sabato 8 novembre 2008

Scaraffia sul centenario della nascita di Claude Lévi-Strauss

Cento anni fa nasceva Claude Lévi-Strauss padre dello strutturalismo

L'antropologo dalle domande facili


In occasione del prossimo centenario della nascita di Claude Lévi-Strauss e della ristampa della sua opera nella collana della Pléiade anticipiamo un articolo sul pensiero dell'antropologo francese che esce la prossima settimana su "Vita e Pensiero", il bimestrale dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.

di Lucetta Scaraffia

Claude Lévi-Strauss compie 100 anni il 28 novembre 2008. Per festeggiarlo, la sua opera è stata ristampata nella Pléiade - soddisfazione rara per uno studioso di scienze umane - nella collana cioè che comprende i migliori scrittori francesi di tutti i tempi. Questa nuova tappa del suo successo sembra chiarire quale sia - a questo punto - il suo posto nella cultura francese: mentre lo strutturalismo che lui ha inventato e diffuso in tutto il mondo è oggi un metodo di ricerca passato di moda, egli viene consacrato come grande scrittore, e come tale vale ancora la pena di leggerlo. Si può considerare fondamentale, infatti, proprio la lettura della sua opera meno scientifica, Tristi tropici, che fin dalla sua comparsa fa parte del canone delle opere indispensabili nel curriculum di una persona colta. Un'opera che ha cambiato il modo di pensare e di sentire il rapporto con le culture diverse dalla nostra, quelle che abbiamo chiamato - prima di Lévi-Strauss - primitive, e che lui preferisce chiamare "selvagge", nel senso di non toccate dalla civiltà occidentale. Grazie a questo libro, infatti, il mondo occidentale non è più la norma assoluta, ma solo una maniera fra le altre di percepire il mondo o di entrare in contatto con esso.
Molto più del suo metodo - lo strutturalismo - egli ha influenzato la cultura contemporanea con la sua figura, il suo modello, le infinite interviste che ha rilasciato e attraverso le quali ha imposto un nuovo ruolo per l'antropologo: grazie al suo "sguardo da lontano", l'antropologo diventa uno dei più significativi interpreti e critici della civiltà a cui appartiene. Ma Lévi-Strauss ha fatto ancora di più: ha cambiato la definizione di essere umano, ha proposto una giustificazione scientifica per il relativismo, ha inventato l'ecologia. Come scrive il filosofo George Steiner nel saggio che gli ha dedicato, "impegna il termine antropologia nel suo significato antropologico completo: l'antropologia, propriamente intesa, altro non è che l'esaustiva "scienza dell'uomo"".
Steiner sottolinea inoltre come Lévi-Strauss abbia riconosciuto l'influenza determinante di Marx e di Freud sulla sua formazione, due grandi intellettuali ebrei con i quali condivide il proposito di creare quelle "costruzioni visionarie" che si presentano come "tre grandi mitologie che si propongono di spiegare la storia dell'uomo, la natura dell'uomo e il nostro futuro". Con la sua vita avventurosa - gli anni passati in Brasile e nella ricerca sul campo si aggiungono a quelli dell'esilio newyorkese durante la guerra, decisivi per la creazione di legami intellettuali con il mondo statunitense e con gli altri intellettuali esuli, dal surrealista André Breton al linguista Roman Jakobson - ma anche con la pioggia di riconoscimenti arrivati da tutte le università del mondo, con la sua straordinaria capacità di concentrazione e di lavoro, la sua passione per l'arte contemporanea e per la musica - ha scritto presentazioni delle opere di Wagner, di cui ammirava il coraggio nell'affrontare temi mitologici - Claude Lévi-Strauss costituisce il modello più completo di intellettuale del Novecento. La sua modernità è evidente soprattutto nella ricerca di un metodo scientifico per le scienze umane, che permetta finalmente anche a questo tipo di scienziati di raggiungere risultati certi, risultati confermabili con strumenti logicomatematici: per lui il mondo è come un testo, tutto sta nell'imparare a leggerlo e a comprenderlo correttamente. L'etnologo non può accontentarsi di descrivere le società che studia, e di interpretarne gli elementi manifesti, ma deve cercare dei simboli - come i legami di parentela o i miti - e comprendere in virtù di quali regole inconsce essi si combinino. Come gli psicanalisti, che stima come Freud o frequenta come Lacan, anche lui lavora sui meccanismi inconsci, ma si tratta di meccanismi privi di soggetto umano: le strutture, appunto. Apprezza Freud per la sua attenzione al mondo mitico, ma considera le sue interpretazioni dei miti come una nuova variante degli stessi. Il mito infatti viene considerato dall'antropologo un oggetto autonomo, mosso da una logica propria. Per scoprire questa logica rimane legato alla linguistica, l'unica fra le scienze dell'uomo che può rivendicare lo statuto di scienza esatta, e che gli permette di elaborare il suo metodo, l'analisi strutturale. Questa aspirazione alla certezza scientifica lo ha portato, negli ultimi anni, a dire che la chiave del funzionamento dello spirito umano - quella che cercava di scoprire nell'analisi strutturale dei simboli culturali - oggi l'hanno i neurologi, perché è nel cervello dell'uomo.
Questo flirt con le neuroscienze può sembrare contraddittorio in un uomo che ha sempre sostenuto che tutto era cultura, ma corrisponde senza dubbio al suo materialismo di base e alla sua fiducia nell'evidenza scientifica. E del resto non è in contraddizione con la sua concezione di essere umano, lontanissima dall'idea dell'uomo come immagine di Dio, e con il suo rifiuto di ogni umanesimo. Il mondo esisteva prima di noi, egli scrive, ed esisterà anche dopo di noi: "Arrogandosi il diritto di separare radicalmente l'umanità dall'animalità, accordando all'una tutto quello che si toglieva all'altra, [l'uomo occidentale] apre un ciclo maledetto".
Nel 1976, invitato dal presidente francese Edgard Faure a proporre delle leggi sulle libertà, risponde che l'idea di libertà varia secondo i tempi e i luoghi, e che l'unico fondamento stabile è l'uomo, non considerato come essere morale, bensì come essere vivente. Questa posizione a favore della natura e dell'ambiente contro ogni intervento umano ne fa un ecologo ante litteram - "l'uomo sta distruggendo il suo ambiente e finirà per distruggere se stesso", egli scrive - come dimostra il fatto che nella conferenza che tiene, nel 1976, negli Stati Uniti, al Barnard College (Strutturalismo ed ecologia) il titolo segna la prima apparizione ufficiale del termine. Ripensando ai grandi miti prodotti dall'immaginazione umana, egli vi ritrova tracce della rottura culturale dell'uomo con il mondo naturale e del profondo disagio che tale rottura ha lasciato nella nostra anima. Disagio: Steiner collega questo concetto lévi-straussiano con quello espresso da Freud con il termine Unbehagen, da Marx con "alienazione". Un disagio che, secondo il pensiero pessimistico di Lévi-Strauss, ci porterà all'estinzione.
Modernità assoluta rafforzata da un irriducibile ateismo. Per Lévi-Strauss l'unica religione è la scienza, intesa soprattutto come spiegazione scientifica del reale, che sta fino alla fine al cuore del suo lavoro, mentre si rifiuta di estendere la sua ricerca al senso delle cose: "La questione del senso non è niente di più che un artefatto umano". Lo vediamo ad esempio in uno dei suoi saggi più interessanti, Babbo Natale giustiziato, in cui rivela con lucida intuizione la funzione dei riti folclorici di Natale ed Epifania, che individua nella paura dei morti che possono tornare presso i vivi nelle lunghe giornate buie, ma si guarda bene dall'approfondire il suo lavoro nella direzione della morte, e del rapporto che questa ha con la cultura degli esseri umani.
Infatti, Lévi-Strauss si è sempre tenuto lontano dalle domande di senso per eccellenza, quelle sulla vita e la morte, e sul rapporto degli esseri umani con Dio. Nelle migliaia di interviste che ha concesso negli ultimi decenni, spesso gli è stato chiesto quale fosse il suo rapporto con Dio: egli ha sempre cercato di far comprendere al suo interlocutore che la fede religiosa o l'esistenza di Dio sono per lui questioni prive di senso, che non si è mai posto e che mai si porrà: "L'arte, la conoscenza, l'amore della natura tengono un posto considerevole nella mia vita"; il mondo gli basta. La religione è un punto di fuga dalla realtà del mondo, dalla possibilità di conoscerlo scientificamente.
La sua ricerca di conoscenza si muove sempre dentro a un perimetro di rigore che vorrebbe riprendere dalle scienze esatte per acquistare maggiore certezza. Lo dispera l'indefinitezza delle scienze umane, e tutto il suo lavoro è stato quello di dar loro una pesantezza scientifica, una credibilità il più possibile simile a quella della scienza.
Lo strutturalismo - il metodo di analisi da lui elaborato - è stato infatti un tentativo di trovare modelli esatti, chiavi di interpretazioni sicure; si può ben comprendere, quindi, come proprio lo studioso che aveva attribuito alla cultura un'importanza assoluta, tanto da negare, in base a questa certezza, ogni esistenza di razza, cioè di differenza biologica fra uomini che vivono in società diverse e lontane, oggi si abbandona a un'ingenua fiducia per le neuroscienze.
Dopo gli anni Settanta, tutti i ricercatori in Scienze umane si sono confrontati con Lévi-Strauss, con il suo metodo. Lui invece non si è confrontato con nessuno: ha dato sempre le stesse risposte ai suoi critici, in sostanza sostenendo che le domande, in fondo modeste, che lui poneva al materiale di ricerca, erano le uniche legittime, cioè le uniche a garantire scientificità al processo di ricerca. Chi ne poneva delle altre cadeva in un terreno minato, non credibile, non scientifico, e andava emarginato dalla comunità scientifica. L'influenza di questo approccio sull'antropologia, si sa, è stata immensa, ma forse ancora di più è stata quella obliquamente esercitata nelle altre discipline legate allo studio dell'uomo, ad esempio la storia. Per decenni, infatti, fra gli storici ha imperato la microstoria, la ricostruzione di reti sociali di microcosmi, con l'assoluto discredito per chi si poneva le grandi domande storiche che hanno segnato da sempre l'avanzare della consapevolezza umana. Ovviamente, le critiche più forti sono venute proprio a proposito della modestia delle sue domande, della rinuncia alla ricerca di un senso profondo. Pierre Bourdieu, nel suo Le sens pratique, sostiene come in questo modo gli sfugga "lo spessore della realtà". Se Sartre si limita a rimproverargli il poco posto lasciato al soggetto, più radicale è Emmanuel Lévinas, che pure avrebbe tanto in comune con lui - hanno la stessa età, provengono dallo stesso ambiente, e vivono per decenni a pochi isolati di distanza senza conoscersi mai - che denuncia il suo pensiero anonimo, la riduzione del linguaggio a un sistema di segni, a una formalizzazione matematica: "Il pensiero contemporaneo - scrive Lévinas a proposito dello strutturalismo di Lévi-Strauss - si muove così in un essere senza tracce umane, in cui la soggettività ha perduto il suo posto, nel mezzo di un paesaggio spirituale che si può comparare a quello che si offre agli astronauti che, per primi, misero piede sulla luna dove la terra stessa si mostra disumanizzata". In sostanza, sintetizza Lévinas con questa critica severa: "L'ateismo moderno non è la negazione di Dio, ma è l'indifferenza assoluta di Tristi tropici. Io penso che è il libro più ateo che sia stato scritto ai nostri giorni, il libro più disorientato e disorientante".
Anche se il ventaglio dei suoi interessi è stato molto ampio, dalle Americhe all'Estremo Oriente - per anni ha coltivato un forte interesse per la cultura giapponese -, dalle scienze umane all'arte, Lévi-Strauss non si è mai interessato alla tradizione giudaico-cristiana, limitandosi a qualche giudizio velenoso sulla nefasta influenza dei missionari sulle culture primitive (cosa che non gli ha impedito, però, di utilizzare spesso materiale etnografico raccolto dai missionari). Se fosse stato costretto a interessarsi a una religione, aveva detto, l'unica possibile sarebbe stata il buddismo.
In questo rifiuto ad affrontare le radici della cultura occidentale, cioè della sua cultura, sta in sostanza la profonda differenza che lo divide dall'altro grande antropologo francese, René Girard. Quest'ultimo si domanda il senso profondo di ogni testo, di ogni tradizione, e soprattutto affronta il nodo centrale della differenza fra la tradizione giudaico-cristiana e le altre religioni, arrivando a comprendere, così, il ruolo risolutivo e innovativo della figura di Gesù. Attraverso il suo lavoro di confronto antropologico, quindi, egli arriva a cogliere in che cosa consista questa differenza rispetto alle altre religioni: "Cristo si offre come vittima per rivelare la verità agli uomini. Invece di sacrificare altri - l'atteggiamento normale degli uomini - Cristo si offre come vittima per rivelarsi agli uomini così com'è, cioè completamente estraneo a ogni violenza". Questa aperta scelta cristiana lo mette in netta contraddizione con l'atteggiamento relativista tenuto da Lévi-Strauss nei confronti delle religioni primitive. Girard è l'opposto di Lévi-Strauss da ogni punto di vista, e si capisce bene come fin dai suoi primi libri abbia avviato una serrata critica contro il pensiero di Lévi-Strauss, a cui rimprovera di non avere avuto il coraggio di porre le vere domande al materiale raccolto: "Io mi interrogo da più di quarant'anni - scrive nell'ultimo libro, Achever Clausewitz - su questo rifiuto di tenere conto del reale. Questo sembra il disinteresse di fondo che Lévi-Strauss prova per i riti e i sacrifici, non volendo vedere che il mito è quello che egli chiama il "pensiero selvaggio": le sue costruzioni sono belle, ma estremamente fragili. Dal momento che io sento che il mito ci nasconde qualcosa, che c'è un cadavere sotto il pavimento, il mio orecchio si drizza e sono in attesa".
Lévi-Strauss non ha mai risposto alle pungenti critiche di Girard, probabilmente perché non considerava scientifici i suoi libri, ma solo letteratura. La cosa curiosa è che oggi, quando entrambi siedono fra gli "immortali" dell'Accademia di Francia, con la pubblicazione nella Pléiade l'opera di Lévi-Strauss viene in fondo salvata dalle mode considerandola letteratura, mentre i libri di Girard cominciano a suscitare discussione e consenso anche al di fuori della cerchia dei suoi seguaci, e mettono in crisi tanti anni di ricerca antropologica.
Come scrive Girard, tutto è cambiato dopo l'11 settembre, e l'atmosfera apocalittica in cui - nolenti o volenti - viviamo, ci fa ritornare alle radici della nostra identità. Di questa imminenza della catastrofe, che va ben al di là della denuncia di un possibile disastro ecologico, Lévi-Strauss non ha mai voluto accorgersi. E non ha visto che essa viene proprio dalle forze che ha ignorato e insegnato a ignorare.



(©L'Osservatore Romano - 8 novembre 2008)

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