lunedì 29 dicembre 2008

Un milione di fedeli a Madrid nella festività della Santa Famiglia

Corale risposta all'invito del cardinale Antonio María Rouco Varela 

di Marta Lago

Una missione:  dare una testimonianza d'amore. Una scuola:  la Famiglia di Nazaret. È l'appello che, rivolto soprattutto alle famiglie cristiane, è risuonato nella madrilena Plaza de Colón durante l'Eucaristia per la festa della Santa Famiglia. Da ogni angolo della Spagna un milione di persone hanno risposto all'invito del cardinale arcivescovo di Madrid e presidente della Conferenza episcopale Antonio María Rouco Varela. 
Al fine di celebrare "La famiglia, grazia di Dio", la manifestazione - nettamente pastorale - ha fatto di Madrid la capitale universale delle famiglie grazie al collegamento in diretta con il Papa durante la recita dell'Angelus. "Condividere tutto l'amore" è la dinamica familiare che permette di dare al mondo - ha detto Benedetto XVI in lingua spagnola - "una bella testimonianza dell'importanza della famiglia per l'essere umano e per la società". Alludendo al tema dell'incontro, il Papa ha definito la famiglia come "una grazia di Dio che mostra ciò che Egli stesso è:  Amore", con i tratti caratteristici della gratuità e della fedeltà illimitata, "qualità che s'incarnano in maniera eminente nella Santa Famiglia". Il Santo Padre ha esortato le famiglie a non lasciare "che l'amore, l'apertura alla vita e i vincoli incomparabili che uniscono la vostra famiglia si snaturino". 
Questa "festa emozionante per pregare per la famiglia e adoperarsi per essa con forza e speranza" ha visto al centro, vicino all'altare, una grande croce e l'immagine della Santa Famiglia con una frase di Giovanni Paolo ii:  "Il futuro dell'umanità passa per la famiglia cristiana", frase che in diverse occasioni ha ripreso Benedetto XVI e che il cardinale Rouco Varela ha ribadito nella sua omelia. 
Fra i concelebranti vi erano il cardinale Antonio Cañizares Llovera, nuovo prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, il cardinale arcivescovo di Valencia, Agustín García-Gasco, e una trentina di vescovi, insieme a numerosi sacerdoti. 
La cultura del relativismo egoistico e della morte costituiscono attualmente un'enorme sfida per la famiglia; "il linguaggio del creato è chiaro e inequivocabile rispetto al matrimonio" ha sottolineato il cardinale Rouco Varela:  "Un uomo e una donna, la sposa e lo sposo che si amano per sempre e danno la propria vita!", sia nel reciproco e fedele dono di sé sia nella nascita dei figli. "Voi siete i preferiti del Signore!", ha detto il porporato ai moltissimi bambini presenti durante l'Eucaristia. 
Ha anche ribadito la necessità che hanno i bambini di beneficiare dell'amore dei genitori, la necessità di essere educati conformemente alla dignità di cui godono fin dal loro concepimento nel grembo materno. 
Se le sfide sono grandi, ancora più grandi sono le speranze per la famiglia, piena di possibilità che, fra gli applausi, ha elencato il presidente dell'episcopato spagnolo come urgenze:  è possibile vivere il matrimonio e la famiglia "in modo molto diverso da quello di moda in tanti ambiti della nostra società", è possibile e "bello vivere il matrimonio e la famiglia come la Santa Famiglia di Nazaret", "è possibile e necessario rendere testimonianza dinanzi al mondo della gioia profonda e duratura che apporta la famiglia cristiana", "è possibile e urgente vincere la cultura della morte con la cultura della vita", "si può e urge vincere la cultura della competizione dura ed egoistica, dell'idolatria, con la cultura dell'amore vero", che fra l'altro configura la funzione essenziale della famiglia:  "essere il canale principale affinché l'uomo" scopra che "la ragione d'essere della sua esistenza è l'amore". 
Guida per la famiglia è la contemplazione costante di Maria e di Giuseppe, le cui volontà si abbandonarono con fiducia alla grazia di Dio. Il modello di Nazaret è il cammino sicuro perché mostra - ha osservato il cardinale arcivescovo di Madrid - "la possibilità di vivere la famiglia nell'integrità e nella bellezza del suo essere come comunità indissolubile di vita e di amore, fondata sul dono sponsale dell'uomo alla donna e della donna all'uomo, e per questo essenzialmente aperta al dono della vita:  i figli". 
È il "modello della vera famiglia", che si è voluto presentare e celebrare con l'Eucaristia poiché è "il Sacramento dell'Amore degli amori". 
Sostegno saldo della celebrazione sono stati i movimenti ecclesiali che hanno partecipato alla Messa con le letture liturgiche, le preghiere e le offerte. La preghiera dei fedeli è stata introdotta da una sintesi dell'anno 2008, con le sue luci e le sue ombre:  dalla calamità del terrorismo - dentro e fuori della Spagna - alla piaga dei cattivi trattamenti o al lutto arrecato a tante famiglie dall'incidente aereo nell'aeroporto della capitale. I Giochi Olimpici - è stato ricordato - hanno messo in primo piano la Cina, ma anche la questione del rispetto dei diritti umani in questo paese asiatico, soprattutto la libertà religiosa. L'anno che sta terminando ha visto inoltre il 30º anniversario dell'inizio del Pontificato del servo di Dio Giovanni Paolo ii, il 40º anniversario della promulgazione del Credo del popolo di Dio a opera di Paolo vi, il 60º anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. 
È stato anche l'anno dell'indimenticabile Giornata mondiale della gioventù di Sydney e della designazione di Madrid come prossima meta del grande pellegrinaggio di fede di centinaia di migliaia di giovani attorno al Papa. 
A tutti è stata affidata la missione di "essere testimoni coraggiosi e instancabili del Vangelo della Famiglia, con le opere e con le parole, nella Chiesa e nel mondo, poiché - come ha ammonito il cardinale Rouco Varela - dal bene integrale della famiglia dipende la sorte di tutta la famiglia umana". 


(©L'Osservatore Romano - 29-30 dicembre 2008)

sabato 27 dicembre 2008

L'inno di sant'Ambrogio per la festa del Natale del Signore


«Non da seme virile
ma per l'azione arcana dello Spirito»


di Inos Biffi

Nell'inno che sant'Ambrogio compone per la festa del Natale di Cristo - forse da lui stesso dalla liturgia romana introdotta in quella milanese - diventa poesia il dogma dell'incarnazione del Figlio di Dio nel grembo verginale di Maria, così come nell'inno Splendor paternae gloriae diventa poesia e canto il mistero della Trinità.
Anche in quest'inno appare la genialità santambrosiana nell'accordare e fondere ispirazione e linguaggio biblico, chiarezza didascalica e profondità teologica, allusione ed espressione, rigore dottrinale e creatività artistica, e se ne potrebbe definire il risultato come un trattato di cristologia nicena nella forma di un piccolo poema, luminoso e pieno di emozione.
D'altra parte, la materia è di quelle che Ambrogio sente più vive e più urgenti da illustrare e far assimilare alla sua Chiesa, fino a pochi anni prima infelicemente segnata dalla presenza dell'eresia ariana - che non accoglie Gesù come Figlio di Dio, eternamente generato - e ancora attraversata da eretici, che rigettavano la verità di Maria che nella verginità e perenne illibatezza concepisce e dà alla luce il Verbo fatto uomo.
Anche in questo caso, il vescovo di Milano ci offre un esempio luminoso di ortodossia, che, delineando il mistero di Cristo nei rigorosi termini niceni, lo contempla nella "duplice sostanza" di arcana verità divina e di pochezza umana, lo guarda con gioiosa meraviglia e ne fa trasparire l'incanto estetico.
Il Natale di Gesù rappresenta il compimento del disegno iniziato in Israele. Quando egli viene alla luce ed è deposto nel suo presepe si avvera la teofania di Dio, intensamente attesa dall'Antico Testamento, interprete del bisogno e del desiderio di tutta l'umanità. Passa allora sulle nostre labbra oranti l'ardente invocazione del Salmo 79, che occupa tutta la prima strofa dell'inno, e che una inavveduta critica - contro la stessa logica dell'inno e l'ottonario simbolico delle strofe - ha ritenuto inautentica e posteriormente aggiunta. È abituale in Ambrogio, che mostra di saper usare con abile maestria le regole della metrica latina, innestare nei suoi versi ampie citazioni bibliche, così annodando felicemente Bibbia e poesia.
Com'è con la prima strofa del suo inno: "Volgiti a noi, - prega la Chiesa - tu che guidi Israele, / assiso sui Cherubini, / mostrati in faccia a Efraim, ridesta / la tua potenza e vieni". Tutta una domanda appassionata e in crescente intensità si eleva a invocare l'apparizione e la venuta di Dio: "volgiti", "mostrati in faccia", "ridesta la tua potenza", "vieni"! Anzi, l'invocazione che, elevata un giorno da Israele, ora sale dalla Chiesa, diviene subito più precisa nell'indicazione del suo desiderio: è il "Redentore delle genti", il liberatore universale, implorato perché venga a rivelare il parto che conviene a Chi è Dio e da cui ogni epoca rimanga sorpresa e affascinata: "O Redentore delle genti, vieni: / rivela al mondo il parto della Vergine; / ogni età della storia stupisca: / è questo un parto che si addice a Dio". Così, mediante il magistero e l'arte del suo vescovo la comunità ambrosiana professa luminosamente la sua fede in Gesù, Figlio di Dio.
Quel parto, che di tutti i prodigi divini è il più grande e ineffabile, avviene, infatti, non per opera dell'uomo, ma per uno spirare pieno di mistero: mystico spiramine, come scrive Ambrogio, con rara finezza, quasi attingendo la penna nella luce spirituale. Altrove parlerà dello spiramen di Dio onnipotente: "Non da seme virile, / ma per l'azione arcana dello Spirito / il Verbo di Dio si è fatto carne, / fiorito a noi come frutto di un grembo". La radice è la progenie giudaica; il rampollo è Maria, il virgulto di Maria è Cristo, che come il frutto di un albero buono, fiorisce.
Una intatta verginità, per pura grazia, si ritrova, così, miracolosamente feconda: e, per il Verbo che si fa uomo in lei, Maria diviene l'aula di Dio; le sue virtù sono come insegne imperiali dispiegate a indicare la presenza del monarca nel suo palazzo: "Il verginale corpo s'inturgida, / senza che il puro chiostro si disserri, / brillano le virtù come vessilli: / Dio nel suo tempio ha fissato dimora". La vergine madre è la nuova "arca dell'alleanza", il luogo nuovo della Gloria, "l'aula regale del grembo verginale (aula regalis uteri virginalis)" o "aula celeste (aula caelestis)" - come altrove ancora Maria è chiamata dallo stesso Ambrogio.
Venuto nel mondo come "Redentore delle genti", simile a un "Gigante dotato di duplice sostanza", Gesù percorre alacremente la sua "corsa salvifica" (Giacomo Biffi): "Esca da questo talamo nuziale, / aula regia di santo pudore, / il Forte che sussiste in due nature / e sollecito compia il suo cammino". E così, il vescovo fa cantare e professare alla sua Chiesa l'altro dogma cristologico, le due nature, divina e umana di Gesù, nell'unica persona del Figlio di Dio, che "A noi viene dal Padre / e al Padre fa ritorno; / si slancia fino agli inferi / e riguadagna la sede di Dio". È il "cerchio salvifico" giovanneo: "Sono uscito dal Padre - scrive l'evangelista Giovanni - e sono venuto al mondo; ora lascio il mondo e vado al Padre" (Giovanni, 16, 28).
A sant'Ambrogio piace l'immagine del "gigante, biforme" - "uno nella doppia natura, partecipe della divinità e della corporeità" - insieme alla visione delle tappe del suo rapido itinerario di salvezza: "Dal cielo nella Vergine, dal grembo nel presepe, dal presepe al Giordano, dal Giordano alla croce, dalla croce al sepolcro e dal sepolcro al cielo".
La nostra salvezza si compie per un singolare intreccio di grandezza - l'uguaglianza con il Padre - e di umiltà - la nostra carne destinata al trionfo o la povera veste della nostra carne. Noi siamo redenti per l'infusione del vigore divino nella nostra debolezza umana, e si direbbe che Ambrogio si fermi in estasiata e commossa ammirazione di questo mistero: "Consostanziale e coeterno al Padre, / dell'umiltà della carne rivèstiti: / con il tuo indefettibile vigore / rinsalda in noi la corporea fiacchezza": "Consostanziale e coeterno al Padre" - ripete sant'Ambrogio - ed è il tema antiariano che ritorna da Nicea: Gesù è "della stessa sostanza del Padre", "Dio vero da Dio vero, generato non creato".
Ora lo sguardo finale di Ambrogio è rapito dall'incanto del presepe, sentito soprattutto come una sorgente inesausta di luce: "Già il tuo presepe rifulge / e la notte spira una luce nuova; / nessuna tenebra più la contamini / e la rischiari perenne la fede". Secondo il commento di Giacomo Biffi: "Quasi a riposare dalle altezze vertiginose del mistero, il canto si conclude sul quadro incantevole, per semplicità e grazia, del presepe betlemitico, segno nei secoli dell'incredibile "umiltà di Dio", fonte della sola luce - la fede - che può vincere la tenebra avvolgente del mondo".
Il tema e il linguaggio della luce, a cui contrastano le tenebre, ritorna nella prosa di Ambrogio, e già con gli accenti e la suggestione della poesia. Egli parla della "grande luce della divinità, non alterata da nessuna ombra di morte (quam nulla umbra mortis interpolat)", o dei "veri giorni non corrotti da alcuna caligine di notte", mentre ricorre la stessa espressione della poesia, nell'esposizione del Salmo 118, dove richiama il "chiarore di un fulgore perenne, non alterato da nessuna notte (claritas, quam nox nulla interpolat)".
Abitualmente in sant'Ambrogio la luce è il simbolo della fede incorrotta e tersa, a cui fa da contrasto la notte con le sue ombre e le sue tenebre, e sulla quale non cessa di vigilare, perché ritorni o si conservi limpida e integra nella sua Chiesa.
Il vescovo, con la sua poesia, ha così dotato la sua comunità di un inno per la celebrazione natalizia, che diventerà un'eredità preziosa e diffusa in tutta la Chiesa. "Il beato Ambrogio - scrive Cassiodoro - compose l'inno del Natale del Signore col più bel fiore della sua eloquenza".
Ma non è privo di interesse, infine, osservare l'intimo legame che nella sua visione unisce la concezione verginale del Verbo nel grembo di Maria sia con il mistero della Chiesa sia con lo stato della verginità consacrata, in cui quella concezione per opera dello Spirito si riverbera, poiché ne è la genesi e la forma.
Ambrogio parla della Chiesa "sposa per l'amore e vergine per l'illibatezza caritate uxor, integritate virgo", del "materno grembo della santa vergine Chiesa, ricca di una fecondità immacolata, per generare il popolo di Dio", motivo dell'allegrezza degli angeli. Predicando, poi, a quante hanno ricevuto "la grazia della verginità (virginitatis gratia)" e sono sposate "con il Verbo di Dio" - che a loro volta fanno gioire gli angeli - presenta come loro modello la "santa Chiesa immacolata, feconda nel parto, vergine per la castità e madre per la prole".
Chi non comprende e non stima la verginità consacrata non riesce a comprendere né il mistero di Cristo, apparso per la grazia dello Spirito, né il mistero della Chiesa con la sua "fecondità immacolata", né alla fine lo stesso matrimonio cristiano, in cui si riflette il vincolo indissolubile di Cristo e della Chiesa, adombrati nell'unione profetica di Adamo e di Eva.
Un'ultima considerazione, per sottolineare la bellezza e quasi la nostalgia di una Chiesa, che con il proprio vescovo esalta nel canto la propria fede in Gesù Figlio di Dio. Poiché l'eresia ariana - che a Gesù concede tutto tranne di essere Figlio di Dio - è ancora un'insidia serpeggiante, risalta in tutta la sua attualità soprattutto l'antico concilio di Nicea che, assieme agli altri primi concili, ha mirabilmente fissato per la Chiesa la sua intramontabile fede cristologica.



(©L'Osservatore Romano - 25 dicembre 2008)

Ravasi: Mistero e sacralità del concepimento

Maria incinta di Gesù


di Gianfranco Ravasi

C'è un bellissimo proverbio dei Berberi, popolazione discendente dagli antichi Egizi e stanziata nelle regioni montuose dell'Algeria e del Marocco, che afferma: "Se una madre ha nel ventre il figlio, il suo corpo è come una tenda quando nel deserto soffia il ghibli, è come l'oasi per l'assetato, è come un tempio per chi prega il Creatore". Tutte le grandi culture e le più modeste hanno sempre celebrato con rispetto e amore la gestazione. Si legga, solo per fare un esempio a noi vicino, la stupenda strofa del Salmo 139 che canta la misteriosa azione di Dio che sta "tessendo" e "impastando" la creatura umana all'interno del grembo della madre, realizzando così un vero capolavoro: "Sei tu che hai creato i miei reni, mi hai intessuto nel grembo di mia madre. Ti ringrazio perché con atti miracolosi mi hai fatto meraviglioso. Il mio scheletro non ti era nascosto quando fui plasmato nel segreto, ricamato nelle profondità della terra. Anche l'embrione i tuoi occhi l'hanno visto e nel tuo libro erano tutti scritti i giorni, già formati prima ancora che ne esistesse uno solo" (13-16).
Le immagini sono quelle del tessitore e del vasaio: talora nell'arte egizia si raffigura nel grembo della donna incinta un tornio, simbolo del dio Khnum, il creatore. Giobbe, in un'altra strofa di grande suggestione, immagina che Dio sia nel grembo della madre - oltre che tessitore e vasaio - come un pastore che sta impastando una forma di cacio: "Sono state le tue mani a plasmarmi e a modellarmi in tutto il mio profilo (...) Come argilla mi hai maneggiato (...) Non mi hai forse colato come latte e fatto cagliare come cacio? Non mi hai rivestito di pelle e di carne, non mi hai intessuto di ossa e di tendini?" (10, 8-11).
Secondo la curiosa scienza medica del tempo si riteneva che l'embrione fosse la semplice coagulazione del seme maschile, favorita dal mestruo della donna: tra l'altro, si deve notare che l'ovulo femminile verrà identificato solo nel 1827 da Karl Ernst von Baer. Il libro biblico della Sapienza, infatti, mette in bocca a Salomone queste parole: "Fui formato di carne nel seno d'una madre, durante dieci mesi (lunari), consolidato nel sangue mestruale, frutto del seme d'un uomo e del piacere compagno del sonno" (7, 1-2).
Ma c'è qualcosa di più nella Bibbia: Dio chiama il feto non solo a essere creatura umana ma anche a una vocazione, a un destino, a una meta che l'esistenza dovrà poi attuare. Quante volte si ripete che Isacco, Sansone, Samuele, Isaia, Geremia, lo stesso Israele, il Servo del Signore, il Battista, Paolo e così via sono stati chiamati da Dio fin dal "seno materno".
Per tutti citiamo un passo del racconto della vocazione di Geremia: "Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni!" (1, 5).
Un padre della Chiesa di Cappadocia in Turchia, Gregorio di Nissa, fratello di san Basilio, vissuto nel iv secolo esclamava: "Il modo con cui l'uomo viene al mondo è inspiegabile e inaccessibile alla nostra comprensione. Come infatti il seme umano, questa sostanza umida, informe e fluida può solidificarsi divenendo una testa, gambe e costole, come può formare il cervello tenero e molle e la cassa ossea così dura e resistente che lo racchiude, come può in una parola produrre questo insieme così complesso che è il corpo? Il seme, prima informe, si organizza e cresce sotto l'effetto dell'arte ineffabile di Dio" (Patrologia Graeca, 46, 667). D'altronde, come si è detto, questa specie di sacralità del feto e del grembo materno è celebrata da tutti i popoli. Basta solo come esempio quanto è scritto nel celebre poema babilonese della creazione, l'Enuma Elish, nella vi tavoletta: "Il dio Marduk decise di creare un capolavoro. Voglio dire un reticolo di sangue, formare un'ossatura e suscitare un essere il cui nome sarà: Uomo. Sì, voglio creare un essere umano, un uomo!".
Se ogni sbocciare della vita umana è un evento mirabile, se ogni esperienza di madre è straordinaria, unica è però l'"attesa" della donna di cui ora vorremmo parlare alle soglie del Natale, quella di Maria di Nazaret, incinta di Gesù. San Paolo, nell'unica menzione che ci offre della figura di Maria nei suoi scritti, la presenta semplicemente come madre del Cristo, "Figlio di Dio nato da donna, nato sotto la legge" (Galati, 4, 4). E non ci sarà nessun imbarazzo nell'arte cristiana, soprattutto nelle miniature dei libri d'ore, a raffigurare Maria gravida col ventre ormai ingrossato, mentre la Chiesa etiopica in un genere di inni detto malkee (effigie) esalta le parti del corpo di Maria, sulla scia dei ritratti della sposa presenti nel Cantico dei cantici (4 e 7), arrivando a identificare fino a 52 organi e benedicendo soprattutto il grembo che ha portato Gesù.
Per Maria, come è noto dal Vangelo di Luca, tutto era iniziato in quel giorno in cui nel modesto villaggio di Nazaret ella aveva avuto un'esperienza eccezionale: è quella che si è soliti chiamare Annunciazione, una scena divenuta uno dei modelli più luminosi dell'arte cristiana. L'immaginazione di tutti corre, credo, in modo spontaneo all'intatto splendore dell'Annunciazione del Beato Angelico nel Convento di San Marco a Firenze.
Noi, invece, immaginiamo ora di entrare nella Nazaret antica, il cuore dell'attuale città della Galilea. Allora essa era un villaggio insignificante e semitroglodita: infatti le povere case erano per buona parte addossate a grotte che fungevano da dispensa, da soggiorno estivo invernale, da camera per ospiti. Ora i pellegrini vedono incombere su Nazaret la mole della basilica francescana progettata dall'architetto italiano Giovanni Muzio e inaugurata nel 1969. Ma questo edificio, come è noto, ingloba nel suo interno non solo le reliquie dei precedenti edifici bizantini e crociati ma anche una grotta che fin dalle origini cristiane era stata una sorta di sinagoga-chiesa giudeo-cristiana gestita dai cosiddetti "fratelli del Signore", cioè i membri della sua parentela e del suo clan.
Contadini e gente modesta, essi avevano però conservato il ricordo vivo e ininterrotto della residenza di Maria. Ed è su queste pareti molto umili che è stata trovata quella che potremmo definire come la prima Ave Maria.
Ascoltiamo la testimonianza dello stesso scopritore, il francescano Bellarmino Bagatti, famoso archeologo, scomparso nel 1990: "Nell'intonaco dell'edificio-sinagoga si trovò un'iscrizione in caratteri greci. Essa recava in alto le lettere greche XE e, sotto, MAPIA. È ovvio riferirsi alle parole greche che il Vangelo di Luca mette in bocca all'angelo annunziatore: Cháire Maria (Ave Maria). L'ignoto autore di quell'iscrizione aveva insomma voluto ripetere il gentile saluto. Nell'intonaco di una colonna si è trovata quest'altra iscrizione: "In questo santo luogo di M(aria) ha scritto". Nell'intonaco di un'altra pietra, che contiene molti graffiti, ce n'è uno in armeno, nel quale si legge la parola keganuish, la quale è il titolo "bella ragazza" che gli armeni sogliono dare a Maria.
Nella stessa casa di Maria si praticava il culto di lei fin dalle origini della Chiesa, perché lì essa era stata scelta a "madre di Cristo". Sullo sfondo di questa grotta che aveva accanto a sé una povera residenza la "bella ragazza" Maria riceve quell'annunzio assolutamente sorprendente: "Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo, il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine (...) Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà santo e chiamato Figlio di Dio" (Luca, 1, 32-33.35). Le parole che l'angelo pronunzia assomigliano a un piccolo Credo che offre una perfetta definizione dell'identità del Cristo. Egli è il Grande in assoluto, re eterno, discendente davidico, Figlio dell'Altissimo e Figlio di Dio, il Santo per eccellenza. Non siamo di fronte, dunque, al pur mirabile mistero di ogni nascita umana ma a qualcosa di assoluto e di supremo, che non fiorisce dalle normali vicende della concezione e della procreazione.
È per questo che il racconto lucano insiste sulla verginità di Maria: "Non conosco uomo", essa risponde all'angelo. Più che all'intenzione di conservare la verginità anche durante il matrimonio come voto, come voleva l'interpretazione di alcuni Padri della Chiesa, questa frase rimanda al mistero che l'evangelista vuole esaltare. Gesù non nasce dalla carne e dal sangue ma dallo Spirito Santo. Pur percorrendo la via biologica dell'embrione, del feto e del neonato, egli non è concepito dal seme di Giuseppe ma dall'ingresso di Dio stesso, attraverso il suo Spirito fecondatore, nel grembo di Maria che Luca compara all'arca dell'alleanza di Sion. Infatti, nell'originale greco abbiamo kecharitoméne, che è un participio passivo "teologico", cioè avente come soggetto sottinteso Dio: Maria è stata pervasa dalla grazia divina che risplende nel Figlio Gesù, la presenza perfetta di Dio tra gli uomini.
Di fronte allo sconcerto di Maria e alla sua esitazione, san Bernardo costruisce una deliziosa meditazione: "L'angelo aspetta la tua risposta, o Maria! Stiamo aspettando anche noi, o Signora, questo tuo dono che è dono di Dio. Sta nelle tue mani il prezzo del nostro riscatto. Rispondi presto, o Vergine, pronuncia, o Signora, la parola che terra e inferi e persino il cielo aspettano. Apri dunque, o Vergine beata, il tuo cuore alla fede, le tue labbra alla parola, il tuo seno al Creatore. Ecco, colui che è il desiderio di tutte le genti, sta fuori e bussa alla tua porta (...) Alzati, corri, apri! Alzati con la tua fede, corri col tuo affetto, apri col tuo consenso".
L'esegeta americano Raymond Edward Brown nel suo saggio sulla Nascita del Messia (edizioni Cittadella) mette giustamente a confronto le due annunciazioni parallele, quella a Elisabetta per la nascita del Battista e quella a Maria, e conclude: "Nell'annunciazione della nascita di Giovanni Battista ci troviamo di fronte a un ardente desiderio e a una preghiera da parte dei genitori che sentono molto la mancanza di un figlio; siccome, però, Maria è una vergine che non è ancora andata a vivere con il proprio marito, non esiste da parte sua ardente desiderio o umana attesa di avere un figlio: si tratta della sorpresa della donazione. Non si ha più a che fare con la supplica da parte dell'uomo e il generoso esaudimento da parte di Dio: qui ci troviamo davanti all'iniziativa di Dio che oltrepassa qualsiasi cosa sognata da uomo o da donna".
Per un momento lasciamo il testo evangelico e inoltriamoci nel mondo della pietà popolare dei primi secoli, rappresentato soprattutto dai cosiddetti Vangeli apocrifi, espressione di fede e di folclore, di storia e di fantasia. Scegliamo il testo più famoso, il Protovangelo di Giacomo (ma sarebbe meglio chiamarlo La Natività di Maria), scoperto da un umanista francese, Guglielmo Postel, morto nel 1582, opera da collocare già nel ii secolo.
L'annunciazione a Maria viene descritta in due tappe: la prima alla fontana del villaggio, che ancor oggi è indicata a Nazaret e la cui sorgente è all'interno dell'attuale chiesa ortodossa di San Gabriele; la seconda all'interno della sua abitazione.
Leggiamo la narrazione: "Presa la brocca, Maria uscì ad attingere acqua. Ecco all'improvviso una voce: Gioisci, piena di grazia, il Signore è con te, benedetta fra le donne! Maria guardava intorno, a destra e a sinistra, per scoprire donde veniva la voce. Tutta tremante, tornò a casa, posò la brocca, prese la porpora, si sedette su uno sgabello e si mise a filare. Ma ecco un angelo del Signore davanti a lei: Non temere, Maria, perché hai trovato grazia davanti al Signore di tutte le cose. Tu concepirai per la sua parola! Udendo ciò, Maria restò perplessa, pensando: Dovrò io concepire per opera del Signore Dio vivente e poi partorire come ogni altra donna? Ma l'angelo del Signore le disse: Non così, Maria! Ti coprirà, infatti, con la sua ombra la potenza del Signore. Perciò l'essere santo che nascerà da te sarà chiamato Figlio dell'Altissimo".
Ritornando al testo evangelico di Luca, Maria, in seguito alla sua accettazione, espressa con la formula solenne: "Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto" (Luca, 1, 38), diventa incinta di Gesù. La liturgia cristiana, collocando convenzionalmente la nascita di Cristo il 25 dicembre, sovrapponendola alla festa pagana del dio Sole, ha retrodatato secondo i regolari nove mesi di gestazione l'annunciazione a Maria, datandola al 25 marzo. Questa solennità, che giustamente è definita dalla liturgia "festa del Signore", apparve nel vi secolo in Asia Minore e fu accolta anche a Roma da Papa Sergio (687-701). Famoso è il suo bel prefazio ancor oggi usato, ispirato - pare - all'antica liturgia ispanica: "All'annunzio dell'angelo la Vergine accolse nella fede la tua parola e per l'azione misteriosa dello Spirito Santo concepì e con ineffabile amore portò in grembo il primogenito della nuova umanità". Ma questa improvvisa e sorprendente maternità di Maria creò sconcerto anche in un'altra persona, il promesso sposo Giuseppe.
Nella prassi matrimoniale ebraica antica il fidanzamento era considerato a tutti gli effetti il primo atto del matrimonio stesso. A segnalarci questo sconcerto è l'evangelista Matteo che ci narra l'annunciazione a Giuseppe. Di fronte al desiderio di Giuseppe di "ripudiare" - sia pure senza un processo pubblico e col relativo atto ufficiale di ripudio - Maria incinta (per reazione umana o per rispetto di fronte al mistero che si compiva in lei? Il testo matteano può essere interpretato in entrambi i modi), l'angelo Gabriele invita lo sposo promesso di Maria a completare la prassi matrimoniale e a divenire il padre legale di Gesù: "Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù" (1, 20-21).
Molto più pittoresca è, invece, la relazione che gli apocrifi fanno della reazione di Giuseppe di fronte alla scoperta della gravidanza di Maria.
Lasciamo ancora la parola al Protovangelo di Giacomo: "Maria era ormai al sesto mese. Giuseppe, tornato a casa dal lavoro, la vide incinta. Allora si schiaffeggiò la faccia, si gettò a terra su un sacco, pianse amaramente e disse: Come farò a guardare e pregare il Signore per lei? L'ho ricevuta vergine dal tempio del Signore e non l'ho custodita! Chi l'ha insidiata? Chi ha commesso questa disonestà in casa mia contaminandola? Giuseppe si alzò dal sacco, chiamò Maria e le disse: Prediletta da Dio, perché hai fatto questo e ti sei dimenticata del Signore tuo Dio? Perché hai avvilito l'anima tua, tu che sei stata allevata nel Santo dei Santi e ricevevi il cibo dalla mano di un angelo? Maria si mise a piangere amaramente: Io sono pura, non conosco uomo! E Giuseppe: Da che parte viene, allora, quello che hai nel ventre? Maria rispose: Quanto è vero il Dio vivente, questo che è in me non so donde sia!". Confortato dall'angelo, Giuseppe è però costretto dai sacerdoti a sottoporre Maria a una specie di ordalia, detta "della gelosia", e descritta nel capitolo 5 del libro biblico dei Numeri. Essa consisteva nel bere una pozione, chiamata "acqua della prova", che avrebbe rivelato il peccato, facendo morire l'adultera. Maria, sottoposta a questa verifica rituale, ne esce sana e salva.
Più aspra e sarcastica sarà, invece, la reazione del mondo giudaico dei primi tempi cristiani nei confronti della concezione verginale di Maria. La testimonianza che abbiamo al riguardo è particolarmente complessa. Essa ci proviene da un autore cristiano, Origene, che cita polemicamente il filosofo platonico del ii secolo, Celso, il quale nella sua opera Dottrina verace presentava a sua volta le argomentazioni di un giudeo ostile al cristianesimo. Ora, una delle accuse riguarda proprio "la storia della nascita di Gesù da una vergine". In realtà, stando sempre al giudeo di Celso, le cose sarebbero andate ben diversamente: "Gesù era originario di un villaggio della Giudea e aveva avuto per madre una povera indigena che si guadagnava da vivere filando. Accusata di adulterio, perché resa incinta da un certo soldato di nome Panthera, fu scacciata da suo marito, un artigiano. Errando in modo miserevole, dette alla luce di nascosto Gesù. Costui, cresciuto, spinto dalla povertà, andò in Egitto a lavorare; qui apprese alcune di quelle arti segrete per cui gli Egiziani sono celebri, ritornò dai suoi tutto fiero per le arti apprese e grazie ad esse si autoproclamò Dio" (Contro Celso, 1, 28.32). Effettivamente alcuni rabbini dei primi anni del secondo secolo chiamano Gesù "figlio di Panthera", una tradizione che continuerà nel giudaismo fino al Medioevo quando nell'opera Generazioni di Gesù si dichiarerà "Giuseppe Pandera" padre di Gesù. Non è da escludere che questo nome "Panthera" non sia che una deformazione della parola greca parthènos, "vergine", che i cristiani applicavano a Maria.
Si confermava così, sia pure indirettamente, la dottrina cristiana della verginità di Maria, considerata come un dato comune nella Chiesa delle origini. Una curiosa testimonianza indiretta ci è offerta anche da una frase del celebre prologo del Vangelo di Giovanni, passibile di una duplice lettura, stando ai testi antichi che ce l'hanno trasmesso. Una prima lettura suona così: i figli di Dio, che credono in Cristo, "non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati" (Giovanni, 1, 13). Un'altra lettura, che è attestata anche dai Padri della Chiesa del ii secolo, legge al singolare la frase così da trasformarla in una professione di fede nella concezione verginale di Cristo, "il quale non da sangue - in greco si ha il plurale "sangui" - né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio fu generato". Il plurale "sangui" si spiegherebbe secondo le leggi levitiche della purificazione della donna (Levitico, 12, 4.7; 20, 18). Sta di fatto, comunque, che la frase così letta dichiarerebbe esplicitamente che il figlio di Maria è "l'Unigenito venuto dal Padre, pieno di grazia e di verità", come ancora si legge nel prologo giovanneo (1, 14), e non giunto a noi attraverso i processi genetici umani.
Se, però, si volesse tentare una strada di taglio "comparativistico", considerando la verginità di Maria come un reperto mitologico desunto da qualche altro orizzonte storico-culturale, al di là delle varianti strutturali e tematiche, varrebbe sempre la considerazione che l'allora teologo Joseph Ratzinger proponeva nella sua famosa Introduzione al cristianesimo: "Le leggende extrabibliche di questo tipo sono profondamente diverse dal racconto della nascita di Gesù, sia nel loro vocabolario sia nella loro morfologia concettuale. La divergenza centrale sta nel fatto che, nei testi pagani, la divinità appare quasi sempre come una potenza fecondatrice, generatrice, ossia sotto un aspetto più o meno sessuale, e quindi in veste di 'padre' in senso fisico del bimbo redentore. Nulla di tutto ciò nel Nuovo Testamento: la concezione di Gesù è una nuova realtà, non una generazione da parte di Dio. Pertanto, Dio non diventa suppergiù il padre biologico di Gesù".
Oltre alla demitizzazione c'è, dunque, una dematerializzazione da introdurre per comprendere correttamente l'originalità dell'evento della generazione di Cristo.
Ma ritorniamo ai mesi dell'attesa di Maria. Luca ci offre un episodio, quello della visita di Maria alla cugina Elisabetta anch'essa incinta, in cui riappare il mistero di ciò che sta germogliando nel grembo della madre di Gesù. La narrazione ha come sfondo "la montagna e una città di Giuda" anonima, che però la tradizione bizantina e crociata ha voluto identificare con Ain Karim ("sorgente della vigna"), un delizioso villaggio ormai aggregato a Gerusalemme. Esso è ora dominato dal santuario francescano della Visitazione, eretto nel 1939, nel cui cortile esterno è riprodotto, su maioliche in decine e decine di lingue diverse, il canto di Maria, il Magnificat. Ma sono le parole di Elisabetta a esaltare la gestazione di Maria.
Infatti, se è vero che il bimbo di Elisabetta, il futuro Giovanni Battista, "esulta di gioia nel suo grembo" appena udita la voce di Maria, la benedizione più solenne è riservata alla "madre del Signore": "Benedetta tu tra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!". Si tratta di una frase modellata sull'Antico Testamento, ed entrata poi nella più celebre e costante preghiera mariana, l'Ave Maria. Tutta la prima Alleanza incarnata dal Battista, l'ultimo dei profeti, si rivolge al Figlio di Dio e a sua madre accogliendoli con amore e gioia. Maria resta circa tre mesi dalla cugina, fino alla nascita di Giovanni e poi ritorna a casa sua (cfr. Luca, 1, 56). Ormai anche per lei si avvicina progressivamente il grande momento del parto. L'evangelista, infatti, ci aveva ricordato che Maria aveva ricevuto l'annunciazione "nel sesto mese" dalla concezione del Battista. Quando le ultime settimane stanno per scadere, ecco l'incubo del censimento di Quirinio. Lasciamo ancora la parola a Luca: "Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo" (2, 4-7).
Gli apocrifi non si accontentano della sobrietà asciutta del racconto evangelico e quei particolari momenti li vogliono seguire con maggior colore e fantasia. Ecco come il citato Protovangelo di Giacomo descrive quel viaggio (a cui partecipa anche un figlio avuto da Giuseppe, vedovo di un precedente ipotetico matrimonio): "Giuseppe sellò l'asino e vi fece sedere Maria. Il figlio di lui tirava la bestia e Giuseppe li accompagnava. Giunti a tre miglia da Betlemme, Giuseppe si voltò e la vide triste. Disse tra sé: Ormai è ciò che è in lei a crearle travaglio. Ma, voltatosi poco dopo, vide che rideva. Le chiese: Cos'hai, Maria, che vedo il tuo viso ora sorridente ora triste? Rispose: È perché io vedo coi miei occhi due popoli: uno piange e fa cordoglio, mentre l'altro è pieno di gioia ed esulta. Giunti a metà strada, Maria disse a Giuseppe: Calami giù dall'asino perché colui che è in me ha fretta di venire fuori. Egli la calò giù e le disse: Dove posso condurti per mettere al riparo il pudore? Il luogo, infatti, è deserto. Trovò però una grotta, ve la condusse e lasciò presso di lei suo figlio e corse a cercare un'ostetrica nella regione di Betlemme".
E da questo momento in avanti comincia per questo autore ignoto del ii secolo una sfilata di prodigi che accompagneranno la nascita del Cristo. Noi ci fermiamo qui davanti a Maria, alle soglie del parto, di quel momento in cui, come dirà Gesù nell'ultima sera della sua vita terrena, "la partoriente è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bimbo, non si ricorda più dell'afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo" (Giovanni, 16, 21). Lo zelo di alcuni scrittori cristiani antichi e di alcuni mariologi aveva negato a Maria le doglie del parto, considerate frutto del peccato originale.
In realtà nel testo della Genesi, come altrove nella Bibbia, le doglie sono usate come simbolo per indicare piuttosto la frattura che il peccato ha introdotto nell'armonia dell'amore di coppia e nella stessa generazione. L'esperienza della gestazione e di quei dolori, come dice Gesù, in realtà dona una ricchezza particolare alla donna.
Una ricchezza che in Maria raggiunse l'ineffabile. Un'esperienza che solo Maria poté assaporare e che noi possiamo soltanto immaginare. Una maternità che sorprendentemente lo scrittore e fìlosofo ateo francese Jean-Paul Sartre ha ben rappresentato anche sotto l'aspetto "psicologico" nel suo primo testo teatrale, Bariona o il figlio del tuono, composto per il Natale del 1940 nello Stalag xiiD nazista di Treviri, dove era stato internato. Scrive infatti: "Maria avverte nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio, il suo bambino, ed è Dio. Lo guarda e pensa: Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatto di me. Ha i miei occhi. La forma della sua bocca è la forma della mia. M'assomiglia. Nessuna donna ha mai potuto avere in questo modo il suo Dio per sé sola. Un Dio bambino che si può prendere tra le braccia e coprire di baci. Un Dio caldo che sorride e respira. Un Dio che si può toccare e che ride".

Il Natale nella poesia liturgica di Romano il Melode

Adamo ed Eva
alla grotta del nuovo bambino


di Manuel Nin

Le tradizioni liturgiche orientali, molto spesso con forme letterarie belle e nello stesso tempo contrastanti, ci propongono la contemplazione del mistero della nostra fede. Romano il Melode, teologo e poeta bizantino del vi secolo, nel suo primo kontàkion (poema a uso liturgico) come ritornello ripete le parole "nuovo bambino, il Dio prima dei secoli" che riassumono il mistero celebrato: il Dio eterno, esistente prima dei secoli, diventa nuovo nel bambino neonato. La tradizione bizantina, celebrando la "nascita secondo la carne del Dio e salvatore nostro Gesù Cristo" accosta, sia nell'iconografia che nell'eucologia, la celebrazione del Natale a quella della Pasqua. L'icona del Natale nel bambino fasciato messo in un sepolcro vuole prefigurare già il sepolcro dove il Signore, di nuovo fasciato, verrà messo il Venerdì Santo per risuscitarne glorioso all'alba di Pasqua. I testi della liturgia con immagini molto profonde e vivaci ci propongono così tutto il mistero della nostra salvezza.
Nelle settimane precedenti il Natale, senza un vero e proprio periodo corrispondente all'Avvento delle tradizioni latine, la liturgia bizantina in bellissimi tropari ci ha fatto pregustare tutto il mistero dell'Incarnazione: l'attesa fiduciosa e la povertà della grotta, prefigurazione della miseria dell'umanità che accoglie il Verbo di Dio; e ancora, tutta la serie di figure e personaggi che si affacciano nella vita liturgica di questi giorni: i profeti Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Daniele e i Tre Fanciulli; Betlemme, quasi personificata e collegata con l'Eden; Isaia che si rallegra, Maria, la Madre di Dio presentata come "agnella", cioè colei che porta in seno Cristo, l'Agnello di Dio; infine, nelle due domeniche che precedono il Natale, i Progenitori di Dio da Adamo fino a Giuseppe, cioè la lunga serie di figure che hanno atteso il Cristo e che ci ricordano il fatto che anche noi siamo parte di una storia e di una umanità che l'accolgono nella veglia fiduciosa, ma anche nel buio, nel dubbio e nel peccato.
Nel secondo dei kontàkia Romano il Melode narra la visita di Adamo ed Eva alla grotta del neonato. Il canto di Maria all'orecchio del bambino sveglia Eva dal sonno eterno ed essa persuade Adamo di recarsi nella grotta per capire cosa sia quel canto. Nel dialogo tra Eva e Adamo svegliati ormai dal loro sonno la donna gli annuncia la buona notizia: "Ascoltami, sono la tua sposa: io, che sono stata la prima a provocare la caduta dei mortali, oggi mi rialzo. Considera i prodigi, guarda l'ignara di nozze che guarisce la nostra piaga con il frutto del suo parto. Il serpente una volta mi sorprese e si rallegrò, ma al vedere ora la mia discendenza fuggirà strisciando". La nascita verginale di Cristo diventa guarigione, salvezza per il genere umano ferito dal peccato.
E le risponde Adamo: "Riconosco la primavera, o donna, e aspiro le delizie da cui decademmo allora. Scorgo un nuovo, diverso paradiso: la Vergine che porta in grembo l'albero di vita, lo stesso albero sacro che custodivano i cherubini per impedirci di toccarlo. Ebbene, guardando crescere questo intoccabile albero, ho avvertito, o mia sposa, il soffio vivificante che fa di me, polvere e fango immoti, un essere animato. Adesso, rinvigorito dal suo profumo, voglio andare dove cresce il frutto della nostra vita, dalla Piena di grazia". Il risveglio di Adamo è una prefigurazione, in quanto viene collocato nella primavera, cioè nel contesto pasquale in cui sarà definitivamente riportato in paradiso. E questo è anche cambiato, rinnovato: "Scorgo un nuovo, diverso paradiso", che altro non è se non il grembo della Vergine che porta il nuovo albero della vita.
"Sono sopraffatto dall'amore che sento per l'uomo" risponde il Creatore. "Io, o ancella e madre mia, non ti rattristerò. Ti farò conoscere tutto ciò che sto per fare e avrò rispetto per la tua anima, o Maria. Il bambino che ora porti tra le braccia, lo vedrai fra non molto con le mani inchiodate, perché ama la tua stirpe. Colui che tu nutri, altri l'abbevereranno di fiele; colui che tu chiami vita, dovrai tu vederlo appeso alla croce, e di lui piangerai la morte. Ma tu mi stringerai in un abbraccio allorché sarò risuscitato, o Piena di grazia. Tutto questo sopporterò volentieri, e causa di tutto questo è l'amore che ho sempre sentito e sento tuttora per gli uomini, amore di un Dio che non chiede altro che di poter salvare". All'udire queste parole Maria grida: "O mio grappolo, che gli empi non ti frantumino! Quando sarai cresciuto, o Figlio mio, che io non ti veda immolato!". Ma egli risponde: "Non piangere Madre, su ciò che non sai: se tutto questo non sarà compiuto, tutti coloro, a favore dei quali mi implori, periranno, o Piena di grazia".
Un Dio il quale "non chiede altro che di poter salvare". Questa è la realtà, l'unica realtà che celebriamo in questi giorni nella nostra fede cristiana: l'amore di Dio per gli uomini manifestatosi pienamente in Gesù Cristo. E viviamo questa realtà in tutta la nostra vita come cristiani. Come cristiani nel condividere - e forse anche nel mettere in contrasto la nostra fede - con un mondo segnato fortemente dall'individualismo, dall'oblio dell'altro, dall'ignoranza degli altri; una fede che dovrà predicare un Dio che è dono gratuito, che perdona, che ama, e perché ama si sacrifica per gli altri e non chiede altro che poter salvare. Lui "nuovo bambino, il Dio prima dei secoli".



(©L'Osservatore Romano - 25 dicembre 2008)

lunedì 22 dicembre 2008

Intervista a monsignor Guido Marini sulle novità liturgiche nei riti natalizi presieduti dal Papa

Illustrate dal maestro delle celebrazioni pontificie monsignor Guido Marini

Le novità liturgiche
nei riti natalizi presieduti dal Papa


di Gianluca Biccini

La scultura raffigurante la Vergine in trono con il Bambino collocata accanto all'altare della confessione della Basilica di San Pietro dalla notte di Natale fino all'Epifania, e non solo nella solennità della Santissima Madre di Dio; il canto della Kalenda, non più all'interno della celebrazione eucaristica della vigilia, ma prima della processione d'inizio; il consueto omaggio floreale dei bimbi dei cinque continenti spostato al termine della stessa messa, quando Benedetto XVI sosterà davanti al presepio per deporvi la statuina del Bambino Gesù; e infine la mozzetta con la stola indossate dal Papa per la benedizione Urbi et orbi al posto del piviale utilizzato in passato. Sono le novità più significative di quest'anno nei riti natalizi presieduti da Benedetto XVI. Le spiega al nostro giornale il Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, monsignor Guido Marini, che in quest'intervista illustra anche le motivazioni alla base di tali scelte.

Siamo alle porte del Natale. Che cosa significa questo per la vita liturgica della Chiesa?

Le celebrazioni liturgiche del tempo di Natale, a cominciare dalla messa della notte, conducono i fedeli alla contemplazione del mistero dell'Incarnazione, il mistero della nostra salvezza. La Chiesa si ferma a contemplare, ancora una volta, il volto di Colui che è l'unico Salvatore del mondo. Di fronte al mistero dell'Incarnazione tutto deve concorrere a suscitare stupore: le parole, i gesti, i silenzi, i segni, la musica, il canto, il rito nel suo complesso. Non può non destare meraviglia, infatti, l'evento del Figlio di Dio che si fa bambino per noi e per la nostra salvezza. Lì si rende presente la straordinaria bellezza del mistero del Signore e del suo Amore ricco di infinita misericordia. Egli è il Dio con noi.

Per molti, forse, la nascita di Gesù è solo un fatto che appartiene al passato.

Non si tratta solo di un fatto del passato, ma di un fatto che oggi ancora si rende presente e vivo nella celebrazione liturgica. Proprio per questo il Natale è caratterizzato dalla gioia.

Dalla Liturgia alla vita: come vivere questa necessaria relazione?

Con il bagaglio della propria vita si entra nella liturgia e dalla liturgia si ritorna alla vita profondamente rinnovati. L'incontro con il mistero di Dio, quando è autentico, non può che portare a un cambiamento dell'esistenza. È importante, da questo punto di vista, che il rito risplenda luminoso e, dunque, capace di rendere partecipabile da tutti il mistero celebrato. Non si tratta di fare cose nuove, ma di fare in modo nuovo quanto la Chiesa ci invita a compiere nel gesto rituale. Qui sta il grande compito di ogni liturgia esemplarmente celebrata e davvero vissuta. Se ciò accade si ha davvero la partecipazione attiva di tutti, perché tutti non soltanto prendono parte alla celebrazione, ma ne restano attivamente e spiritualmente coinvolti, così da entrare nell'azione di Cristo e della Chiesa e averne una crescita in santità.

C'è qualche particolare da sottolineare nelle celebrazioni natalizie presiedute da Benedetto XVI?

Quest'anno la bella scultura lignea policroma raffigurante la Vergine in trono con il Bambino benedicente, sarà collocata accanto all'altare della confessione a partire dalla notte di Natale fino al giorno dell'Epifania, e non solo nella solennità della Santissima Madre di Dio. Si è voluto così sottolineare come il tempo natalizio sia un tempo anche mariano. La Vergine Santa non distoglie dal mistero del Figlio di Dio che si fa uomo, ma al contrario aiuta a comprenderlo nel significato più vero.
È forse anche opportuno mettere in risalto il tempo della preparazione alla celebrazione: l'alternarsi di letture, preghiera e musica aiuta a disporre l'animo di tutti presenti al clima di adeguato raccoglimento. Allo stesso modo sono da intendere le indicazioni, annotate sui libretti liturgici, di un breve tempo di silenzio, previsto dopo l'omelia del Santo Padre e dopo la distribuzione della Santa Comunione. Si tratta di brevi pause che aiutano il raccoglimento e la preghiera, soprattutto per assimilare il dono della Parola di Dio ascoltata e il dono dell'Eucaristia di cui ci si è nutriti.

Veniamo alla notte di Natale e alla benedizione Urbi et orbi.

Come già gli anni scorsi, è prevista una breve veglia di preghiera in preparazione alla santa messa della notte. Quest'anno, però, la veglia sarà arricchita dal canto della Kalenda, non più prevista all'interno della celebrazione eucaristica. L'antico testo della Kalenda che annuncia la nascita storica del Salvatore, di conseguenza, sarà l'ultimo atto della veglia prima che si dia avvio alla processione d'inizio della messa.
Il martirologio romano prevede il canto della Kalenda nel giorno della vigilia di Natale alla conclusione delle Lodi o di un'ora minore della Liturgia delle Ore. In questo senso la collocazione della Kalenda al termine della veglia di preghiera sembra più rispondente alla sua natura.
Al canto del Gloria, invece, dopo l'intonazione del Santo Padre, saranno suonate le campane con l'accompagnamento dell'organo, ma non vi sarà il consueto rito dell'omaggio floreale dei bambini, in rappresentanza dei vari continenti. Questo omaggio è stato spostato al termine della celebrazione eucaristica, quando il Pontefice si recherà davanti al presepio per la collocazione dell'immagine del Bambino Gesù.
Quanto alla benedizione Urbi et orbi, il Santo Padre non indosserà il piviale. Si è preferito optare per la mozzetta con la stola trattandosi di una benedizione solenne che non comporta un particolare rito.

Lo scorso anno, nella Cappella Sistina, per la festa del Battesimo del Signore, il Papa ha celebrato all'altare antico. Anche per quest'anno si prevede la stessa cosa?

Sì, anche quest'anno sarà utilizzato l'altare proprio della Cappella Sistina. Si celebrerà nuovamente all'altare antico per non alterare la bellezza e l'armonia di questo gioiello architettonico, preservando la sua struttura dal punto di vista celebrativo e usando una possibilità contemplata dalla normativa liturgica. Ciò significa che in alcuni momenti il Papa, insieme con i fedeli, si rivolgerà verso il Crocifisso, sottolineando così anche il corretto orientamento della celebrazione eucaristica: l'orientamento al Signore.
Per il resto la celebrazione avrà il consueto svolgimento e il Santo Padre donerà il sacramento del Battesimo a tredici bambini.

E per finire, qualche altro dettaglio?

È forse utile ricordare che le lingue scelte per le letture e per le intenzioni della preghiera dei fedeli intendono rispecchiare la partecipazione di persone provenienti da diversi Paesi del mondo. Allo stesso tempo, il latino usato nella celebrazione esprime l'unità e la cattolicità, pur nella diversità delle appartenenze linguistiche.
Aggiungo che, al canto dei Vespri dell'ultimo giorno dell'anno seguiranno, anche stavolta, l'esposizione del Santissimo Sacramento con il canto del Te Deum di ringraziamento e la conseguente Benedizione eucaristica, a significare la centralità dell'adorazione nella vita della Chiesa.
Inoltre, alla messa del primo gennaio prenderanno parte, alla presentazione dei doni e alla lettura delle intenzioni della preghiera dei fedeli, alcuni bambini e adulti provenienti dal Libano.
Infine, per la solennità dell'Epifania, il Santo Padre indosserà una pianeta di Paolo vi, come già ha fatto in qualche altra celebrazione, a sottolineare ancora una volta il necessario equilibrio nell'uso liturgico di cose nuove e cose antiche.



(©L'Osservatore Romano - 22-23 dicembre 2008)

Pio XII architetto di pace

Il cardinale Tarcisio Bertone a Montefiascone

Pio XII è stato un grande Papa, vissuto in un periodo particolarmente difficile e "giustamente definito architetto di pace" per avere "costantemente invocato la pace" e dato rifugio agli ebrei che fuggivano dalla furia nazista. Oggi invece è ingiustamente vilipeso. Il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, ha voluto ricordare così Papa Pacelli "sincero amico dell'umanità e fedele servitore della Chiesa". L'occasione gli è stata offerta dall'invito a celebrare, domenica scorsa 21 dicembre, la messa nella concattedrale di Montefiascone a conclusione delle manifestazioni celebrative organizzate dalla diocesi per il cinquantesimo della morte di Pio XII.
Facendo riferimento alla prossimità delle feste natalizie, foriere di quel messaggio di pace "dono prezioso del Natale", che si identifica in Cristo, che è la nostra "vera pace", ha ricordato come proprio Papa Pacelli non cessò mai "di invocare la pace negli anni travagliati del suo lungo pontificato. Come non richiamare, ad esempio, il suo accorato radiomessaggio del Natale 1942? In esso indicò al mondo i cinque punti essenziali per costruire la pace su solidi fondamenti di una nuova società: riconoscimento e tutela della dignità e dei diritti della persona umana; centralità della famiglia, fondamento della società; dignità del lavoro e salari giusti per le necessità dei lavoratori e delle loro famiglie; sicurezza giuridica, mediante un giusto ordinamento giuridico; la concezione dello Stato e del potere come servizio alla persona". E della pace Pio XII non si limitò a proclamare solo la necessità con ripetuti appelli, ma volle in modo concreto testimoniare la sua ansia per essa con una ben nota e intensa attività caritativa in favore delle famiglie più colpite dai tragici eventi bellici. "E quando si scatenò la persecuzione contro gli Ebrei - ha ricordato il cardinale -, volle impartire urgenti e precise disposizioni alle istituzioni cattoliche di Roma affinché aprissero le porte a uomini, donne e bambini anche a rischio della vita; così che potettero salvarsi proprio grazie al coraggio e alla sensibilità del Papa e della Chiesa".
Il segretario di Stato ha poi voluto ricordare il sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo riaffermando l'inalienabilità e l'universalità dei diritti umani, oggi a rischio a causa dell' "individualismo e del relativismo culturale ed etico che caratterizza ampiamente il nostro tempo".
Nel pomeriggio il cardinale segretario di Stato ha presenziato, nella rocca dei papi sempre a Montefiascone, alla presentazione del libro di monsignor Fabio Fabene intitolato Un buon pastore. Il volume, edito in elegante veste tipografica dalla Libreria Editrice Vaticana, è interamente dedicata al vescovo di Viterbo monsignor Luigi Boccadoro (1911-1998), la cui figura - grazie alla conoscenza e all'abilità descrittiva dell'autore - si staglia sulla scena di un momento storico di notevoli cambiamento sociali ed ecclesiali". "Monsignor Fabene - ha detto il cardinale Bertone presentando l'opera - conduce il lettore nel cuore stesso del prete e del vescovo Boccadoro", mostrandone l'aspetto "dell'instancabile lavoratore", costantemente al servizio della sua Chiesa e dei suoi figli.
Il pregio del lavoro di monsignor Fabio Fabene sta nell'essere riuscito a far emergere la figura di un pastore legato ai suoi più saldi principi ma straordinariamente aperto al futuro e - come nota il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione dei Vescovi, nella prefazione - "con il cuore aperto a tutti".



(©L'Osservatore Romano - 22-23 dicembre 2008)

I Papi amici dell'astronomia

Il contributo complementare e reciproco della scienza e della fede

di Guy J. Consolmagno
Gesuita, Specola Vaticana

Chi erano i Papi ricordati nell'ultimo Angelus prima di Natale - nel giorno del solstizio d'inverno - da Benedetto XVI? E come si inseriscono nella storia della Chiesa e nella storia dell'astronomia?
L'erudizione di Papa Silvestro ii era molto avanzata rispetto al suo tempo e la gente lo considerava un mago e uno stregone! Nato Gerberto d'Aurillac in Francia, entrò nel monastero di San Geraldo di Aurillac, in Spagna, dove conobbe per la prima volta la cultura araba, in particolare gli studiosi di matematica e di astronomia di Cordoba - allora sotto il dominio arabo. In seguito insegnò presso la scuola della cattedrale di Reims, dove, per breve periodo, fu anche arcivescovo. Poi divenne tutore dell'Imperatore Ottone iii. Fu quindi arcivescovo di Ravenna prima di essere eletto Papa nel 999. Morì nel 1003.
Influenzò lo sviluppo dei programmi universitari medievali, ma probabilmente è più noto per aver introdotto in Europa l'uso dei numeri arabi e dell'abaco. Nel campo dell'astronomia, introdusse la sfera armillaria, uno dei primi congegni utilizzati per determinare la posizione del sole e dei pianeti durante l'anno. Importante per la storia dell'astronomia e per questo quattrocentesimo anniversario del telescopio di Galileo, è che Gerberto utilizzò cannocchiali - ma senza lenti - attaccati a un astrolabio per meglio allineare lo strumento alle stelle giuste.
Papa Gregorio xiii è, certo, più famoso per la sua riforma del calendario. L'astronomia, che implica lo studio del sole, della luna e di tutti gli altri corpi celesti, era legata in origine all'esigenza di stilare calendari. Conoscere i giorni durante i quali le stagioni mutano è importante per qualsiasi cultura basata sull'agricoltura. Tuttavia per la Chiesa primitiva, il primo giorno di primavera aveva un'altra valenza: era utilizzato per calcolare la data della Pasqua.
Il primo concilio di Nicea, nel 325, stabilì che la Pasqua seguisse il modello della prima Pasqua, che cadeva la prima domenica dopo Pesach. La festa ebraica di Pesach fu stabilita nella legge mosaica come prima luna piena di primavera. Quindi, per stabilire il giorno della Pasqua, bisognava sapere esattamente quando sarebbe iniziata la primavera. Il concilio di Nicea elaborò una formula matematica per calcolare la Pasqua, ma nel medioevo divenne chiaro che in quella formula avevano cominciato a sommarsi piccoli errori. Le linee meridiane dimostravano che la primavera era cominciata molti giorni addietro rispetto a quanto previsto dal calendario.
Il concilio aveva basato i suoi calcoli sul calendario civile o romano. Quando Giulio Cesare introdusse l'anno di 365,25 giorni, con un giorno intercalare ogni quattro anni, si sapeva già che quell'arco di tempo era un po' troppo lungo perché, paragonato al reale succedersi delle stagioni, causava un errore di un giorno ogni 133 anni. Questa piccola differenza sarebbe però cresciuta con il passare del tempo e nel medioevo divenne evidente che l'equinozio di primavera non coincideva con quello ufficiale del 21 marzo. Inoltre, il calcolo della data di Pasqua si allontanava dai tempi reali intesi dal concilio di Nicea.
I concilii, in particolare quelli tenutisi a Costanza (1414-1418) e a Trento (1545-1563), chiesero ai Papi di apportare una correzione al calendario. Tuttavia, nessuno aveva ancora presentato una riforma che fosse valida e semplice, priva di ambiguità e in piena sintonia con il concilio di Nicea fino a quando Pietro Pitati, con un trattato pubblicato a Verona nel 1560, e Luigi Lilio (1510-1552), un professore di medicina presso l'Università di Perugia, non trovarono una soluzione relativamente facile da calcolare. Fu creata una Commissione per il Calendario per redigere una descrizione della proposta, chiamata Compendio, che, nel 1577, fu inviata a tutte le autorità civili europee, incluse le università e le accademie. Dopo aver ricevute tutte le risposte, la commissione preparò la bolla papale Inter gravissimas (1582), in cui Papa Gregorio xiii decretò l'adozione del nuovo calendario.
La regola giuliana degli anni intercalari subì alcune modifiche. Fu introdotta una formula migliorata per il calcolo della Pasqua. E, solo per una volta, dieci giorni furono eliminati per spostare l'equinozio indietro fino al 21 marzo, secondo quanto stabilito dal primo concilio di Nicea. Questo fu il grande merito della riforma gregoriana. Con un aggiustamento di minima entità e con regole chiare, preservò l'intento del concilio. Inoltre, la speranza fu che tale riforma, basandosi su un concilio che si era svolto prima dello scisma fra Oriente e Occidente, potesse evitare ulteriori conflitti con la Chiesa ortodossa.
Un membro importante della commissione per la riforma del calendario fu il gesuita Christoph Clavius, professore di matematica presso il Collegio Romano, noto per le sue pubblicazioni di geometria, aritmetica e astronomia.
È difficile stabilire con certezza il suo ruolo nella commissione, basta peraltro osservare che fu scelto dal Papa per descrivere e difendere il nuovo calendario nell'Explanatio Romani Calendarii, pubblicata a Roma nel 1603.
Alla fine, il calendario era in linea con le stagioni. Tuttavia, come potevano esserne certi? In che modo determinarono veramente l'inizio di ogni stagione?
Le stagioni dipendono dalla posizione del sole nel cielo. Quando il sole è alto e i suoi raggi colpiscono direttamente il terreno, le giornate sono calde. Quando il sole fa appena capolino all'orizzonte, ad angolo obliquo, le giornate sono più fredde. Il modo più semplice per misurare le stagioni reali dell'anno è quello di osservare la posizione del sole. A questo fine si utilizza la "meridiana".
L'idea di una linea meridiana è abbastanza semplice: si può determinare la posizione del sole nel cielo misurando l'ombra proiettata da uno "gnomone", un polo di lunghezza nota, come l'obelisco di piazza San Pietro, esattamente a mezzogiorno, il momento della giornata in cui il sole è alla sua massima altezza nel cielo. Quindi sono sufficienti uno gnomone dalla misura certa e una linea orientata esattamente da nord a sud contro la quale misurare l'ombra. Più alto è l'obelisco, più precisamente è possibile misurare l'ombra. Quando il sole si trova nella sua posizione più bassa nel cielo, i nostri calendari indicano il primo giorno dell'inverno, e, parimenti, l'ombra più corta a mezzogiorno si misura il primo giorno d'estate, il solstizio d'estate. Le ombre che sono lunghe esattamente la metà di questi estremi si hanno negli equinozi, i primi giorni di primavera e d'autunno.
Un modo diverso e più elegante per misurare la posizione del sole è quello di trovare una stanza buia e di praticare un'apertura nella parete esposta a sud. Allora si potrà seguire il raggio di sole che, attraverso quell'apertura, passerà sulle pareti e sul pavimento della stanza. Di nuovo, più grande sarà la stanza, più precisamente si potrà misurare la posizione del sole.
Nel suo libro The Sun in the Church (Harvard, University Press, 1999) lo storico della scienza John L. Heilbron (università di Oxford e Berkeley) osserva che "gli edifici più adatti - con interni bui - erano le cattedrali. Erano grandi e buie e avevano bisogno solo di un'apertura sul tetto e di una linea sul pavimento per essere degli osservatori solari". Nel XVIi secolo, queste linee meridiane furono collocate nelle cattedrali a Bologna, a Firenze, a Parigi e a Roma, ma non solo per determinare i giorni delle stagioni. Per prima cosa, l'altezza del sole si poteva collegare direttamente alla latitudine della chiesa. Questi congegni permisero agli studiosi di tracciare mappe accurate dell'Europa. Inoltre, come osserva Heilbron, le piccole aperture praticate in grandi ambienti fungevano in realtà da lenti stenopeiche che creavano immagini del sole da studiare per capire le mutazioni della sua dimensione durante l'anno, a conferma indiretta del sistema di Keplero delle orbite ellittiche.
La linea meridiana a piazza San Pietro fu collocata nel 1817 da monsignor Filippo Luigi Gilii. Egli fu fra quanti, nel 1797, ristabilirono la specula vaticana nella Torre dei Venti. Questa linea sulla piazza fu ispirata senza dubbio da quella sul pavimento della Torre dei Venti disegnata da Ignacio Danti nel 1582. Purtroppo, l'opera di Gilii non proseguì dopo la sua morte e la Specola rimase inattiva fino a quando Papa Leone xiii non la riaprì nel 1891.
Infine, giungiamo a Papa Pio x, menzionato con grande approvazione da Papa Benedetto. Sebbene sia stato Papa Leone xiii a riaprire l'Osservatorio Vaticano, è stato con Papa Pio x che è divenuto operativo.
Nel novembre 1904, Papa Pio x affidò all'arcivescovo di Pisa, Pietro Maffi, il compito di riorganizzare la Specola e di cercare un nuovo direttore. Dopo oltre un anno di complicati negoziati, nel febbraio 1906 finalmente si prese una decisione. Il nuovo direttore sarebbe stato il sacerdote gesuita Johan Hagen - nato in Austria, ma divenuto poi cittadino americano e direttore dell'Osservatorio Georgetown, a Washington.
Nel 1906, su suggerimento di monsignor Maffi, Pio x mise a disposizione degli astronomi la sede della sua Villa - oggi sede della sezione tecnica della Radio Vaticana. Nella stanza della meridiana, all'ultimo piano della piccola villa, fu collocato il telescopio vaticano o lo strumento transitorio per misurare il tempo siderale. In seguito, quello strumento fu sostituito da un ricevitore radio di segnali per controllare gli orologi.
L'eliografo, un telescopio moderno discendente delle linee meridiane del passato, fu collocato sulla terrazza dell'edificio oggi convento delle suore di clausura Mater Ecclesiae.
Il 17 novembre 1910, Pio x concesse un'udienza speciale al personale della Specola per celebrare ufficialmente le nuove sedi. L'anno seguente, a commemorare l'ottavo anno di pontificato di Papa Sarto, la moneta storica coniata annualmente in oro, argento e bronzo e distribuita ai membri della corte pontificia e ai dignitari ecclesiastici nel giorno della solennità dei santi Pietro e Paolo, recava su una faccia la figura allegorica dell'astronomia che pronunciava le seguenti parole: Ampliorem. in. Hortis. Vat. Mihi. Sedem. Adornavit - "Ha preparato per me uno spazio più ampio nei giardini vaticani". Oggi, accanto all'entrata della cappella della Radio Vaticana, nella piccola villa di Leone xiii, si può ancora vedere una targa che ricorda la nuova dimora della Specola.
L'astronomia è stata molto importante nella teologia cristiana.
Infatti, l'astronomia è stata una delle sette materie dell'università medievale, che tutti gli studiosi dovevano conoscere prima di poter cominciare a studiare la filosofia e la teologia.
Dall'istituzione dell'Osservatorio Vaticano, molti pontefici hanno detto cose importanti sull'amore della Chiesa per lo studio dei cieli. Molto dell'interesse della Chiesa ha avuto una aperta rimonta apologetica quando ha utilizzato la scienza per sostenere le sue idee filosofiche o ha utilizzato il suo sostegno alla scienza per contrastare quanti accusano la Chiesa di opporsi al progresso e di temere verità nuove.
Tuttavia, attraverso gli scritti dei pontefici più recenti, cominciamo a osservare lo sviluppo di una seconda idea, ovvero che, come sapeva il salmista, i cieli stessi proclamano la grandezza del Creatore. Il semplice atto di ricercare la verità nelle scienze naturali è in se stesso un atto religioso, indipendente da qualsiasi fine apologetico.
Nel fondare di nuovo la Specola Vaticana, Papa Leone xiii, nel 1891, scrisse che era spinto "dal fatto che tutti avrebbero potuto vedere chiaramente che la Chiesa e i suoi Pastori non si oppongono alla scienza vera e solida (...) ma l'accolgono, la incoraggiano e la promuovono".
Durante l'inaugurazione della nuova sede della Specola a Castel Gandolfo, nel 1935, Papa Pio xi osservò a proposito dello studio del cielo: "Da nessun altro luogo del creato giunge un invito più forte ed eloquente alla preghiera e all'adorazione".
Nel suo primo discorso come Papa all'Accademia delle Scienze, nel 1939, Papa Pio xii affermò eloquentemente: "L'uomo ascende a Dio salendo la scala dell'universo". Parlando alla stessa assemblea, nel 1951, osservò che "più la vera scienza progredisce, più scopre Dio, quasi come se Egli stesse, vigile e in attesa, dietro la porta che la scienza schiude".
L'inno più bello di Papa Pio xii alla gloria di Dio, visibile grazie all'astronomia, fu il suo discorso all'assemblea generale della Unione Astronomica Internazionale, svoltasi a Roma nel 1952: "Studiando l'astronomia lo spirito umano ha superato tutti i limiti dei sensi fisici (...) ed è riuscito a misurare l'immenso universo (...) Quale incontro lieto e sublime nella contemplazione del cosmo è quello fra lo spirito umano e lo spirito del Creatore!".
Papa Giovanni Paolo ii sottolineò le sue speranze per il rapporto fra scienza e religione in una lettera al direttore dell'Osservatorio Vaticano, George Coyne, nel 1987, affinché venisse pubblicata insieme agli atti di una conferenza organizzata dalla Pontificia Accademia delle Scienze, in occasione del trecentesimo anniversario della pubblicazione dei Principia di Newton. Scrisse: "Sia la religione sia la scienza devono tutelare la propria autonomia e la propria peculiarità. La religione non si basa sulla scienza né la scienza è una estensione della religione. Ciascuna di esse dovrebbe possedere i propri principi, le proprie procedure, la propria diversità di interpretazione e le proprie conclusioni (...) la scienza può purificare la religione dall'errore e dalla superstizione; la religione può purificare la scienza dall'idolatria e dai falsi assoluti".
È interessante osservare come l'astronomia sia stata legata storicamente a culture differenti, incluse quelle che per altri versi erano in conflitto. Vediamo come Papa Silvestro ii guardò con favore agli studi degli arabi, anche se questi ultimi e i cristiani erano in guerra fra loro per il controllo della Spagna, e come l'adozione della riforma gregoriana del calendario fu motivata in gran parte dalla necessità di trovare una soluzione accettabile anche per le Chiese orientali.




(©L'Osservatore Romano - 22-23 dicembre 2008)

Le "Preghiere del cristiano" raccolte da Inos Biffi

Parole da leggere senza fretta


di Stefano Maria Malaspina

Dall'immenso lascito che la tradizione cristiana custodisce, e di cui la Chiesa non cessa di vivere, Inos Biffi ha raccolto in antologia un buon numero di preghiere, ora apparse in coedizione da Città Nuova, Libreria Editrice Vaticana e Jaca Book. Ne è risultato un agile volume, Preghiere del cristiano (pagine 280, euro 5) proposto a ogni fedele. Fra le attività umane, la preghiera è di quelle che avvicinano a Dio ed elevano lo spirito, senza condizioni di tempo o di luogo: non esiste momento della giornata o condizione di vita che il cristiano non possa trascorrere in dialogo col Signore. L'orazione emerge infatti spontanea in chi, come il giovane John Henry Newman, riconosce con stupore che "nel mondo ci sono due esseri assoluti, di luminosa evidenza: io e il mio Creatore"; e sa conseguentemente pronunciare, con confidenza, il proprio affidamento alla "Luce benigna".
Vivendo in orazione, la Chiesa si esprime nella forma più alta e santa: anzitutto nella celebrazione dei sacramenti, in particolare dell'Eucaristia; non a caso in questa raccolta si trovano numerosi testi liturgici, che il teologo Inos Biffi, studioso del pensiero e degli autori medioevali e curatore della riforma del Messale e della Liturgia delle ore ambrosiani, ha sapientemente scelto e presentato.
Le Preghiere del cristiano - in un tempo in cui la vita interiore pare difficile, quasi soffocata dalle assillanti preoccupazioni di chi è impegnato nel mondo - sono un prezioso florilegio per i genitori che vogliono pregare con i propri figli; per gli anziani e gli ammalati che cercano speranza e conforto nella solitudine; per gli sposi che nell'orazione rinnovano la loro fedeltà; per chiunque cerca un momento di intimità spirituale nella pausa lavorativa; per quanti accompagnano il prossimo nell'intercessione; per chi infine all'orazione si riaccosta, ripercorrendone le parole un tempo apprese e il cui ricorso si è forse affievolito o spento.
Lo spirito e il metodo coi quali utilizzarle sono quelli che, ad esempio, già suggeriva sant'Anselmo d'Aosta nel prologo delle proprie Orazioni e meditazioni, quando si rivolgeva direttamente al lettore con queste parole: "Non si devono leggere nel mezzo del tumulto ma in quiete, né in fretta e senza ponderazione, ma poco per volta con una meditazione attenta e prolungata".
Nel libro si incontrano numerose formule, "segno splendido e sicuro" della pietà - ora solenne e ufficiale, ora privata e immediata - che pure da sé sole non costituiscono preghiera. Ma "se preghiamo senza formule precise, le nostre menti perderanno di vista l'argomento" (Newman).
Ecco le preghiere più conosciute, comuni e diffuse, che scandiscono e sostanziano l'inizio e la conclusione della giornata: il rosario, orazione semplice e cara a Dio come Maria, nella quale sono contemplati i misteri della vita di Cristo; la via crucis, che del Figlio di Dio ripercorre la passione redentrice; le preghiere litaniche e le giaculatorie, che "profonde e vibranti" alimentano la pietà dei semplici; e numerosi testi attinti dalla liturgia, magistero quotidianamente predicato e vissuto. In questo modo è dato corpo alla "storia più bella e più appassionante della Chiesa (...), dalla quale si sono via via formati e accumulati i suoi tesori più preziosi, cioè un numero incalcolabile e un'infinita varietà di testi, che di età in età sono passati a nutrire e ravvivare lo spirito e la voce della pietà". A questo tesoro hanno certamente saputo attingere anche grandi santi e dottori della Chiesa, e quanti, una volta appreso a pregare, sono divenuti a loro turno maestri di orazione: in circostanze e tempi anche molto diversi, hanno saputo pronunciare le medesime parole e rivelarne, con una testimonianza coerente e autentica l'intenzione più profonda.
In appendice sono aggiunte alcune liriche, in cui preghiera, poesia e pensiero cristiano si fondono, e in cui "panorami, avvenimenti e persone" vengono sollevati dalla musicalità del verso "nella zona dell'ineffabile". Il commento è del cardinale Giovanni Colombo, fine letterato e uomo spirituale, che introduce una scelta di testi di san Francesco d'Assisi, Dante Alighieri, Alessandro Manzoni.
Il lettore non è obbligato a cominciare dal principio, lo può fare da dove gli piacerà; basta solo ciò che a suo gusto riterrà utile, con l'aiuto di Dio, ad accendere in sé l'amore della preghiera.



(©L'Osservatore Romano - 22-23 dicembre 2008)

martedì 16 dicembre 2008

Un biglietto di auguri natalizi firmato «Benedictus XVI»

La tradizione iniziata quarantacinque anni fa con Papa Montini 

 

Apparuit gratia Dei Salvatoris nostri omnibus hominibus ("È apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini"):  sono le parole di san Paolo - tratte dalla lettera a Tito (2, 11) - che Benedetto XVI ha scelto quest'anno per il biglietto di auguri natalizi destinato alla Curia romana, ai dipendenti del Vaticano e a tutti i fedeli che parteciperanno a udienze e celebrazioni in programma fino all'inizio della prossima Quaresima. Il Papa le ha scritte di suo pugno, facendole riprodurre dalla Tipografia Vaticana insieme a un'immagine della natività di Niccolò La Piccola (1775) conservata nella sala delle Congregazioni del Palazzo Apostolico vaticano. 
Continua così anche con Joseph Ratzinger la consuetudine dei Pontefici di stampare immaginette e cartoncini augurali a Natale, Pasqua e in altre particolari solennità, con una frase autografa - tratta dalle Scritture, dai padri della Chiesa o dal lezionario - e una raffigurazione artistica in tema con la ricorrenza liturgica. La tradizione fu inaugurata esattamente quarantacinque anni fa da Papa Montini, il quale la tenne viva per tutto il suo pontificato, scegliendo ogni anno con largo anticipo il pensiero augurale. Tanto che a luglio del 1978, un mese prima di morire, aveva già preparato il testo del bigliettino natalizio - che non fu mai pubblicato - con la frase del vangelo di Luca (2, 11) Natus est vobis hodie Salvator, qui est Christus Dominus("Oggi vi è nato nella città di Davide un Salvatore, che è il Cristo Signore"). 
A rivelarlo è padre Leonardo Sapienza nel volumetto Natale con Paolo vi, pubblicato a trent'anni dalla morte del Pontefice con l'intento di favorire "la rilettura e la meditazione dei suoi insegnamenti" per comprendere che "la vera ricchezza del Natale è quella interiore e religiosa". Ma anche - confessa l'autore - per mostrare la cura personale che Montini metteva sempre nella preparazione dei discorsi e dei testi delle sue riflessioni. Proprio per questo, il religioso rogazionista riproduce nel libro gli autografi delle catechesi scritte da Paolo vi per le udienze generali del 21 e del 28 dicembre 1966, oltre a quelli dei sedici biglietti di auguri per il Natale dal 1963 fino alla sua morte:  compreso, dunque, il pensiero inedito del 1978. Corredano la pubblicazione tredici brani tratti da discorsi dedicati al mistero dell'incarnazione, pronunciati tra il 1963 e il 1977. 
Una piccola antologia natalizia racchiusa in appena quaranta pagine. Sufficienti, tuttavia, ad affacciarsi sulle profondità dell'animo montiniano. Che si rivelano soprattutto nello stile penetrante della sua parola:  erudita ma familiare, scavata continuamente dallo stupore di fronte a un evento che "quanto più supera la nostra capacità di comprensione - scrive nel 1966 - tanto più attrae e impegna la nostra avidità di contemplazione". 
La scelta di riprodurre gli scritti autografi appare sicuramente felice. Anche perché rivela particolari inconsueti nella stesura e nella successiva rifinitura dei testi da parte del Pontefice. Come per la catechesi del 21 dicembre 1966, sulla quale l'allora Teologo della Casa Pontificia, il domenicano Luigi Ciappi - che aveva il compito di rivedere i discorsi del Papa per eventuali questioni teologiche - preparò una nota a proposito dell'espressione "alla divina umanità di Cristo" usata da Montini nel manoscritto originario. "La frase può apparire un po' insolita - osservava Ciappi nell'annotazione riportata da Sapienza - e prestarsi a un'interpretazione meno ortodossa. Però è teologicamente ammissibile, nel senso che l'umanità di Cristo è divina ratione personae". Come si vede dal testo definitivo, Paolo vi avrebbe poi accettato in sostanza il rilievo del teologo optando per l'espressione "alla umanità di Cristo Uomo-Dio". 
Benedetto XVI prosegue dunque nel solco della tradizione natalizia inaugurata nel 1963 da Montini e continuata da Giovanni Paolo ii. Quest'anno il Pontefice ha anche deciso di regalare ai prelati della Curia romana una copia del volume Chi crede non è mai solo, stampato appositamente per lui dall'editore Cantagalli di Siena in una tiratura limitata di cinquecento copie fuori commercio. Il libro raccoglie i discorsi, le omelie, le preghiere e le riflessioni del Pontefice in occasione del viaggio in Baviera compiuto dal 9 al 14 settembre 2006. Un'occasione per riscoprire alcuni testi papali fondamentali, come quello del discorso all'università di Ratisbona, perché "solo attraverso una lettura attenta e completa - si legge nel libro - si può scoprire quanto essi siano fecondi e ricchi di un'antica saggezza che oggi il mondo contemporaneo e, in particolare l'Europa e l'Occidente, sembrano dimenticare". (francesco m. valiante)



(©L'Osservatore Romano - 17 dicembre 2008)

La festa della Natività a Betlemme tra speranza e gioia

Betlemme, 16. Con l'accensione del grande albero di Natale, nella piazza principale della città, si sono aperte ufficialmente domenica scorsa a Betlemme le celebrazioni del Natale 2008. 


Alla cerimonia erano presenti anche le massime autorità palestinesi guidate dal presidente, Abu Mazen. 
"Vogliamo in questo modo sottolineare la particolarità di questo Natale - ha dichiarato il parroco di Betlemme, padre Samuel Habib - lo spirito che sto notando in questo tempo che precede il Natale è quello dei giorni migliori, di gioia, di speranza in tutti gli abitanti di Betlemme. È una gioia contagiosa che si sparge in tutta la città e si mescola ai sorrisi dei pellegrini che la stanno affollando. Un'atmosfera diversa da quella degli anni scorsi - aggiunge il sacerdote - grazie anche alla diminuzione della violenza e a rinnovate speranze di pace". 
Nel 2008 Betlemme - riferisce l'agenzia Sir - ha visto arrivare circa un milione e mezzo di pellegrini e per i giorni di Natale si registrano già tantissime prenotazioni tra alberghi, ristoranti e luoghi di accoglienza. 
"La loro folta presenza - ha sottolineato il parroco di Betlemme - ha riportato un netto miglioramento dell'economia generando gioia e speranza per il futuro del Paese. E si profila un 2009 anche migliore". 
Agli occhi dei pellegrini Betlemme, già da qualche giorno, appare illuminata e decorata e con un programma ricco di manifestazioni tra le quali spicca, il prossimo 23 dicembre, "la marcia della pace dei bambini di Gerusalemme e Betlemme che giungerà alla basilica della Natività dove si pregherà per la pace". 
Confermata anche, alla santa messa di mezzanotte, la presenza del presidente dell'Autorità palestinese, Abu Mazen, dei leader musulmani e delle altre confessioni cristiane. 
"In questo tempo di Natale, così come per la Santa Pasqua - ha concluso padre Samuel Habib - a tutti gli abitanti di Betlemme e delle zone vicine verrà concesso dagli israeliani un permesso per poter entrare e uscire dalla città e andare a far visita ai parenti, superando così il muro di separazione, con il check point israeliano, che di fatto rende Betlemme una città chiusa".



(©L'Osservatore Romano - 17 dicembre 2008)

Intervista all'arcivescovo di Bombay, cardinale Oswald Gracias, sulla persecuzione

Cristiani in India 
Un Natale per la pace


di Alessandro Trentin 

Sarà un Natale particolare in India a causa della situazione politico-sociale:  il manifestarsi degli attacchi terroristici e delle tensioni interreligiose hanno gettato la nazione in uno stato di shock e di rabbia facendo allungare ombre inquietanti sul suo futuro. La comunità cristiana, in particolare, vive il drammatico propagarsi delle persecuzioni, iniziate prima nello Stato dell'Orissa e poi via via estese in altre aree, come ad esempio il Karnataka. Da agosto, infatti, dopo l'uccisione del leader indù Swami Laxmananda Saraswati, per la quale sono ingiustamente accusati i cristiani, è cresciuta in maniera consistente la lista degli attacchi che hanno causato vittime, feriti e devastazioni di ogni genere soprattutto nei villaggi rurali situati nelle zone più remote, dove vivono dalit e tribali. Nelle campagne, i gruppi di fondamentalisti indù, oramai fuori controllo persino per le stesse organizzazioni politiche di appartenenza, continuano ad agire in violazione dei valori fondanti della costituzione democratica che da secoli ha reso la nazione un modello di riferimento per tutto il continente asiatico. Lo stesso Governo fatica ad agire di fronte all'estremismo religioso. Molte organizzazioni da tempo hanno chiesto e ottenuto di incontrare i responsabili delle istituzioni civili, anche a livello locale, ma al di là delle promesse, non è stato fatto nulla di concreto. Su come i cristiani stanno vivendo il periodo dell'Avvento e le loro preoccupazioni parla al nostro giornale, l'arcivescovo di Bombay, il cardinale Oswald Gracias. 

Qual è l'immagine della Chiesa in India? 

La Chiesa in India è conosciuta per i suoi eccellenti servizi educativi e sanitari e anche per le attività sociali. L'azione missionaria prima protagonista nelle sole città, si è poi progressivamente spostata nei villaggi con la precisa intenzione di aiutare i poveri. La comunità cristiana è apprezzata perché pacifica e orientata al servizio verso il prossimo. La Chiesa cattolica è vista come ben organizzata e disciplinata, così come le altre Chiese. Soltanto le sette pentecostali non sono così ben organizzate. Tuttavia, in media i non cristiani non riescono a distinguere le differenze che caratterizzano le varie confessioni e, per questo, talvolta confondono, generalizzando la disorganizzazione. 

La comunità cristiana è da tempo sotto attacco a causa dei fondamentalisti indù. Il Natale, con le sue celebrazioni, è prossimo. I fedeli come stanno vivendo il periodo dell'Avvento? 

In Orissa e in Karnataka abbiamo avuto momenti molto duri, è stato doloroso. Inoltre, la città di Mumbai (ex Bombay) è stata colpita da attacchi terroristici, che sono i più gravi nella storia dell'India. L'intera nazione si trova in uno stato di shock e di rabbia e, in queste circostanze, è naturale che le celebrazioni natalizie saranno prive della consueta gioia. L'attenzione sarà posta sul messaggio di amore e pace che Gesù può dare. 

Per quali ragioni si è giunti a una così difficile situazione? 

Le ragioni sono diverse:  la principale riguarda l'immediata provocazione prodotta dall'uccisione dello Swami Laxamananda Saraswati, un leader politico che portava avanti una campagna anti conversioni contro i cristiani. Nonostante che la responsabilità dell'omicidio sia stata assunta dal gruppo di estrema sinistra dei "maoisti", si è sparsa la voce che ad ucciderlo sarebbero stati i cristiani. La Chiesa ha condannato l'assassinio e ha negato qualsiasi responsabilità, ma alcuni irresponsabili leader politici indù hanno continuato ad accusare la nostra comunità. La situazione è quindi degenerata. Inoltre tra le ragioni c'è anche il fatto che alcune sètte evangeliche potrebbero essere state meno sensibili nei loro sforzi di evangelizzazione. Infine, concludo, dicendo che c'è la tragica situazione dei politici che cercano di "guadagnare" consensi approfittando di questi conflitti. 

Secondo la sua opinione il Governo e i partiti politici stanno lavorando per fermare la violenza? 

Sia il Governo centrale che quello dell'Orissa sono stati irresponsabili. Inizialmente sembravano mossi dalla volontà di agire. Molte delegazioni hanno avuto occasione di incontrare i leader politici sia a livello centrale che locale, ma al di là delle espressioni di comprensione, nulla è stato veramente fatto. In questo modo le violenze vanno avanti da oltre due mesi. 

A che punto è il dialogo interreligioso? 

Qualche progresso è stato registrato. Quasi tutte le diocesi hanno al loro interno una commissione che si occupa del rapporto tra fedi. Ma io avverto che il dialogo non ha toccato le gente comune; invece a livello di leader religiosi ci sono alcuni contatti. In particolare, nell'arcidiocesi di Bombay, la piccola comunità cristiana sta incentrando la sua attenzione proprio sul dialogo a livello locale. Nel passato, l'autorità pubblica ha provato a costituire dei gruppi in città, appartenenti alle varie religioni, per favorire il loro incontro e la discussione dei problemi. L'iniziativa ha avuto successo. Anche la Chiesa sta promuovendo iniziative simili. 

Qual è il suo messaggio per la comunità cristiana? 

Il mio messaggio per i fedeli è di pace e amore. Le persecuzioni non sono nuove nella Chiesa, ma essa ha sempre trionfato. Il Vangelo e il messaggio di Gesù sono sempre stati vittoriosi. Sono tempi di prova, quelli attuali, per i vescovi, i sacerdoti, i religiosi e i fedeli in Orissa, ma con il Signore ci sarà sempre vittoria. Vogliano anche incrementare gli sforzi nel dialogo tra religioni e per promuovere la pace e l'armonia tra la gente. Ed ancora, vogliamo impegnarci per rimuovere tutti i pregiudizi nelle menti delle persone. Non dobbiamo scoraggiarci:  le parole del Signore sono la nostra assicurazione "Io sarò sempre con voi".



(©L'Osservatore Romano - 17 dicembre 2008)

Quando in Parlamento si votava la soppressione dei conventi

Placido Riccardi e la congregazione cassinese nella seconda metà dell'Ottocento 

L'abbazia di Santa Maria di Farfa ha ospitato un simposio sulla figura del beato benedettino. Pubblichiamo stralci di uno degli interventi. 


di Mariano Dell'Omo
Pontificio Ateneo di Sant'Anselmo 

Mi ha sempre colpito il fatto che la vita monastica del beato Placido Riccardi sia contrassegnata da paralleli eventi di portata storica per il futuro stesso della vita religiosa in Italia:  entrava postulante a San Paolo fuori le mura il 12 novembre 1866, a pochi mesi dalla legge del 7 luglio di quell'anno che sopprimeva le corporazioni religiose in tutto il regno d'Italia; la sua professione solenne e la stessa consacrazione sacerdotale avvenivano nel marzo del 1871, quindi pochi mesi prima dell'ingresso ufficiale, avvenuto a luglio, di Vittorio Emanuele ii in Roma capitale d'Italia, o se si vuole pochi mesi dopo la fatidica breccia di Porta Pia (20 settembre 1870), che significava la fine del potere temporale dei papi. 
Certo sin da ragazzo dovette respirare un clima nuovo, surriscaldato, destinato a sconvolgere anche quella plurisecolare vita monastica da lui presto abbracciata, e che rischiava di soccombere sotto i colpi delle soppressioni. Già quando il Riccardi aveva 11 anni - nel 1855 - al Parlamento subalpino si poteva sentire Angelo Brofferio, l'esponente più in vista della sinistra costituzionale, anticlericale puro, esclamare:  "Risulta che vi sono nello Stato 490 conventi. Il ministero mi vuol proporre di sopprimerli tutti? Io gli dò il mio suffragio con grande esultanza. Vuol sopprimere la metà? Io mi rassegno e voto per l'abolizione di 245 conventi. Mi chiede di sopprimerne cento? Io voto per 100. Vuol sopprimerne 10? Io voto per 10. Vuol sopprimere un convento? Io voto per la soppressione di un convento. Vuole abolire un frate? E io voto per l'abolizione di un frate! Ricusar in politica un atomo di bene perché a un maggior bene non si può conseguire, è ai miei occhi error grande". 
Questo frammento di discorso parlamentare, prammatico a senso unico e fantasmagorico perché, come abbiamo ascoltato, costruito con la tecnica retorica dell'anticlimax, cioè della gradazione discendente di possibilità via via più ridotte e tuttavia sempre con soddisfazione accolte, oggi può anche farci sorridere:  in realtà fu pronunciato in tutta serietà durante le discussioni per l'approvazione della legge del 29 maggio 1855, con la quale erano soppressi nel regno di Sardegna alcuni Ordini religiosi, capitoli e benefìci, e al tempo stesso si disponeva che i beni delle corporazioni religiose soppresse confluissero in un'apposita cassa ecclesiastica. Quello del 1855 non era che l'anticipo di quanto sarebbe avvenuto a livello nazionale 11 anni dopo, appunto con la citata legge del luglio 1866. 
Le conseguenze non erano di poco conto:  per gli enti soppressi ne derivava la perdita della personalità giuridica, mentre d'altra parte per i religiosi ne scaturiva finalmente l'acquisto dei diritti civili e politici. Un mutamento epocale, che evidentemente coinvolgeva in pieno anche i membri della congregazione cassinese. Basti qui ricordare l'articolo 33 della legge soppressiva del 1866 che segnava espressamente il destino di importanti monasteri della congregazione:  Montecassino, la Santissima Trinità di Cava, San Martino delle Scale a Palermo, Monreale, oltre che la Certosa di Pavia. Esemplare è la diversa sorte che toccò a Montecassino e all'abbazia palermitana di San Martino, esemplare perché ci aiuta a capire la complessità di quel momento storico e le sue varianti. Per entrambi quella disposizione di legge prevedeva l'incameramento nei beni demaniali dello Stato:  "Sarà provveduto dal Governo alla conservazione degli edifizi colle loro adiacenze, biblioteche, archivi, oggetti di arte, strumenti scientifici e simili... " di quelle abbazie, come pure - si aggiunge - "di altri simili stabilimenti ecclesiastici distinti per la monumentale importanza e pel complesso dei tesori artistici e letterari. La spesa relativa sarà a carico del fondo pel culto". 
Per Montecassino la legge ebbe attuazione nel 1868:  puntualmente i beni appartenenti alla corporazione monastica insieme al patrimonio immobiliare consistente in terre, fabbricati, edifici monastici furono incamerati, ma - particolare non privo di conseguenze - l'abate continuava a rivestire la funzione di Ordinario della diocesi cassinese, la chiesa abbaziale ne costituiva la cattedrale, e il monastero stesso era riconosciuto quale residenza del capitolo formato dalla comunità dei monaci, oltre che come sede degli uffici di curia e del seminario diocesano. 
Qualcosa del superfluo era perduto per sempre ma non l'eredità più preziosa di Benedetto,  cioè  la  comunità  monastica, ultimo anello vivente di una tradizione plurisecolare. 
Cinque anni prima - nel 1863 - quasi profeticamente il cassinese e storico Luigi Tosti, indirizzandosi allo statista inglese William Gladstone non temeva di scrivere:  "Nuove leggi approverà il nostro Parlamento intorno ai conventi e alla incamerazione dei beni ecclesiastici. I monaci se ne vanno per trasformarsi, non per morire. Montecassino rimarrà in piedi:  ma il suo patrimonio anderà in mano del fisco. Questa Badia rimarrà come l'albero di un vascello naufragato, a segnale di una grande sommersione e di una più grande risurrezione. I monaci sono figli del sentimento e non della ragione cristiana:  il sentimento è eterno". 
Parole che riflettono senza dubbio un animo romantico, ma che ci riportano anche con crudo realismo alla vera situazione non solo di Montecassino, ma dell'intera congregazione, essa stessa nei suoi resti identificabile come l'albero ancora eretto di una nave ormai naufragata, dove si contano, per ripetere il titolo di un libro di Primo Levi, "i sommersi e i salvati".




(©L'Osservatore Romano - 17 dicembre 2008)