo che un intero Paese contava su di me".
Schmeling, per contro, si identificava con il prototipo di boxeur-soldato decantato da Hitler nel Mein Kampf. Era, quindi, uno strumento della propaganda nazista che lo proponeva quale paladino della purezza della razza. Il pugilato, del resto, era esaltato dal Führer che, nella cultura ricreativa del Reich, lo poneva al primo posto tra gli sport per coraggio, risolutezza, velocità di calcolo e sangue freddo. Inoltre la Germania veniva dal trionfo dell'olimpiade di Berlino del 1936; trionfo appena "macchiato" dalle vittorie del "negro" Jesse Owens. Il giorno del match il pugile ricevette un cablogramma di Hitler che pareva non contemplare l'ipotesi della sconfitta: "Al futuro campione del mondo, Max Schmeling. Auguri di ogni successo".
Riassumendo la portata dell'evento, un cronista sportivo di Boston quella mattina aveva scritto: "Louis rappresenta la democrazia nella sua forma più pura: il ragazzo nero al quale è stato permesso di diventare campione del mondo a prescindere dalla razza, dalla religione o dal colore. Schmeling rappresenta una nazione che non riconosce questa idea né questo ideale". Entrambi - issati come vessilli delle rispettive nazioni e dei valori che queste propugnavano - sapevano che gli occhi del mondo erano puntati su di loro.
Fin dal mattino di quella giornata storica a Berlino, Londra, Tokyo, Johannesburg, Mosca e Roma tutti i giornali avevano riservato ampio spazio all'incontro. Era il primo evento mediatico mondiale: quella sera ai 70.000 paganti dello Yankee Stadium si sarebbero aggiunti oltre 100 milioni di persone che avrebbero seguito l'incontro alla radio in tutti i continenti: 60 milioni negli Stati Uniti, altri 20 milioni in Germania nonostante fossero le 3 del mattino.
I due pugili arrivarono all'appuntamento con la storia con percorsi diversi. Max Otto Adolph Siegfried Schmeling era nato a Luchow nel 1905, soprannominato l'"ulano nero del Reno", aveva conquistato il titolo mondiale dei pesi massimi nel 1930 contro Jack Sharkey. Ma mantenne la corona appena due incontri. A sottrargliela fu lo stesso Sharkey due anni più tardi. Il 19 giugno 1936 il suo nome tornò in prima pagina proprio grazie alla vittoria contro Louis, allora appena ventiduenne ma dato per favorito dagli allibratori.
Nato in Alabama ma cresciuto a Detroit, il giovane Joe fu segnato da quella sconfitta. Fin da subito il suo obiettivo, oltre alla conquista del titolo, fu la rivincita. Il primo obiettivo lo raggiunse nel 1937 - primo nero dopo Jack Johnson a conquistare il titolo dei pesi massimi - vincendo a Chicago contro James "Cinderella Man" Braddock. Ma ai giornalisti, dopo la vittoria, Louis confessò: "Campione? Non mi sentirò davvero campione finché non avrò messo al tappeto Schmeling".
Il giorno della rivincita alla fine arrivò. Schmeling aveva 32 anni e pesava 87,500 chili, Louis 24 anni e 90,100 chili di peso: l'esperienza contro la spregiudicatezza della gioventù. Ma ci fu ben poco da vedere. Joe tenne fede alla promessa: "Questa volta lo sistemo in fretta", aveva detto. E così al suono della campanella del primo round l'americano si lanciò sull'avversario tempestandolo di terrificanti colpi. Schmeling finì al tappeto due volte e alla terza l'arbitro Art Donovan decretò la fine dell'incontro dopo appena 124 secondi. Per il tedesco fu una sconfitta umiliante, che tra l'altro gli costò un ricovero in ospedale per la rottura di alcune costole.
Gli statunitensi - i neri soprattutto - festeggiarono; i tedeschi ingoiarono l'amaro boccone. Un boccone che per Hitler fu difficile da digerire. E quando Schmeling cominciò a insistere per un terzo incontro, intervenne di persona per evitare un'altra umiliante sconfitta: troppo grande era parso il divario tra i due pugili per rischiare un'altra figuraccia. E comunque poco più tardi di un anno dopo sarebbe scoppiata la guerra e non ci sarebbe stato più tempo per i giochi. Tuttavia, sia pure con minore entusiasmo, la propaganda continuò a usare Schmeling proponendolo ancora come modello di comportamento ai ragazzi tedeschi. Ma, come annota Margolick, "Schmeling non avrebbe certo continuato a godere del favore ufficiale, se le autorità avessero saputo che nella notte del 9 novembre 1938 - la Notte dei cristalli, quando in tutta la Germania i nazisti distrussero i negozi e le sinagoghe degli ebrei e ne mandarono a migliaia nei campi di concentramento - lui andò a prendere due adolescenti ebrei, figli di un vecchio amico, li portò al suo albergo di Berlino, nella sua suite, e li tenne lì al sicuro per diversi giorni, fino a quando il peggio non fu passato". Mentre come personaggio pubblico appariva inconsapevole dell'importanza simbolica di quello che faceva - o comunque provava a barcamenarsi dinanzi all'opinione pubblica cercando di compensare la vicinanza al regime con gesti inconsueti, come la scelta di un manager ebreo in America - "come privato cittadino era capace di atti di coraggio e di pietà nei confronti di singoli individui, atti che per la loro stessa natura rimasero ignoti. (...) E sebbene sia difficile trovare altri esempi specifici, pare che il suo appoggio alle vittime della persecuzione nazista si sia intensificato con l'inasprirsi delle atrocità di Hitler".
Negli anni del conflitto entrambi i pugili finirono arruolati nei rispettivi eserciti, più come icone che come soldati. Al termine delle ostilità l'eco del loro storico incontro era svanita. La storia aveva fatto il suo corso e pronunciato il suo verdetto, peraltro preconizzato da quel gancio sinistro. Louis, che aveva difeso il titolo 21 volte ed era entrato nell'olimpo del pugilato, riprese a combattere, ma ormai era sul viale del tramonto. La salute lo tradì, così come alcuni investimenti azzardati e trascorse gli ultimi anni di vita in miseria. Morì il 12 aprile 1981 per un attacco di cuore: aveva sessantasei anni.
Al contrario, anche se all'epoca sarebbe stato difficile immaginarlo, la sera del 22 giugno 1938 Schmeling si tirò su da quel tappeto. E mentre la stella di Louis si spegneva, la sua diventava sempre più luminosa. La nuova Germania, assetata di eroi, lo pose subito nel suo pantheon. A suo favore giocò il fatto che non fosse mai stato iscritto al partito nazista. Dopo la guerra provò a risalire sul ring e a riabilitarsi anche negli Stati Uniti. La prima cosa non riuscì, era troppo vecchio; la seconda sì, anche se con fatica. Ma soprattutto cercò di incontrare ancora il suo rivale, a cui si sentiva molto legato e con il quale voleva chiarire le cose. E quando si trovarono finalmente faccia a faccia, nel 1954, cercò di spiegargli che non era mai stato il mostro nazista dipinto dagli altri. Ma Louis lo interruppe subito: "Non c'è niente da spiegare, Max. Noi due siamo amici. Il resto è acqua passata".
"Il suo trionfo con Louis - conclude Margolick - aveva costituito il culmine della sua carriera. La sua sconfitta da parte del brown bomber gli aveva risparmiato un'infamia maggiore e lo aveva reso immortale. Louis rappresentava la sua giovinezza, e anche il suo legame con l'America, la nazione che aveva sempre amato, fosse solo alla sua maniera opportunistica. E soprattutto, fu Louis a fornire a Schmeling ciò che più desiderava: un'espiazione".



(©L'Osservatore Romano - 28 novembre 20008)

Convegno "La scienza 400 anni dopo Galileo Galilei"

Si è chiuso a Roma il convegno "La scienza 400 anni dopo Galileo Galilei"

Consigli per la mente di uomini seri


di Marilena Amerise

"La scienza 400 anni dopo Galileo Galilei", il titolo del convegno che si è svolto ieri, 26 novembre, nel complesso monumentale di Santo Spirito. Un convegno promosso da Finmeccanica e dal Pontificio Consiglio della Cultura e che ha visto la presenza di illustri ospiti, quali il cardinale Tarcisio Bertone che ha rivolto alla nutrita assemblea il saluto iniziale.
Il perché di tale iniziativa, nata dalla collaborazione tra il Dicastero vaticano preposto alla cultura e uno dei più importanti gruppi nel settore dell'alta tecnologia, è stato spiegato da monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, nel suo discorso che ha concluso i lavori, pubblicato dal nostro giornale.
Finmeccanica sente Galileo come una figura capitale nella sua storia e per questo, in occasione dell'Anno internazionale dell'Astronomia nel 2009 e del sessantesimo anniversario della fondazione del gruppo, essa ha ritenuto opportuno partire da questa figura per far comprendere alla società che la ricerca scientifica non esaurisce le conoscenze su uomo e cosmo, ma deve aprirsi a un dialogo per cogliere la complessità del reale e delle domande ultime dell'esistenza.
Bisogna guardare al futuro con ottimismo nei riguardi dei rapporti tra scienza e fede in quanto "la scienza può purificare la religione dalla superstizione e la religione può purificare la scienza dai falsi assoluti", ha ricordato monsignor Ravasi menzionando la lettera che nel 1988 Giovanni Paolo ii scrisse al gesuita George Coyne, presente all'incontro.
In tal senso, Pier Francesco Guarguaglini, presidente e amministratore delegato di Finmeccanica, ha dichiarato che "questo convegno sulla figura di Galileo Galilei, promosso da Finmeccanica in occasione del suo sessantesimo anniversario, vuole favorire una riflessione sulla relazione tra la scienza, che attraverso la ragione, l'intuizione e le sue conoscenze tecniche verifica ciò che è possibile e ciò che è impossibile in natura, e il mondo spirituale, che accompagna l'uomo nella sua ricerca del bene per sé e per l'umanità".
La collaborazione tra Pontificio Consiglio della Cultura e Finmeccanica nella realizzazione di questo incontro è pertanto motivata dall'esigenza di portare avanti una riflessione sulle implicazioni etiche delle conoscenze scientifiche e della tecnica.
Esplicativo a questo proposito è il sottotitolo del convegno: "Il valore e la complessità etica della ricerca tecno-scientifica contemporanea", spiega monsignor Melchor Sánchez de Toca, sottosegretario del Pontificio Consiglio della Cultura, che ha seguito da vicino le fasi di realizzazione di questo evento. Sensibilizzare il mondo scientifico e l'opinione pubblica alle applicazioni della scienza e incentivare in tal modo, attraverso la dimensione etica, un dialogo tra scienza e religione e una riflessione sul rapporto con la fede è sembrato un tema di prioritaria importanza.
Non solo la scienza, ma anche le sue applicazioni e la tecnica suscitano dibattiti etico-filosofici nell'evidente impatto antropologico e sociale che richiede una adeguata considerazione da diversi punti di vista per evitare esclusivismi di ogni sorta che riducano tutto a necessità e tecnicismo o di contro tutto a miracolistico.
I relatori, moderati da Riccardo Chiaberge, hanno messo bene in luce questo aspetto che costituiva il tema conduttore dell'incontro. Edoardo Vesentini, matematico italiano, ha puntualizzato la figura di Galileo scienziato e si è quindi soffermato a illustrare la razionalità del metodo scientifico e in particolare il metodo galileiano. Ugo Amaldi, presidente della Fondazione per Androterapia oncologica, ha sottolineato che "I problemi scientifici, come quelli discussi sinora, sono soltanto una piccola frazione delle domande "generali" che gli uomini pongono e si pongono e che possono essere classificate in problemi scientifici, questioni filosofiche e quesiti esistenziali. Nel rispondere a tutte queste domande ciascun uomo impiega tre componenti di una stessa e unica ratio, dell'unico intelletto: la razionalità scientifica - che risponde ai problemi scientifici, la ragione filosofica - che considera le questioni filosofiche, e la ragionevolezza sapienziale - che risponde ai quesiti esistenziali. Questa distinzione non è nominalismo, perché a ciascuna di queste componenti corrispondono oggetti, metodologie e criteri di verità diversi".
A sua volta il gesuita George Coyne, direttore emerito della Specola Vaticana, ha tracciato una densa panoramica storica sulle leggi di natura e finalità nell'universo a partire dalla mitologia greca alla nascita della scienza moderna fino alla nuova fisica, arrivando alla conclusione che: "È legittimo affermare che, da Platone a Newton, la controversia relativa alla parte che la matematica ha avuto nel giungere a una comprensione scientifica dell'universo si è dispiegata in una cornice religiosa. E oggi, dopo un periodo di quello che potrebbe essere definito "razionalismo ateo", si sente di nuovo da parte degli scienziati il ritornello relativo allo scoprire "la mente di Dio"".
Dialogo tra scienza e la sua applicazione e fede, pur nella "casta custodia delle frontiere" che però non devono diventare cortine e nella consapevolezza che anche la teologia è una scienza propria con uso specifico della ragione, come ricordava monsignor Ravasi, che ha terminato l'incontro richiamando una significativa frase di Max Planck: "Scienza e religione non sono in contrasto, ma hanno bisogno l'una dell'altra per completarsi nella mente di un uomo che vuole pensare seriamente".



(©L'Osservatore Romano - 28 novembre 20008)

Rondoni sulla Pala di Gand

L'uomo contemporaneo di fronte alla Pala di Gand

L'assordante belato
che sale dal mondo


Uno dei capolavori dell'arte fiamminga - il polittico dell'Adorazione dell'agnello mistico di Jan e Hubert Van Eyck - viene presentato in un libro d'arte curato da André Pinet (La pala di Gand, Genova-Milano, Marietti 1820, 2008, pagine 113, euro 70). Pubblichiamo ampi stralci della prefazione.

di Davide Rondoni

Cosa chiameremo quando diremo "agnello"? Cosa ci viene in mente, e cosa ci viene agli occhi se diciamo la parola che per secoli ha indicato l'innocente sacrificato sulla pietra, sull'altare? Che belato di bambino o dalla bocca di spastico o da che uomo invecchiato e impotente nella innocenza indecente degli anni? O che vittima tra le migliaia che ci hanno fatto piangere in questi anni bui e sfarzosi? I quattro bambini rubati in un lampo di granata la settimana scorsa? Li han fatti saltare assieme alla madre che preparava loro la colazione in una zona contesa tra guerriglia palestinese ed esercito d'Israele. A noi che Israele non siamo più, né altro popolo formatosi in pastorizia dopo diversi tipi di nomadismo o di esilio, a noi che non sentiamo mai belare nessun agnello se non quello sperduto del cuore, che vittima, che cosa viene in mente che abbia e ci passi almeno un po' di quel tremore? La madre non è morta subito, ha avuto il tempo d'esser portata all'ospedale. mentre i suoi quattro piccoli agnellini erano già stati presi dal fuoco e dal buio. Come se lei volesse avere il tempo per chiedere, per vedere se di là dal lampo tremendo ci fosse dopo il buio una tavola apparecchiata per loro quattro, e una mattina ancora.
Avremo in mente i quattro bambini che il Dio delle colazioni avrà preso con sé o quell'altra piccola di cui mi è giunta notizia, dannata da una malattia rara? Che belato ci ferirà la mente? La supplica di lei che in video piangeva d'essere risparmiata dai tagliatori di gole e non lo fu?
Perché senza sentire quel belato, l'indescrivibile voce dell'innocente, il suo viso di capretta sperduta, non potremmo mai guardare veramente questo portentoso quadro. Non capiremmo niente. Senza avere nelle fibre, senza sentire addosso il belato infinito, replicato, individuale e orchestrale, non possiamo capire niente del coro di figure che nella pala si dispone. Senza tremare per la voce che più di ogni altra fa tremare, che fa silenzio terribile, senza avere negli occhi un viso ingiustamente condannato, di bambino, o embrione o cucciolo di bestia che sia; sì, senza avere addosso l'assordante belato che sale dal mondo, il belato buio, il belato notte di ogni altra voce, il suo sfaglio, il dolce e tremendo viso di un essere innocente, la sua scandalosa presenza, senza quasi belare noi stessi, o con un nodo, un tronco ritorto di voce anche noi che ci resta in gola sentendo quel belato, no, non vedremmo niente in questo miracoloso e delicato quadro. Non vedremmo nulla della sua pena e della sua gloria. Che attraversano i secoli, immagine sepolta da tante immagini, e pur nitidissima.
Se non ci disponiamo un istante con gli occhi chiusi a sentire il belato che non cessa mai, non avremo lo sguardo pronto per questo trattenuto fulgore.
Feriscici la mente, agnello che non cessi di tornare a brucare nelle nostre mani, negli occhi e nei nostri petti con le mille figure dell'innocenza violata. Feriscici la mente.
E infatti il borgomastro Joos e sua moglie Isabella vollero che si dipingesse la storia intera intorno all'agnello. Per offrire alla nostra mente la sapienza. E la pazienza. Adamo ed Eva che guardano l'agnello. Abele e Caino. Le sibille custodi e suggeritrici dell'enigma. Virgilio tra i profeti. Vollero le Fiandre come Betlemme. Come se la storia non avesse senso senza il mistero tremendo dell'innocenza colpita. Come se non la si potesse raffigurare, e dunque neanche pensare, senza avere al centro il mistero dell'innocente che muore. La Grande Ingiustizia come perno del movimento millenario. Del movimento universale. Come se il borgomastro non potesse reggere nulla, e la sua donna esser donna di niente senza rammentare che al centro della storia sta lo scandalo, e non il tornare dei conti. Il belato dell'innocente che va a morire e non la conversazione amabile tra reggitori e dame della città. Come se non si potesse pensare a niente, nemmeno a se stessi, senza considerare al centro quel maledetto e benedetto altare.
Senza quel belato non avrebbe senso nulla. Sarebbero tutte figure vane. Le colombe dello spirito, come gli sguardi assorti di Adamo ed Eva. Giovanni il Battista, e Giovanni l'Evangelista. E il cartiglio delle parole dell'Arcangelo gentile e nobile rivolte a Maria, che ha il viso teso e imperscrutabile delle dame fiamminghe. E neanche il cartiglio scritto al contrario, delle parole che da lei qui come nel Beato Angelico sono parole che escono e non entrano dalla bocca. Come se la pala della storia, profana e sacra che sia, non si potesse aprire senza trovare al centro il controsenso supremo dell'innocente colpito. Che tiene su le parole al diritto e anche le parole al contrario. Le parole della proposta di Dio e quelle della più alta disponibilità umana. Anche quell'architrave, dell'Angelo e di Maria, non starebbe in piedi, non si reggerebbe, senza l'esposizione dell'agnello. Del sacrificio. Del controsenso. Le parole dette dall'angelo e quelle dette da lei, che ha il volto di chi sa.
Così come sanno anche Adamo ed Eva, colti nel momento in cui si riconoscono davvero. Nudi anche in questa delicatezza di raffigurazione. Nudi di più, se così si può dire, anche e proprio perché così degnamente e decorosamente pitturati. Il loro sguardo iniziale va verso l'altare, come se avessero compreso che anche la loro storia oscura, il loro primario tradimento e il loro ritrovamento non fossero niente se non l'annuncio e il presentimento che doveva accadere qualcosa di più forte ancora. Di più che un tradimento e un ravvedimento. Qualcosa di più radicale. Di più misterioso che non la sola conoscenza del male e del bene. Come se sapessero che doveva accadere qualcosa di più oscuro. E guardano in quella direzione. Maggiormente scandaloso che non la nudità della loro presa di coscienza del bene e del male.
Doveva accadere che male e bene si incontrassero fino al punto più alto della loro forza contraddittoria. Fino al punto più alto e profondo del loro combattimento. Fino alla figura e alla vicenda che non lascia nemmeno spazio tra il bene e il male, perché li assume insieme, contemporaneamente. In una figura sola, in una agonia. Che è dell'innocente sull'altare. Il punto in cui il bene non si accontenta di succedere al male. Non si accontenta di tenergli testa. Di vincere. Come se non bastasse nemmeno quel superamento. Quel mettere in fila, e nella successione giusta, l'esperienza del male e quella del bene. Come se si dovessero addirittura abbracciare. E, scandalosamente, baciare. Cosa è infatti l'innocente che muore se non l'atto imprevedibile dove il male è usato dal bene? Dove non si cancella il male superandolo, lasciandoselo alle spalle come l'albero spogliato. Ma il male diviene attore del bene.
Mistero dei misteri. Figura unica adombrata da sempre sotto ogni latitudine e usanza: il sacrificio dell'innocente.
Ma qui c'è ancora da stupire. Da trasalire. Perché non basta che il male sia usato dal bene. Che il sangue coli per un bene. Non basta andare oltre la sola dinamica colpa e punizione. Perché l'agnello, e il sacrificio stavolta è Dio stesso. Non è colui che attende perduto nei reami celesti. No, è lui a belare, a farsi embrione, vecchio da spostare sul letto, bambini uccisi a colazione, donna che supplica in video, ragazzetto morto di fame, lui è l'essere indifeso che poggia la testa e offre la giugulare. È Dio stesso che lascia i cieli e posa la testa sulla pietra. E bela come un abbandonato. O pittore, di due nomi, due cuori e due o quante mani che hai voluto fissare per i secoli questo momento che non passa. Dio che mette se stesso sull'altare. E il suo belato fa tremare la storia intera.
Si voltano a guardarlo le sibille, i primi umani, i profeti e le Fiandre che sono come la luce ferma e infinita di ogni paese! Cosa hai fatto, pittore... Potevi scegliere altri soggetti o lo hai dovuto fare? Quale congregazione o volere di borgomastro ti ha obbligato a guardare al momento dell'agnello? Al momento che non si riesce a immaginare. Dio non è più colui che attende il sacrificio, e ne resta a godere. Crescendo nella sua divinità. No, è lui a patirlo, sprofondando nella nostra umanità. Belando come un demente. Agnello bellissimo e inguardabile come un figlio che va a morire. Il più grande innocente trattato come il più grande colpevole. Crisi, perno, scandalo e tavola centrale della storia.
Qui si deve trasalire ancora, e stupire ancora. Perché quel belato che ci arriva se chiudiamo gli occhi, se li serriamo dopo aver visto quel che ci tocca di vedere, e che viene da milioni di innocenti è il belato sperduto di Dio.
E noi facciamo coro, davanti alla Pala di Gand, con Adamo ed Eva, con i profeti e le sibille che sapevano e non sapevano, con Maria che sapeva, e con gli avi e le città; facciamo coro muto.
Perché Dio che abita i cieli è sceso nel punto scandaloso della storia. Nel punto che non torna. È sceso nel controsenso. Nel luogo inabitabile. Dove l'innocente soffre. Dove si manda all'aria e saltano come stracci tutti i nostri ragionamenti. E le parole conoscono il buio. È arrivato lì, dove non si vorrebbe guardare. E ha reso il posto più inospitale del mondo il suo posto. Il posto di Dio. Ha preso per sé il posto che è cloaca di tutti i nostri pianti, che è tensione di tutti nostri pugni chiusi nell'ombra e di tutte le nostre bestemmie. Perché è venuto proprio qui dove l'ingiustizia non si colma. Dove la bocca che piange non si chiude. E dove il maledetto belato non cessa. Ne ha fatto il suo reame. Perché lo trovassimo qui dove pensiamo che ci aspetti solo il buio, solo l'amaro scandalo.
E tu, pittore di due nomi, due cuori, più mani, hai dipinto tutto questo delicatamente. I simboli posati sull'erba, i cespugli, la valle, i gentiluomini...
Con una pittura sospesa di stupori e così certa della natura dell'evento. Alla nostra distanza opponi la tua familiare vicinanza con l'esattezza dell'evento. Alla nostra divagata disperanza opponi - e proponi - la tua paziente esattezza paesaggistica e teologica. La tua gentilezza seria. Alla nostra divaricata mente, opponi - e proponi, ti prego proponi - la tua discreta e chiarissima concentrazione. E alla nostra divorante e dolorosa smania opponi la precisione delle figure incise nella luce. Come per raccogliere il dolore e la inconsapevolezza. Come per dare riposo agli occhi e alla mente. Un riposo vigile. Dove l'intornabile torna. Dove il vuoto in cui il belato della vita ci svanisce torni ad agglomerarsi. In tensione d'architettura, in disposizione di spazi. In preziosità di particolari, nelle vesti, nelle sfumature dei volti, l'inclinazione degli sguardi. Alla nostra cecità a riguardo di tutte queste cose proponi la visione lungamente lavorata della tua pazienza.



(©L'Osservatore Romano - 28 novembre 20008)

Mumbai messa a ferro e fuoco da un gruppo di estremisti islamici (OR)

Attacco al cuore dell'India


Appello di Benedetto XVI per la fine di tutti gli atti di terrorismo

New Delhi, 27. Attacco al cuore dell'India. Mumbai, la capitale economica del Paese, è stata fatto bersaglio ieri sera da una serie senza precedenti di azioni terroristiche coordinate. In un telegramma a firma del cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, inviato all'arcivescovo di Bombay, cardinale Oswald Gracias, Benedetto XVI si è detto "profondamente preoccupato per l'esplosione di violenza a Mumbai". "Sua Santità - si legge nel telegramma - lancia un pressante appello per la fine di tutti gli atti di terrorismo, che offendono gravemente la famiglia umana e destabilizzano duramente la pace e la solidarietà necessari per costruire una civiltà degna della nobile vocazione dell'umanità all'amore di Dio e del prossimo".
In una dichiarazione all'Ansa, il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, il gesuita Federico Lombardi, ha affermato che gli attacchi terroristici di Mumbai riguardano "l'intera comunità internazionale". E i vescovi della Conferenza episcopale dell'India hanno dichiarato che "il terrorismo è il male, il disprezzo assoluto della vita umana".
La città affacciata sul Mar Arabico è stata praticamente messa a ferro e fuoco da un'ondata di deflagrazioni e sparatorie: uno degli attacchi più sanguinosi e meglio organizzati della storia del terrorismo internazionale. Alcuni commando con armi ed esplosivi hanno attaccato obiettivi turistici e alberghi di lusso, in particolare il Taj Mahal e l'Oberoi-Trident - frequentati per lo più da cittadini occidentali - alcuni uffici e la stazione ferroviaria Chhatrapati Shivaji Terminus, già nota come Victoria Terminus. Qui, secondo drammatiche testimonianze raccolte dalla Bbc, gli attentatori hanno ucciso senza pietà decine di persone in attesa dei treni a lunga percorrenza. Difficile quantificare le vittime. Le autorità parlano di oltre cento morti. Ma è plausibile che le persone rimaste uccise siano molte di più. Centinaia i feriti, mentre un numero imprecisato di ostaggi sono ancora nelle mani dei terroristi parecchie ore dopo l'inizio dell'attaco.
Il Governo indiano ha inviato l'esercito per affiancare la polizia di Mumbai e centinaia di uomini dei corpi speciali come la Rapid Action Force e le teste di cuoio della National Security Guard, specialisti delle operazioni anti-terrorismo. Almeno quattro terroristi e undici poliziotti sono morti negli scontri a fuoco. La polizia indiana ha fatto sapere che un blitz delle forze speciali al Taj Mahal ha avuto esito positivo, mentre l'albergo Oberoi-Trident non è stato ancora liberato dai terroristi, asserragliati all'interno.
Secondo i racconti di alcuni testimoni oculari, gli assalitori "volevano sequestrare chiunque avesse un passaporto britannico o statunitense". Fonti giornalistiche indiane rendono noto che tra le vittime straniere figurano un cittadino italiano, un britannico, un giapponese e un australiano. Tra i feriti, oltre duecento, ci sono cittadini di Australia, Stati Uniti, Spagna, Norvegia, Canada e Singapore. Il vicepremier dello Stato del Maharashtra, del quale Mumbai è la capitale, ha comunque fatto sapere che non ci sono trattative in corso con i terroristi ancora asserragliati negli hotel della metropoli costiera indiana.
Unanime la condanna internazionale per gli attentati. Il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ha definito "inaccettabile" l'esplosione di violenza in India, mentre in un comunicato da Camp David il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, ha condannato con forza i simultanei attentati di Mumbai. "La democrazia indiana sopravviverà all'odiosa ideologia che ha provocato questi attacchi", ha fatto sapere da Chicago il presidente eletto degli Stati Uniti, Barack Obama, che è stato tenuto al corrente direttamente dal segretario di Stato, Condoleezza Rice. "Questi attacchi coordinati contro civili innocenti - ha detto il portavoce di Obama, Brooke Anderson - dimostrano la grave e urgente minaccia del terrorismo. Gli Stati Uniti devono continuare a rafforzare le alleanze con l'India e con le Nazioni del mondo per sradicare e distruggere le reti terroristiche".
"L'Unione europea ha appreso con orrore e indignazione degli atti terroristici di Mumbai e condanna con forza la presa di ostaggi ancora in corso". È quanto si legge in un comunicato della presidenza francese di turno dell'Ue.
Anche il Pakistan - storico rivale dell'India - ha promesso pieno sostegno e cooperazione nella lotta al terrorismo. In un messaggio di solidarietà il presidente, Asif Ali Zardari, ha sottolineato la necessità di "forti misure per sradicare il terrorismo e l'estremismo dalla regione". In passato, l'India ha più volte accusato i servizi di sicurezza del suo vicino a maggioranza musulmana di fornire sostegno agli attacchi contro le truppe di New Delhi nello Stato del Jammu e Kashmir e ai terroristi islamici che operano sul suo territorio. Il presidente russo, Dmitri Medvedev, ha definito gli attacchi terroristici a Mumbai "una sfida a tutta l'umanità".
La sanguinosa serie di attentati non ha finora ricevuto nessuna rivendicazione ufficiale. Al momento, il sedicente gruppo estremista islamico, finora sconosciuto, dei Deccan Mujahiddin si è assunto la responsabilità degli assalti armati a Mumbai con una e-mail inviata a diversi quotidiani locali. Secondo autorevoli analisti, la strategia e la tecnica di assalto farebbero invece pensare ad un'azione preparata dall'organizzazione terroristca di Al Qaeda. Il premier indiano, Manmohan Singh, ha rilevato che gli attacchi terroristici di Mumbai sono stati "ben organizzati" e hanno "probabilmente collegamenti esterni".
La serie di attacchi simultanei e coordinati avvenuti ieri sera a Mumbai trova un precedente tragico l'11 luglio del 2006. Nell'estate di due anni fa, si contarono infatti quasi duecento morti e oltre settecento feriti in sette esplosioni registrate nel giro di una ventina di minuti in altrettante stazioni ferroviarie della città.


(©L'Osservatore Romano - 28 novembre 20008)

martedì 25 novembre 2008

Sulla rimozione dei crocifissi dalle aule scolastiche in Spagna

Determinante l'opera dei missionari

Una semplice croce


di Juan Manuel de Prada

Un tribunale spagnolo ha appena emesso una sentenza con la quale si sollecitano i responsabili di una scuola pubblica a rimuovere i crocifissi dalle aule, adducendo come motivazione che la presenza di una semplice croce viola il "diritto fondamentale alla libertà religiosa e di culto". A nessuna persona in pieno possesso delle proprie facoltà sfugge che il segno della croce non viola nessun diritto fondamentale; tuttavia, da qualche tempo, l'invocazione di diritti e libertà si sta trasformando in Spagna in un pretesto giuridico che maschera un sentimento di odio antireligioso e di "cristofobia" - come in modo molto appropriato lo ha definito il cardinale primate Cañizares - sentimento che l'autorità avrebbe l'obbligo di perseguire, invece di concedergli una copertura giuridica. Da qualche tempo, in Spagna l'alone di odio attorno alla Chiesa di Dio - così definì Chesterton in L'uomo eterno quella "fosforescenza extraterrena" che, nei crepuscoli della storia, perseguita i cristiani - si è mascherato di giuridicità, sostituendo l'accanimento cruento di altre epoche non troppo lontane con un'apparenza più sibillina e asettica.
La visione di un crocifisso chi può offendere? Non, naturalmente, quanti non sono stati educati nel cristianesimo; poiché, per questi, un crocifisso sarà come il monolite che adoravano gli uomini delle caverne, una figura priva di significato religioso in cui, forse, scopriranno un significato storico. Non può esserlo neppure per quanti, educati nel cristianesimo, non professano però la fede cattolica; e oserei dire che, per questi ultimi, il crocifisso può riassumere le più nobili vocazioni dell'uomo: vocazione di dedizione e di carità, da un lato, vocazione di mistero e infinitezza, dall'altro. Nulla di offensivo, dunque. Il crocifisso, in definitiva, può offendere solo quanti vogliono - e in questo consiste in realtà il laicismo, per quanto si nasconda dietro alibi giuridici - che lo Stato diventi un nuovo dio, con potere assoluto sulle anime.
Che si giunga a considerare un crocifisso offensivo in Occidente si può solo interpretare come un sintomo allarmante di amnesia o necrosi culturale; o - così ha detto Benedetto XVI nel suo discorso di apertura del recente Sinodo - come una "perdita d'identità". Da qualche tempo, un impulso autodistruttivo si sta impossessando dell'Europa, trovando la sua espressione più triste e pervicace nell'ansia di cancellare dalla nostra memoria il lascito morale e culturale del cristianesimo; e in Spagna questo impulso autodistruttivo assume espressioni violente. Come gli scorpioni che si pungono con il proprio pungiglione e agonizzano vittime del loro veleno, si direbbe che noi europei abbiamo deciso di annichilirci, emarginando e dimenticando l'eredità storica che ci costituisce. S'inizia a confondere la sana laicità dello Stato con una belligeranza antireligiosa che cerca di negare all'uomo il suo vincolo con la trascendenza, che cerca di cancellare la nostra genealogia spirituale e culturale. L'Europa sembra aver dimenticato che la patria dell'uomo, come ci ha insegnato Maritain, è l'Assoluto.
Quando l'uomo viene esiliato da questa patria comune, quando gli viene strappata questa parte irrinunciabile di se stesso, lo si sta condannando allo sradicamento, alle intemperie, all'abbandono, alla disperazione; lo si sta relegando, in definitiva, alla condizione di triste materia.
Il fatto che questo impulso autodistruttivo giunga alle scuole ci pone dinanzi a una realtà paurosa. Il Crocifisso ci insegna che la morte non ha dominio sull'uomo, che il motivo del nostro cammino terreno non è altro che il trionfo della vita. Quando si sa questo, tutto il resto acquista significato. Tuttavia il laicismo che oggi trionfa in Spagna ci vuole sempre più orfani d'identità; e sa che quando noi spagnoli smetteremo di guardare a colui che è appeso a quel legno, avremo smesso di sapere chi siamo e saremo pronti a essere ciò che vogliono fare di noi. Il laicismo intende privare di "senso" la trasmissione culturale della conoscenza, trasformandola in un mero accumulo di dati sconnessi; e per questo si sforza di allontanare i crocifissi dalla contemplazione dei bambini, poiché alla luce del Crocifisso i pezzi della conoscenza si assemblano, formano un amalgama che nutre di significato la vita e la storia umana.
In quella semplice croce si riassume la storia del genere umano, con tutta la sua genealogia di debolezza e grandezza, gioia e dolore. In quella semplice croce vengono riassunte e denunciate tutte le barbarie che l'uomo ha perpetrato, dall'uccisione di Abele fino a uno qualsiasi dei massacri che oggi decimano l'umanità; in essa si plasma il nostro fecondo anelito di ribellarci contro la morte. In quella semplice croce si riassumono le due vocazioni più nobili dell'uomo: una vocazione di pietà e di donazione dinanzi alla sofferenza umana; e, insieme a essa, spiegandola, una vocazione di trascendenza che ci aiuta ogni giorno a risuscitare dalle macerie della nostra fragilità. Per venti secoli, il mistero della Croce è servito anche da gioiosa ispirazione alle più durature creazioni dell'arte e dell'intelletto; né Velázquez né Unamuno, per citare solo due figure spagnole che confluiscono dinanzi all'immagine del Crocifisso, sarebbero spiegabili senza tale mistero. Venti secoli di cultura occidentale si riassumono in questi due legni nudi: venti secoli di conquiste che nobilitano la storia umana; venti secoli agitati di crudeltà che un Dio che si immola per le sue creature ci invita a detestare. In quella semplice croce, equilibrio umano dei due comandamenti, vi è tutto ciò che siamo, tutto ciò a cui aneliamo essere, tutto ciò di cui ci vergogniamo di essere stati.
Al lascito che rende nobili e che è riassunto in quella semplice croce sta oggi rinunciando l'Europa; e la sentenza che ha appena emesso un tribunale spagnolo consacra giuridicamente la rinuncia di un'Europa disorientata, irrazionalmente in preda a un impulso di autodistruzione.

La Chiesa in Spagna chiama alla riconciliazione e alla solidarietà

La prolusione del cardinale Rouco Varela all'assemblea plenaria dei vescovi del Paese

Madrid, 24. "La Chiesa in Spagna, unita in Cristo e in comunione con la Chiesa di Roma, è stata e sarà sempre intensamente missionaria. L'attuale intensificazione della comunicazione tra i popoli e tra le culture non può certo cedere il passo a una minore valorizzazione della novità della fede cristiana, al relativismo religioso e culturale. Anzi è uno stimolo a rinnovare l'impegno missionario che porta a tutta la famiglia umana la notizia e la presenza della salvezza". Lo ha sottolineato, oggi, l'arcivescovo di Madrid, il cardinale Antonio María Rouco Varela, presidente della Conferenza episcopale spagnola (Cee) nel discorso inaugurale della novantaduesima assemblea plenaria dei presuli, che si tiene presso la Casa della Chiesa di Madrid fino a venerdì 28 novembre. "Il documento che stiamo elaborando - ha detto il porporato - deve poter offrire quel discernimento necessario per leggere i segni dei tempi e per animare le nostre comunità all'impegno missionario, segno visibile e decisivo del vigore della fede e della profondità di testimonianza che l'evangelizzazione suscita in noi. La Parola, come ha ricordato il Sinodo dei vescovi, deve essere incarnata, senza riduzioni e compromessi, e portata in tutte le strade del mondo". "Le Sacre Scritture - ha spiegato il cardinale - sono il testimone, in forma scritta, della Parola divina, sono il memoriale canonico, storico e letterario che attesta l'evento della rivelazione creatrice e salvifica. Pertanto la Parola di Dio precede e supera la Bibbia. Non possiamo dire che il cristianesimo sia una "religione del libro". Al centro della nostra fede c'è la storia della salvezza e in particolare una persona: Gesù Cristo, Parola di Dio fatta carne, uomo, storia".
Riferendosi alla situazione sociale del Paese, il cardinale Rouco Varela ha rilevato che non sono pochi coloro i quali manifestano giustificata inquietudine per il pericolo di "un deterioramento d'una convivenza serena e riconciliata che siamo riusciti a logorare nella nostra società". La storia della Spagna degli ultimi due secoli - ha ricordato - è stata, per disgrazia, segnata da tensioni che più di una volta sono degenerate in contrasti fratricidi. L'ultimo e il più terribile di tutti negli anni Trenta, nel contesto di una situazione internazionale caratterizzata da ideologie totalitarie di diverso segno. "Grazie a Dio l'attuale situazione nazionale e internazionale non è la stessa. Però occorre sempre vigilare per evitare alla radice comportamenti, parole e strategie e tutto ciò che può dare adito a un confronto che può sfociare anche nella violenza". È necessario coltivare uno spirito di riconciliazione, di generoso sacrificio che caratterizza la vita sociale e politica del Paese. Si tratta di perseguire, senza rimozioni e codardie, "un'autentica e sana purificazione della memoria", fondata sugli alti ideali della giustizia, della libertà fino a quello evangelico del perdono e dell'amore fraterno. A tale cammino di riconciliazione tra le persone sono chiamate specialmente le giovani generazioni, che devono superare il pesante passato dimenticando rancori e contrasti.

Claudio Leonardi sui Padri della Chiesa!!!

Letteratura cristiana antica e cultura occidentale

Il medioevo dimenticato
dei Padri della Chiesa


Pubblichiamo uno degli interventi tenuti nel convegno "Leggere i Padri tra passato e presente: continuità delle memorie e supporti digitali" che si è svolto a Cremona. L'incontro è stato un'occasione di riflessione e di confronto sul tema della tradizione patristica greca e latina fra medioevo e rinascimento.

di Claudio Leonardi

Esiste un medioevo dei Padri? L'interrogativo è evidentemente provocatorio. Ma la mia risposta nega questa provocazione, perché la risposta, se posso subito anticiparlo, è no: non esiste un medioevo dei Padri, storiograficamente non esiste. Il medioevo è stato classificato e inteso, genericamente, nella cultura illuminista, come un'età di mezzo tra le due grandi stagioni culturali dell'umanità, l'epoca classica con il pensiero greco e il diritto romano, e l'epoca moderna, con il predominio della ragione, nella convinzione che l'uomo con le sue qualità potesse guidare e dominare la storia. Questa "medietà" del medioevo, il medioevo come oscurità e negazione del vero, è storiograficamente esaurita, poiché è finita quella convinzione che la ragione dell'uomo, che l'uomo stesso, possa dominare l'evento storico; e tuttavia essa rimane latente, quella a cui si ricorre quasi istintivamente e che domina ancora di fatto la grande editoria e le aule universitarie; e questo, credo, perché nessuna altra idea generale del medioevo si è imposta.
Questa condizione negativa lascia spazio alle ipotesi storiografiche più diverse ed è dunque una condizione aperta e diventa per questo una condizione positiva. Uno dei fatti di questa apertura è l'emergere a livello storiografico di studi non prima accolti nell'accademia e relegati soprattutto all'interno del mondo ecclesiastico. Finito il tempo in cui si poteva ritenere e sostenere che la fede cristiana era un inganno ed era perciò corruttoria, gli studi che avevano rapporto con fonti non solo e non tanto ecclesiastiche (giuridiche e teologiche in senso stretto), ma a fonti cristiane più tipicamente religiose, sono poco per volta riemersi come studi degni di questo nome e sono stati accolti nei corsi universitari.
Hanno ottenuto, per così dire, il sigillo di una singolare laicità, cioè di studi sul tema religioso, e in particolare cristiano, a carattere filologico e storico. Il caso emblematico è quello dell'agiografia, che era sino almeno agli anni Cinquanta dello scorso secolo un tema sconosciuto nelle università, tutta presa nel considerare più ancora che le istituzioni i rapporti sociali ed economici delle classi medievali. Quando questo approccio al medioevo, che tuttavia opportunamente continua, è stato di fatto contrastato da altre esigenze (...) allora l'agiografia è ricomparsa al di fuori delle scuole teologiche, ma non si è fermata alla pratica strutturalista, tendenzialmente disinteressata a ogni discussione propriamente storica della ricerca, ha accolto domande filologiche (...) e persino domande storiche, con la formulazione dei modelli agiografici.
L'aspetto più sorprendente di questa nuova nascita è, lo sappiamo, il fatto che l'agiografia è diventata in Italia una disciplina universitaria, prevista negli ordinamenti e di fatto insegnata da ordinari e associati in parecchie università. Si può intendere certo un testo agiografico come l'ha inteso la storiografia di matrice positivistica, cioè come un serbatoio di notizie e di fatti, ma la si è ora anche intesa nella sua natura strettamente agiografica, come la vita di un santo, una vita esemplare, misurata sul canone evangelico e quindi testimone di un modello di santità. Questo era assolutamente inconcepibile un secolo fa.
Si potrebbe fare un discorso analogo per un'altra componente della tradizione cristiana, cioè sul binomio mistica-profezia, che indica la profonda intima esperienza di Dio nel cristiano o più in generale nell'uomo, e il parlare alla storia in nome di Dio, anche se il suo nome non viene fatto. Per queste componenti siamo ben lontani da riconoscimenti accademici, che forse non ci saranno mai e si può discutere se sia bene o meno, che ci siano. Ma da qualche parte si insegna, credo, storia della spiritualità, che tuttavia è un termine equivoco su cui non si riesce a trovare un accordo.
Su mistica-profezia c'è ormai tuttavia un riconoscimento culturale sempre più ampio. Nel nostro mondo dove è in crisi l'identità personale come l'identità di gruppo, è cresciuta, e non solo né tanto tra i fedeli cristiani, che della mistica poco si fidano e s'aggrappano alle "cerimonie" (come diceva Savonarola), un'esigenza spirituale molto forte, che è dunque in grado di ascoltare le voci dei mistici, uomini e donne, che raccontano quella esperienza di Dio che ha loro dato una identità assoluta e una fermezza prima sconosciuta. È la stessa incertezza del futuro storico (...) che provoca curiosità verso il singolare fenomeno della profezia.
Non si possono dire le stesse cose per l'attenzione ai Padri della Chiesa. La disciplina che li riguarda è da decenni insegnata nelle Università, sotto la direzione di letteratura cristiana antica, che ha suoi canoni e una sua dignità certificata. Ma non è questo il nostro problema, bensì il ruolo che i Padri hanno avuto nel medioevo. La medievistica non si è che marginalmente occupata del tema. Anzi, la storiografia medievistica ha prevalentemente, se non assolutamente, visto il momento dinamico della cultura medievale nella sopravvivenza e nell'uso dei classici greci (Platone e poi Aristotele) e soprattutto latini (Virgilio e Cicerone, Ovidio e Orazio, Giovenale e Seneca). Una presenza senza dubbio importante.
Ma veramente si può dire che essa rappresenta la dinamicità della cultura medievale? Si ritorna al tema di ciò che il medioevo abbia potuto rappresentare. L'eredità classica-pagana ne è certo una componente; ma credo lo sia anche l'eredità cristiana (la Bibbia e, appunto, i Padri), come anche l'eredità germanica, elemento che solitamente viene messo in ombra anche perché per vari secoli si è espresso prevalentemente con un linguaggio orale. In realtà occorre comprendere il medioevo nella sintesi di queste tre componenti, che rappresenta la sua novità e originalità. Di essa fa parte, ben più di quanto la storiografia abbia voluto vedere, la cultura patristica. Si pensi a un mondo dove - del resto come nella cultura classica - il popolo è analfabeta e l'istruzione è affidata a scuole in sostanza elitarie.
Riché ha dimostrato che la scuola classica non è tramontata neppure nei secoli vii e viii, quando minori se non minime sono le testimonianze scritte - vista l'egemonia orale germanica - ma le tradizioni scolastiche sono riprese in pieno con i capitolari di Carlo Magno, fissandone la sede presso gli episcopi e i monasteri. La cultura classica serve questa scuola, innanzitutto per la grammatica e la retorica (il cristianesimo infatti non è un'arte liberale) e per i poeti (ma Francesco Stella ha mostrato che le fonti della poesia carolingia sono sì Virgilio ma soprattutto i poeti cristiani tardo-antichi). È noto per altro che i giovani che si facevano monaci o preti, studiavano il latino sui Salmi, che ogni giorno avevano occasione di recitare o di cantare (non a caso, in molti codici, nei fogli di guardia, tra le prove di penna si trova spesso l'incipit del primo salmo: Beatus vir). È noto anche che la Bibbia nei dotti e nel popolo andava accompagnata da una esegesi come necessità assoluta, non solo e tanto per convenienza o autorità ecclesiastica, ma anche per necessità culturale. Il ricorso ai Padri era un passo ovvio e non evitabile. Per la scuola carolingia, che costituisce il piano educativo per molti secoli, cioè sino alle università, i corpora di commenti alla Bibbia sono per lo più semplici o complessi accorpamenti di passi patristici, in cui tagli, sovrapposizioni di testi diversi e aggiunte testimoniano l'attività non meramente compilatoria di quei maestri, che forniscono, appunto, la base patristica di tutta l'esegesi biblica medievale. Nel popolo la Bibbia era appresa attraverso la liturgia e attraverso la predicazione, oltre che mediante le illustrazioni iconografiche.
Soprattutto la predicazione è carica di patristica. L'omeliario di Paolo Diacono, alla fine del secolo viii, ma resta in vigore per secoli, si compone di passi dei Padri a commento dei testi biblici della liturgia. È ben evidente che non c'è solo la liturgia nella formazione della consapevolezza e dell'identità medievale, c'è molto altro; ma la componente cristiana è certamente capitale e Bibbia e Padri ne sono il tramite fondamentale. Il cristianesimo impiegherà secoli a introiettare, pur mediandola, la componente germanica (e Alcuino ne dà testimonianza) e tanti più secoli a introiettare l'eredità classica, finché nel secolo xii questo processo è compiuto e l'uso dei classici avviene ormai senza più barriere di protezione. Il Comitato nazionale per celebrare Gregorio Magno nel centenario della morte, ha costruito, con la Sismel, un catalogo di codici gregoriani che ha dato lo stupefacente risultato di circa novemila schede. Mi chiedo quale autore classico abbia un numero così alto di testimonianze. I cataloghi di Munk-Olsen danno cifre molto ma molto più basse. Ma la ricerca sulla fortuna dei classici è storiograficamente accolta nell'accademia, quella dei Padri è quasi completamente, se non respinta, intravista o giudicata come non significativa. Per questo bisogna dire no all'interrogativo posto all'inizio. Si dice che l'alto medioevo è culturalmente nel segno di Platone e il basso nel segno di Aristotele. Ma le traduzioni da Platone sono poche e il loro uso non centrale, come le ricerche di Klibanski hanno fatto vedere. C'è sì molto Platone, ma mediato da Agostino, come forse più ancora molto medio e neoplatonismo, ma sempre con la mediazione di Platone. Dopo il secolo xii Aristotele invece non ha mediatori, o almeno opera anche direttamente, con le traduzioni dall'arabo e dal greco. Ma tutta la tradizione francescana da Alessandro di Hales a Bonaventura a Duns Scoto accetta di Aristotele solo il linguaggio razionale e una serie di concetti metafisici, ma lo combatte o lo limita e critica fortemente; e la fonte del limite è sempre e soprattutto Agostino, la Bibbia spiritualmente, ma culturalmente i Padri. Persino Tommaso è agostiniano, anche se - come molti affermano - opera una rivalutazione nella tradizione cristiana: l'influenza, pur ripensata, di Aristotele lo porta a una filosofia tutta costruita secondo ragione e una politica che opera, non secondo la fede, ma secondo razionalità - e consuetudines.
Non più come ancora in Bonaventura, la reductio della filosofia alla teologia, ma una distinzione intellettuale dei due sistemi di pensiero, che appare il migliore inveramento della conquista spirituale e storica di Gregorio vii, la distinzione tra il potere politico e il potere ecclesiastico. La difesa della tradizione agostiniana operata dai francescani ha portato invece alla chiusura del tempo medievale. Il primato della volontà già presente in Bonaventura è stato da Giovanni Duns Scoto ulteriormente sottolineato, lasciando poco o nessun spazio alla volontà umana, e sviluppando una antropologia dove la volontà divina tende a essere tutto. Questa posizione non è estranea, evidentemente, al formarsi dell'umanesimo, che era antiscolastico perché anti-scotista, e afferma l'umano contro il pan-divino di Scoto. Si può proporre che con l'anti-scolastica l'influenza della patristica latina nella coscienza occidentale tenda a scomparire; in essa verrà tra poco a operare la patristica greca. Quella latina infatti, proprio perché debitrice di Agostino, è una cultura cristiana che vede l'uomo profondamente toccato dal peccato e che attende la salvezza da Cristo. Quella greca invece vede l'uomo avviato in un percorso che lo porta di tappa in tappa nella Trinità. Non si parla di salvezza ma di divinizzazione. Questa versione cristiana è quella che sola era pensabile dagli umanisti. Il medioevo aveva conosciuto relativamente pochi padri greci, in particolare il grande Dionigi pseudo-Areopagita e la sua concezione dell'inconoscibilità di Dio, che aveva segnato un filone secondario del cristianesimo medievale. Ora molti altri Padri greci vengono conosciuti, anche in particolare per l'insegnamento e le traduzioni di teologi e dotti che hanno lasciato Bisanzio per il concilio fiorentino e per l'invasione dell'islam.
Da questo mio punto di vista, lo studio dei Padri nella storia culturale del medioevo e dell'umanesimo è una necessità storiografica che andrebbe affermata e resa operativa: censimenti di manoscritti, edizioni di testi, storia della fortuna all'interno della cultura medievale (sull'esempio dei lavori pilota di de Ghellinck): una prospettiva di lavoro gigantesca. Se storiograficamente il medioevo dei Padri non esiste, dovrebbe essere formato. Questa è del resto, se posso così finire, la coscienza storiografica che ha presieduto a molte iniziative della Sismel e della Fondazione Ezio Franceschini negli ultimi trent'anni, con cataloghi, edizioni, studi e convegni, tra i quali, benemeriti, quelli sui Padri e l'umanesimo indetti e guidati da Mariarosa Cortesi.



(©L'Osservatore Romano - 24-25 novembre 2008)

Sulla Lectio magistralis di sabato passato del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone

Le esigenze della vita civile secondo il cardinale segretario di Stato

Senso critico
e prudenza


di Raffaele Alessandrini

"La presenza del cristiano nel mondo non potrà mai essere ridotta a un mero fatto privato, perché ciò in cui crede non è da nascondere, ma, invece, da partecipare. I valori che appartengono alla fede non sono estranei a quelli che la natura conserva e la ragione raggiunge; sono condivisibili con tutti". Tale è la convinzione, e il monito, che il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone ha inserito nelle conclusioni della sua articolatissima Lectio magistralis tenuta sabato 22 novembre al Teatro Pirandello di Agrigento sul tema "Principi su cui radicare e vivere la propria cittadinanza". Al porporato è stato consegnato il premio internazionale "Empedocle" per le scienze umane in memoria del giudice Paolo Borsellino - giunto quest'anno alla sedicesima edizione - e gli è stata altresì conferita la cittadinanza onoraria dal sindaco di Agrigento.
Il cardinale Bertone che si è detto "onorato per essere stato scelto come destinatario del premio per le scienze umane" ha significativamente tenuto a sottolineare la figura di Paolo Borsellino "nobile esempio di magistrato al servizio dello Stato, caduto sulla breccia il 19 luglio del 1992 insieme agli uomini della sua scorta, 57 giorni appena dopo la strage di Capaci che segnò la morte di un altro magistrato amico di Borsellino, Giovanni Falcone".
Alla luce di tali eroici esempi di vita, e di testimonianza umana e civile, va dunque compreso il tema stesso che il cardinale segretario di Stato ha voluto affrontare: i "principi su cui radicare e vivere la propria cittadinanza". Per dar vita "a un mondo più giusto e solidale, vivificato da una speranza che si traduca in operosità quotidiana al servizio del bene comune".
Il prossimo 10 dicembre ricorrerà il sessantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e nel tracciare un bilancio sul cammino fin qui compiuto dall'umanità, il cardinale Bertone ha sottolineato alcune prospettive rispetto a un reale riconoscimento dei diritti umani in ogni parte del mondo. In particolare c'è da riflettere su "quanto cammino resti da fare perché ogni essere umano si senta a pieno titolo cittadino del nostro pianeta; quale sforzo sia necessario nell'epoca della globalizzazione per dar vita a un dialogo capace di sfociare in una pace duratura, per concretizzare una giustizia non solo formale e una solidarietà che sia effettiva condivisione delle disponibili risorse materiali, umane e culturali. Ci si può infine chiedere quale futuro sia possibile costruire insieme e come costruirlo".
Presupposto di ogni comportamento, osserva realisticamente il cardinale Bertone, è l'onestà. "Puntare sui comportamenti virtuosi dell'uomo è non solo un valore, ma un bisogno. Poiché la corruzione e la carenza di onestà, a qualsiasi livello della vita sociale ed economica si registri, non sono solo un male, ma hanno pure un grave costo sociale ed economico". Pertanto, rifiutare comportamenti disonesti è un bene che reca vantaggi effettivi per tutti. Ecco perché vanno incentivati i comportamenti onesti e puniti quelli disonesti". Pertanto, afferma il cardinale segretario di Stato: "Occorre scardinare una idea di fondo che spesso sembra guidare il pensare e l'agire della società contemporanea impregnata di un pervasivo individualismo che porta a un pericoloso relativismo culturale ed etico. Il vantaggio personale ricercato e costruito in modo disonesto, non va solo a danno della società, ma finisce per danneggiare lo stesso individuo".
Un secondo rilievo riguarda l'equilibrio tra diritti e doveri dei cittadini. L'ultimo secolo - che pure tante oppressioni e ingiustizie ha visto consumarsi a carico di milioni di infelici e di deboli - è stato a ragione chiamato "il secolo dei diritti", perché l'uomo "ha preso coscienza di essere titolare di fondamentali esigenze che l'ordinamento giuridico è tenuto a riconoscere e a garantire, e perché la stessa comunità ha superato la "nozione di sudditanza" per approdare a quella di "cittadinanza", mettendo in positiva discussione quel "progetto" di organizzazione dei rapporti tra cittadini e istituzioni, quel sistema integrale ed integrato di diritti e di doveri, che ha costituito e deve tuttora costituire la misura e insieme il terreno di sviluppo di una convivenza solidale e responsabile nel Paese".
Ed è soprattutto sul tasto della responsabilità e della partecipazione dei cittadini che il porporato ha voluto insistere; è infatti indispensabile che il cittadino si riappropri in modo maturo della politica nel senso più alto del termine: ossia come servizio al bene comune. Una visione che risalta in modo nitido lungo tutto il magistero sociale della Chiesa. Il fine cui essa mira è quello dell'ordine sociale non solamente giusto, ma anche fraterno. "In un mio saggio sull'etica del bene comune - ha ricordato il cardinale Bertone - facevo presente che a nulla gioverebbe, infatti, ridistribuire equamente una ricchezza che fosse stata ottenuta in modo efficiente, ma offendendo la dignità di coloro che hanno concorso a produrla. Cosa ce ne faremmo di una società civile come sfera d'azione "separata" dalla società politica? Ecco perché l'agire socio-politico non può essere riduttivamente concepito nei termini di tutto ciò che serve ad assicurare la "convivenza" sociale (istituzioni, regole, strumenti), ma deve anche, e soprattutto, assicurare la "vita in comune" (...) Ne deriva che l'impegno socio-politico appartiene alla concezione cristiana della vita umana e quindi una critica morale alla vita politica va giudicata pertinente, non giustapposta, all'argomentazione politica".
I cristiani laici per tale ragione non possono in alcun modo estraniarsi dalla partecipazione alla politica così intesa, tenendo presente che il dovere della carità non va inteso solo in termini assistenziali, ma punta costruttivamente a incidere sulla realtà sociale e sul suo reale miglioramento. Carità, che è anche "lotta per la rimozione delle "strutture sociali di peccato"; lotta alla corruzione e all'ingiustizia. Impegno questo che non può essere delegato esclusivamente a chi fa politica in senso stretto: è piuttosto una responsabilità che interessa tutti (...) che trova nella giustizia e nella carità i suoi stimoli più forti ed efficaci". A tal fine occorre un'intelligenza critica: potremmo dire una prudenza sociale e politica dice il cardinale Bertone: "Capace di individuare e di comprendere i reali rapporti esistenti nella comunità, gli effettivi schieramenti degli interessi in conflitto, le forze reali - anche se occulte - che operano nel tessuto sociale e che spesso lo condizionano, come pure i pericoli di manipolazione a cui si è purtroppo sottoposti. Senza un'adeguata vigilanza e un'attenta valutazione delle situazioni e dei problemi, la partecipazione rischia di divenire meramente declamatoria e il cittadino, sostanzialmente suddito, corre il pericolo di essere incanalato - specie nell'attuale società telematica e della comunicazione di massa - in una democrazia formale, che è l'antitesi di una vera democrazia diffusa. Questo dovere di discernimento impone la ricerca di strumenti di conoscenza, di analisi e di controllo, che aiutino a valutare in modo oggettivo la realtà che i vari poteri sono spesso tentati di rappresentare in modo interessato o deformato".



(©L'Osservatore Romano - 24-25 novembre 2008)

Il Convegno nazionale Scholae Cantorum


di Marcello Filotei

Una giornata di studio, un oratorio nuovo e una celebrazione con cinquemila cantori nella basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma. Con questi strumenti l'Associazione Italiana Santa Cecilia ha contribuito alle celebrazioni per l'Anno paolino. Ai partecipanti al Convegno nazionale Scholae Cantorum - che hanno animato la celebrazione eucaristica presieduta dal cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, arciprete della basilica - è stato offerto Vita mea per soli, coro e orchestra di Valentino Donella, eseguito dalla Cappella Musicale di Santa Maria Maggiore di Bergamo, dal coro Lorenzo Perosi e dall'orchestra Abendmusiken, entrambi di Verona. A dirigere, nel giorno di santa Cecilia, Paolo De Zen.
Nel lavoro, come è chiaramente spiegato nelle note introduttive, "niente vi è che non sia musica e parola, musica e parole impegnative. Nulla vi si trova che ceda alla moda dell'esteriorità, tanto meno alla superficialità, non è un musical, non si fa del rock, non ci si affida a nessun guru da palcoscenico, non si fanno proiezioni, e neppure si intende indugiare sulla problematica linguistica arida e inconcludente - tipica di certa avanguardia musicale - che ha caratterizzato molta produzione dei decenni passati". Il compositore, invece, "crede nell'arte educatrice e comunitaria, nell'arte musicale che veicola messaggi e valori a edificazione di tutti". E di conseguenza chiede all'ascoltatore "l'impegno di concentrarsi per un'ora nell'ascolto e nella riflessione".
Le iniziative dell'associazione - presieduta da monsignor Tarcisio Cola - si inseriscono in un lungo percorso storico che, cominciato nel 1584, ha trovato le sue origini nel movimento di riforma cattolica che caratterizza il periodo di applicazione del Concilio di Trento. Il canonico lateranense Alessandro Marini raccolse a Roma i più noti polifonisti del tempo. Subito aderirono Ancina, Anerio, Animuccia, Antonelli, Giovanelli, Marenzio, Nanino, Palestrina e Suriano, che assieme ad altri diedero vita a una confraternita di musicisti e di cantori.
Attorno al 1600, con la fioritura dei nuovi studi strumentali, la Congregazione fu divisa in due settori: uno per la musica sacra, l'altro per tutto il resto della produzione. Il primo mantenne il nome di Congregazione di Santa Cecilia e si occupò della musica sacra in relazione alla liturgia, l'altro sotto il nome di Accademia Santa Cecilia, si occupò dell'insegnamento teorico e pratico dei vari strumenti, in particolare di quelli a corda e a fiato.
Durante il i Congresso cattolico italiano, a Venezia, dal 12 al 16 giugno 1874, don Guerrino Amelli lanciò l'idea di rinvigorire la Congregazione per riunire in un'ampia associazione tutti i musicisti di chiesa e formulò cinque voti: il riconoscimento della sintonia tra liturgia e musica con supremazia della liturgia, la pubblicazione di un periodico di musica sacra, la ricostituzione dell'associazione ceciliana, l'erezione di una scuola superiore di musica sacra a Roma e la tutela del patrimonio di antiche musiche manoscritte. Nel 1877 a Milano uscì il primo numero della rivista liturgico-musicale "Musica sacra" e il 4 settembre 1880 sempre a Milano si tenne il i Congresso nazionale di musica sacra, che segnò in maniera ufficiale il passaggio dalla semplice congregazione romana a una Associazione nazionale italiana (Aisc).
Per statuto l'Aisc si dette lo scopo di "promuovere e difendere la musica sacra o liturgica secondo lo spirito della Chiesa e l'esatta osservanza delle prescrizioni ecclesiastiche". Punti fermi furono il primato del canto gregoriano, la diffusione della polifonia, l'uso dell'organo. Nel 1911, padre Angelo De Santi fondò a Roma la Scuola superiore di Canto Gregoriano e di musica sacra, divenuto in seguito il Pontificio Istituto di musica sacra.
Dal 1968 l'associazione passò alla diretta dipendenza della Conferenza episcopale italiana, confermando la sua vocazione originaria. L'Aisc, come recitano le note programmatiche, "crede infatti nella distinzione tra musica sacra e profana: non si lascia trascinare da pregiudizi per il latino o per la lingua volgare, per il gregoriano o per la musica moderna, per il canto corale o per il canto dell'assemblea. Tutto quello che è buono, bello, che è pastoralmente valido viene approvato".



(©L'Osservatore Romano - 24-25 novembre 2008)

La relazione del maestro della Cappella musicale theatina, Flavio Colusso

La tredicesima seduta pubblica delle Pontificie Accademie

L'oratorio
tra musica e preghiera


Il 25 novembre, presso l'aula magna del Pontificio Consiglio della Cultura, si tiene la tredicesima seduta pubblica delle Pontificie Accademie sul tema "Universalità della bellezza: estetica ed etica a confronto". Pubblichiamo stralci della relazione del maestro della Cappella musicale theatina.


di Flavio Colusso

"Non si insisterà mai abbastanza sulla importanza culturale, formativa, sociale e spirituale della musica sacra. (...) Se sarete autentici cristiani, con il vostro canto sarete degli evangelizzatori, cioè dei messaggeri di Cristo nel mondo contemporaneo!". Così nel 1980 Giovanni Paolo ii salutava un consesso di musicisti nella Basilica di San Pietro.
Con il suo continuo rimando alle tematiche dell'arte, il Pontefice ha tentato una sfida per la quale gli artisti devono essergli riconoscenti: ricuperare il rapporto fra estetica e fede cristiana. Propongo un breve passo dalla sua lettera agli artisti, purtroppo ancora non sufficientemente diffusa proprio nell'ambito che gli sarebbe più proprio: quello degli artisti.
"Chi avverte in sé questa sorta di scintilla divina che è la vocazione artistica - di poeta, di scrittore, di pittore, di scultore, di architetto, di musicista, di attore - avverte al tempo stesso l'obbligo di non sprecare questo talento, ma di svilupparlo, per metterlo a servizio del prossimo e di tutta l'umanità. (...) La differente vocazione di ogni artista, mentre determina l'ambito del suo servizio, indica i compiti che deve assumersi, il duro lavoro a cui deve sottostare, la responsabilità che deve affrontare. Un artista consapevole di tutto ciò sa anche di dover operare senza lasciarsi dominare dalla ricerca di gloria fatua o dalla smania di una facile popolarità, e ancor meno del calcolo di un possibile profitto personale. C'è dunque un'etica, anzi una "spiritualità" del servizio artistico, che a suo modo contribuisce alla vita e alla rinascita di un popolo. (...) La bellezza che trasmetterete alle generazioni di domani sia tale da destare in esse lo stupore!".
Con l'esortazione: "Al Cielo, al Cielo fedeli miei divotissimi, al Cielo!", tratta da un sermone seicentesco, davamo inizio alle "prediche" del ciclo integrale degli Oratori di Giacomo Carissimi, autore cui ci stiamo dedicando da ventisei anni. Abbiamo riproposto il clima di raccoglimento e partecipazione proprio dell'oratorio - e non il semplice ascolto musicale - presentando non il "genere musicale", ma le musiche scritte per l'oratorio come evento spirituale e sociale.
Come ha ben scritto Claudio Strinati, l'arte carissimiana è una "pittografia sonora" in cui il livello "è analogo, è quello di un finissimo e fervido poeta che tocca, con pari energia creativa, tutte le corde di un universo compatto e solenne, in un continuo ampliamento dell'orizzonte espressivo".
Le opere di Carissimi, come nuovi-antichi "modelli", sono definite gemme, perle, rose "degne di intessere o di riportare in vittoria la corona d'Apollo", mentre la loro esemplarità è riconosciuta come dono del cielo. Palestrina fu eletto restauratore della polifonia; Carissimi, nella metamorfosi del gusto, traspare come una specie di stella fissa e le sue teorie e i suoi "modelli" come insegnamenti aurei.
Lino Bianchi scrive che Carissimi "seppe comunicare la parola sacra con sentimento di profonda fede" e che "la caratteristica saliente del genio di Carissimi è la pietà che riesce a cogliere nella verità del dolore umano". In perfetta consonanza ritengo che "la carriera a cui mirava era assolutamente interiore, e voleva essere la carriera delle opere che sarebbero nate dallo spirito che gli dettava dentro; eleva a Oratorio le historie, i dialoghi, i mottetti con un profondo carattere epico sacro. Carissimi lo aveva in sé questo carattere. Era la luce tutta particolare del suo genio".
Cosciente che Arcta est via quae ducit ad coelum, egli applica su di sé e insegna ai suoi allievi il metodo del discernimento degli esercizi spirituali. Nell'ottica del "combattimento spirituale", la metafora della battaglia del soldato della Riforma Cattolica trova una mutazione esemplare e potente: questo nuovo soldato, riprendendo antichi elementi a vantaggio di nuovi significati, rivolge la spada - ri-componendone insieme i frammenti - verso il suo interno; nell'esercizio riscatta, in una rinnovata unità dell'homo universalis, la pienezza dell'humanitas e la grazia dell'humilitas. Frammenti che si sublimano in scene dove antico e nuovo Testamento sono colti come frutti e semi di una nuova parabola musicale. (...) Il compositore ispirato opera (...) un trasferimento di istanze che si traducono in un codice leggibile su differenti piani e a differenti livelli, e la sua musica "non deve essere composta per un vacuo diletto delle orecchie (...), affinché i cuori degli ascoltatori siano conquistati dal desiderio delle armonie celesti e dal gaudio della contemplazione dei beati", come recita la delibera sulla musica sacra in chiesa della xxii sessione del Concilio di Trento (1562).



(©L'Osservatore Romano - 24-25 novembre 2008)

Il restauro della «Madonna del Cardellino»

Leonardo promette il paradiso,
Raffaello ce lo dà



Dopo nove anni di restauro è tornata visibile - esposta fino all'1 marzo 2009 al Palazzo Medici Riccardi di Firenze - la Madonna del Cardellino, capolavoro realizzato da Raffaello tra il 1505 e il 1506.

di Antonio Paolucci

"In Raffaello la creazione sembra facile e, come nelle opere di Dio, in lui tutto appare come un moto della volontà" (Ingres). Raffaello è facile, dice Ingres. È facile come sono facili le nuvole, gli alberi, le montagne, come sono facili le cose uscite dalle mani di Dio. È bellissima e assolutamente vera l'osservazione di Ingres. Noi ci poniamo di fronte alla Madonna della Seggiola o alla Scuola di Atene e abbiamo l'impressione che quelle cose siano lì da sempre, che non potrebbero essere diverse da come sono e, soprattutto, che sono nate senza fatica, senza elaborazione intellettuale, senza necessità di rettifiche e di scelte, per puro atto di volontà.
Raffaello ha "voluto" la Scuola di Atene e la Madonna della Seggiola ed ecco prendere forma davanti a noi la pura Bellezza, definitiva, immodificabile, "facile". Ha dunque ragione Ingres quando paragona la pittura di Raffaello alle opere della creazione e intende la "facilità" come supremo raggiungimento dello stile.
"Leonardo ci promette il Paradiso, Raffaello ce lo dà". Questa seconda sentenza è di Picasso ed è, come la prima, perfettamente vera. Il Paradiso, per un pittore, è perfezione ed è equilibrio. È calma ed è armonia. È gioia degli occhi. È consolazione del cuore. È appagamento dei sensi. È la consapevolezza di una conquista definitiva. È sapere che non si può aggiungere nulla né togliere nulla al risultato. Se le cose stanno così, e non c'è dubbio che stiano in questi termini, allora bisogna condividere l'opinione del grande onnivoro e metamorfico Picasso. Il Paradiso che Leonardo con la sua pittura mentale, con la sua strenua sperimentazione, ci promette, Raffaello, semplicemente, ce lo dà.
Riflessioni di questo genere mi accompagnano di fronte alla Madonna del Cardellino ora esposta al pubblico a Firenze in Palazzo Medici Riccardi, in attesa di tornare agli Uffizi, da dove è uscita nel 1999 per un restauro lungo nove anni eseguito dall'Opificio delle Pietre Dure alla Fortezza da Basso. Dirò dopo dell'intervento che è stato difficile come pochi, che ha coinvolto le tecnologie più avanzate e i mestieri e i saperi più sofisticati e che oggi si propone (nel catalogo Edifir curato da Marco Ciatti, Cecilia Frosinini, Antonio Natali, Patrizia Riitano) come un insuperato modello di metodo.
Per ora desidero solo immedesimarmi nella emozione e nello stupore di chi, varcata la soglia di Palazzo Medici Riccardi, si trova di fronte la Madonna del Cardellino. La tavola che Raffaello dipinse fra il 1505 e il 1506 quando aveva fra i 22 e i 23 anni, durante il suo soggiorno fiorentino, prima che Papa Giulio II lo chiamasse a Roma a lavorare nei Palazzi Apostolici, è relativamente piccola. Misura 107 centimetri per 77. Eppure, ora che splende nel colore ritrovato, ora che il restauro le ha restituito il melodioso equilibrio che di Raffaello è il carattere distintivo, ci sembra immensamente grande. Ti rendi conto - guardandola - che la pura Bellezza non ha confini, non può essere misurata. Ti invade e ti appaga e ti rende felice.
La Madonna del Cardellino è uno di quei capolavori che l'uso ha consumato, come la Gioconda di Leonardo, come il David di Michelangelo. Quante volte l'abbiamo vista riprodotta nei libri, nelle riviste, nelle immagini sacre appese in cima ai letti di una volta, nei santini della prima comunione!
Ora dopo la rivelazione del colore prodotta dal restauro, possiamo guardarla con occhi in certo senso nuovi. Ci affascina il dolce paesaggio italiano che trema nell'ora meridiana mentre serene nuvole d'estate attraversano il cielo infinito. Ci incanta la malinconica bellezza della Madonna che è madre affettuosa consapevole del destino del figlio ma è anche presenza eterna e immutabile come le azzurre montagne che si vedono sullo sfondo. Tenerissimo e insieme carico di sommessi presagi è il colloquio fra san Giovannino e il Bambino Gesù, quest'ultimo rappresentato in atto di accarezzare il cardellino; il piccolo uccello che il compagno di giochi tiene fra le mani e che, nelle sue rosse piume, è figura di morte e di resurrezione.
Aveva venti anni Raffaello quando dipinse questo capolavoro per il suo amico fiorentino Lorenzo Nasi che si era da poco sposato. A questo punto, si pone la domanda che ha intrigato generazioni di storici dell'arte. Come spiegare la vertiginosa accelerazione che, nel giro di pochi anni, ha trasformato un ragazzo della provincia italiana, figlio di Giovanni Santi pittore appena mediocre, nel protagonista assoluto e in certo senso proverbiale di quella meravigliosa stagione dello spirito che i manuali chiamano Rinascimento? Certe cose non si spiegano. I tempi e le ragioni del genio sono e restano un mistero. Lo storico potrà solo selezionare e interpretare i fatti e mettere in luce gli snodi salienti nella breve vita dell'artista.
Quando il giovane marchigiano dipinge la Madonna del Cardellino è già in possesso di una cultura figurativa immensa. Una cultura che era nata nell'ambiente di Urbino (tra le preziosità dei fiamminghi, il nitore formale del Laurana e di Piero della Francesca e l'umanesimo raffinato della corte ducale) che era cresciuta a contatto del suo maestro Perugino dal quale aveva appreso per non dimenticarlo mai più il segreto del ritmo che governa le forme e della Bellezza che le intenerisce. Una cultura infine che maturò nel soggiorno fiorentino del 1504-1508. Durante il quale egli si mostrò soprattutto sensibile alle opere di Leonardo e di Michelangelo, di Fra Bartolomeo e di Mariotto Albertinelli ma aperto, anche, a tutta la storia artistica toscana più o meno recente; da Luca della Robbia e dal Verrocchio fino a Donatello, al Beato Angelico, a Masaccio. Raffaello assorbe, metabolizza e trasfigura tutto. Al termine del percorso, prima della Stanza della Segnatura, c'è la Madonna del Cardellino degli Uffizi.
A questo punto occorre accennare al restauro che è stato lungo e difficile e non (o non soltanto) per ragioni di semplice pulitura. La pulitura che è stata condotta in maniera ammirevole da Patrizia Riitano per la direzione di Marco Ciatti doveva misurarsi con un problema del tutto inusuale e di straordinaria delicatezza. Come testimonia Giorgio Vasari e come sanno bene gli storici dell'arte, la Madonna di Raffaello il 12 novembre 1547 venne travolta e gravemente danneggiata dal crollo della casa Nasi, nell'Oltrarno fiorentino, a seguito dello smottamento del colle di San Giorgio.
L'intervento di restauro, con reintegrazione delle parti danneggiate o perdute, venne realizzato da un pittore di qualità che oggi si tende a identificare in Ridolfo del Ghirlandaio. Mediare la recuperata luminosità e il superbo cromatismo della pittura di Raffaello con il "tono" del restauro cinquecentesco, è stato il vero problema. Un problema che solo l'imponente quantità di indagini conoscitive prodotte nell'occasione e la straordinaria capacità progettuale e tecnica dell'Opificio delle Pietre Dure hanno permesso di risolvere brillantemente.


(©L'Osservatore Romano - 24-25 novembre 2008)