Il medioevo dimenticato
dei Padri della Chiesa
Pubblichiamo uno degli interventi tenuti nel convegno "Leggere i Padri tra passato e presente: continuità delle memorie e supporti digitali" che si è svolto a Cremona. L'incontro è stato un'occasione di riflessione e di confronto sul tema della tradizione patristica greca e latina fra medioevo e rinascimento.
di Claudio Leonardi Esiste un medioevo dei Padri? L'interrogativo è evidentemente provocatorio. Ma la mia risposta nega questa provocazione, perché la risposta, se posso subito anticiparlo, è no: non esiste un medioevo dei Padri, storiograficamente non esiste. Il medioevo è stato classificato e inteso, genericamente, nella cultura illuminista, come un'età di mezzo tra le due grandi stagioni culturali dell'umanità, l'epoca classica con il pensiero greco e il diritto romano, e l'epoca moderna, con il predominio della ragione, nella convinzione che l'uomo con le sue qualità potesse guidare e dominare la storia. Questa "medietà" del medioevo, il medioevo come oscurità e negazione del vero, è storiograficamente esaurita, poiché è finita quella convinzione che la ragione dell'uomo, che l'uomo stesso, possa dominare l'evento storico; e tuttavia essa rimane latente, quella a cui si ricorre quasi istintivamente e che domina ancora di fatto la grande editoria e le aule universitarie; e questo, credo, perché nessuna altra idea generale del medioevo si è imposta.
Questa condizione negativa lascia spazio alle ipotesi storiografiche più diverse ed è dunque una condizione aperta e diventa per questo una condizione positiva. Uno dei fatti di questa apertura è l'emergere a livello storiografico di studi non prima accolti nell'accademia e relegati soprattutto all'interno del mondo ecclesiastico. Finito il tempo in cui si poteva ritenere e sostenere che la fede cristiana era un inganno ed era perciò corruttoria, gli studi che avevano rapporto con fonti non solo e non tanto ecclesiastiche (giuridiche e teologiche in senso stretto), ma a fonti cristiane più tipicamente religiose, sono poco per volta riemersi come studi degni di questo nome e sono stati accolti nei corsi universitari.
Hanno ottenuto, per così dire, il sigillo di una singolare laicità, cioè di studi sul tema religioso, e in particolare cristiano, a carattere filologico e storico. Il caso emblematico è quello dell'agiografia, che era sino almeno agli anni Cinquanta dello scorso secolo un tema sconosciuto nelle università, tutta presa nel considerare più ancora che le istituzioni i rapporti sociali ed economici delle classi medievali. Quando questo approccio al medioevo, che tuttavia opportunamente continua, è stato di fatto contrastato da altre esigenze (...) allora l'agiografia è ricomparsa al di fuori delle scuole teologiche, ma non si è fermata alla pratica strutturalista, tendenzialmente disinteressata a ogni discussione propriamente storica della ricerca, ha accolto domande filologiche (...) e persino domande storiche, con la formulazione dei modelli agiografici.
L'aspetto più sorprendente di questa nuova nascita è, lo sappiamo, il fatto che l'agiografia è diventata in Italia una disciplina universitaria, prevista negli ordinamenti e di fatto insegnata da ordinari e associati in parecchie università. Si può intendere certo un testo agiografico come l'ha inteso la storiografia di matrice positivistica, cioè come un serbatoio di notizie e di fatti, ma la si è ora anche intesa nella sua natura strettamente agiografica, come la vita di un santo, una vita esemplare, misurata sul canone evangelico e quindi testimone di un modello di santità. Questo era assolutamente inconcepibile un secolo fa.
Si potrebbe fare un discorso analogo per un'altra componente della tradizione cristiana, cioè sul binomio mistica-profezia, che indica la profonda intima esperienza di Dio nel cristiano o più in generale nell'uomo, e il parlare alla storia in nome di Dio, anche se il suo nome non viene fatto. Per queste componenti siamo ben lontani da riconoscimenti accademici, che forse non ci saranno mai e si può discutere se sia bene o meno, che ci siano. Ma da qualche parte si insegna, credo, storia della spiritualità, che tuttavia è un termine equivoco su cui non si riesce a trovare un accordo.
Su mistica-profezia c'è ormai tuttavia un riconoscimento culturale sempre più ampio. Nel nostro mondo dove è in crisi l'identità personale come l'identità di gruppo, è cresciuta, e non solo né tanto tra i fedeli cristiani, che della mistica poco si fidano e s'aggrappano alle "cerimonie" (come diceva Savonarola), un'esigenza spirituale molto forte, che è dunque in grado di ascoltare le voci dei mistici, uomini e donne, che raccontano quella esperienza di Dio che ha loro dato una identità assoluta e una fermezza prima sconosciuta. È la stessa incertezza del futuro storico (...) che provoca curiosità verso il singolare fenomeno della profezia.
Non si possono dire le stesse cose per l'attenzione ai Padri della Chiesa. La disciplina che li riguarda è da decenni insegnata nelle Università, sotto la direzione di letteratura cristiana antica, che ha suoi canoni e una sua dignità certificata. Ma non è questo il nostro problema, bensì il ruolo che i Padri hanno avuto nel medioevo. La medievistica non si è che marginalmente occupata del tema. Anzi, la storiografia medievistica ha prevalentemente, se non assolutamente, visto il momento dinamico della cultura medievale nella sopravvivenza e nell'uso dei classici greci (Platone e poi Aristotele) e soprattutto latini (Virgilio e Cicerone, Ovidio e Orazio, Giovenale e Seneca). Una presenza senza dubbio importante.
Ma veramente si può dire che essa rappresenta la dinamicità della cultura medievale? Si ritorna al tema di ciò che il medioevo abbia potuto rappresentare. L'eredità classica-pagana ne è certo una componente; ma credo lo sia anche l'eredità cristiana (la Bibbia e, appunto, i Padri), come anche l'eredità germanica, elemento che solitamente viene messo in ombra anche perché per vari secoli si è espresso prevalentemente con un linguaggio orale. In realtà occorre comprendere il medioevo nella sintesi di queste tre componenti, che rappresenta la sua novità e originalità. Di essa fa parte, ben più di quanto la storiografia abbia voluto vedere, la cultura patristica. Si pensi a un mondo dove - del resto come nella cultura classica - il popolo è analfabeta e l'istruzione è affidata a scuole in sostanza elitarie.
Riché ha dimostrato che la scuola classica non è tramontata neppure nei secoli vii e viii, quando minori se non minime sono le testimonianze scritte - vista l'egemonia orale germanica - ma le tradizioni scolastiche sono riprese in pieno con i capitolari di Carlo Magno, fissandone la sede presso gli episcopi e i monasteri. La cultura classica serve questa scuola, innanzitutto per la grammatica e la retorica (il cristianesimo infatti non è un'arte liberale) e per i poeti (ma Francesco Stella ha mostrato che le fonti della poesia carolingia sono sì Virgilio ma soprattutto i poeti cristiani tardo-antichi). È noto per altro che i giovani che si facevano monaci o preti, studiavano il latino sui Salmi, che ogni giorno avevano occasione di recitare o di cantare (non a caso, in molti codici, nei fogli di guardia, tra le prove di penna si trova spesso l'incipit del primo salmo: Beatus vir). È noto anche che la Bibbia nei dotti e nel popolo andava accompagnata da una esegesi come necessità assoluta, non solo e tanto per convenienza o autorità ecclesiastica, ma anche per necessità culturale. Il ricorso ai Padri era un passo ovvio e non evitabile. Per la scuola carolingia, che costituisce il piano educativo per molti secoli, cioè sino alle università, i corpora di commenti alla Bibbia sono per lo più semplici o complessi accorpamenti di passi patristici, in cui tagli, sovrapposizioni di testi diversi e aggiunte testimoniano l'attività non meramente compilatoria di quei maestri, che forniscono, appunto, la base patristica di tutta l'esegesi biblica medievale. Nel popolo la Bibbia era appresa attraverso la liturgia e attraverso la predicazione, oltre che mediante le illustrazioni iconografiche.
Soprattutto la predicazione è carica di patristica. L'omeliario di Paolo Diacono, alla fine del secolo viii, ma resta in vigore per secoli, si compone di passi dei Padri a commento dei testi biblici della liturgia. È ben evidente che non c'è solo la liturgia nella formazione della consapevolezza e dell'identità medievale, c'è molto altro; ma la componente cristiana è certamente capitale e Bibbia e Padri ne sono il tramite fondamentale. Il cristianesimo impiegherà secoli a introiettare, pur mediandola, la componente germanica (e Alcuino ne dà testimonianza) e tanti più secoli a introiettare l'eredità classica, finché nel secolo xii questo processo è compiuto e l'uso dei classici avviene ormai senza più barriere di protezione. Il Comitato nazionale per celebrare Gregorio Magno nel centenario della morte, ha costruito, con la Sismel, un catalogo di codici gregoriani che ha dato lo stupefacente risultato di circa novemila schede. Mi chiedo quale autore classico abbia un numero così alto di testimonianze. I cataloghi di Munk-Olsen danno cifre molto ma molto più basse. Ma la ricerca sulla fortuna dei classici è storiograficamente accolta nell'accademia, quella dei Padri è quasi completamente, se non respinta, intravista o giudicata come non significativa. Per questo bisogna dire no all'interrogativo posto all'inizio. Si dice che l'alto medioevo è culturalmente nel segno di Platone e il basso nel segno di Aristotele. Ma le traduzioni da Platone sono poche e il loro uso non centrale, come le ricerche di Klibanski hanno fatto vedere. C'è sì molto Platone, ma mediato da Agostino, come forse più ancora molto medio e neoplatonismo, ma sempre con la mediazione di Platone. Dopo il secolo xii Aristotele invece non ha mediatori, o almeno opera anche direttamente, con le traduzioni dall'arabo e dal greco. Ma tutta la tradizione francescana da Alessandro di Hales a Bonaventura a Duns Scoto accetta di Aristotele solo il linguaggio razionale e una serie di concetti metafisici, ma lo combatte o lo limita e critica fortemente; e la fonte del limite è sempre e soprattutto Agostino, la Bibbia spiritualmente, ma culturalmente i Padri. Persino Tommaso è agostiniano, anche se - come molti affermano - opera una rivalutazione nella tradizione cristiana: l'influenza, pur ripensata, di Aristotele lo porta a una filosofia tutta costruita secondo ragione e una politica che opera, non secondo la fede, ma secondo razionalità - e consuetudines.
Non più come ancora in Bonaventura, la reductio della filosofia alla teologia, ma una distinzione intellettuale dei due sistemi di pensiero, che appare il migliore inveramento della conquista spirituale e storica di Gregorio vii, la distinzione tra il potere politico e il potere ecclesiastico. La difesa della tradizione agostiniana operata dai francescani ha portato invece alla chiusura del tempo medievale. Il primato della volontà già presente in Bonaventura è stato da Giovanni Duns Scoto ulteriormente sottolineato, lasciando poco o nessun spazio alla volontà umana, e sviluppando una antropologia dove la volontà divina tende a essere tutto. Questa posizione non è estranea, evidentemente, al formarsi dell'umanesimo, che era antiscolastico perché anti-scotista, e afferma l'umano contro il pan-divino di Scoto. Si può proporre che con l'anti-scolastica l'influenza della patristica latina nella coscienza occidentale tenda a scomparire; in essa verrà tra poco a operare la patristica greca. Quella latina infatti, proprio perché debitrice di Agostino, è una cultura cristiana che vede l'uomo profondamente toccato dal peccato e che attende la salvezza da Cristo. Quella greca invece vede l'uomo avviato in un percorso che lo porta di tappa in tappa nella Trinità. Non si parla di salvezza ma di divinizzazione. Questa versione cristiana è quella che sola era pensabile dagli umanisti. Il medioevo aveva conosciuto relativamente pochi padri greci, in particolare il grande Dionigi pseudo-Areopagita e la sua concezione dell'inconoscibilità di Dio, che aveva segnato un filone secondario del cristianesimo medievale. Ora molti altri Padri greci vengono conosciuti, anche in particolare per l'insegnamento e le traduzioni di teologi e dotti che hanno lasciato Bisanzio per il concilio fiorentino e per l'invasione dell'islam.
Da questo mio punto di vista, lo studio dei Padri nella storia culturale del medioevo e dell'umanesimo è una necessità storiografica che andrebbe affermata e resa operativa: censimenti di manoscritti, edizioni di testi, storia della fortuna all'interno della cultura medievale (sull'esempio dei lavori pilota di de Ghellinck): una prospettiva di lavoro gigantesca. Se storiograficamente il medioevo dei Padri non esiste, dovrebbe essere formato. Questa è del resto, se posso così finire, la coscienza storiografica che ha presieduto a molte iniziative della Sismel e della Fondazione Ezio Franceschini negli ultimi trent'anni, con cataloghi, edizioni, studi e convegni, tra i quali, benemeriti, quelli sui Padri e l'umanesimo indetti e guidati da Mariarosa Cortesi.
(©L'Osservatore Romano - 24-25 novembre 2008)
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