La crescita economica non è l'unico
criterio di una società sana
Cardinale arcivescovo di Westminster
Nell'arco di alcune settimane, quella che era iniziata come "stretta creditizia" si è trasformata in una crisi finanziaria e sembra divenuta una recessione globale. I mezzi di comunicazione sociale speculano su quanto è andato storto, su chi è da condannare e si chiedono se l'economia di mercato sia stata compromessa al punto che "il mondo non sarà mai più lo stesso".
In genere, i responsabili religiosi non sono economisti e devono essere cauti nell'addentrarsi in un territorio che non conoscono. Tuttavia, non possono ignorare le conseguenze negative per l'uomo dell'innalzamento e dell'abbassamento degli indicatori economici. Dietro ai titoli lugubri dei giornali vi sono città, quartieri, famiglie, individui profondamente colpiti dalla crisi economica. I più colpiti saranno i poveri: coloro che vivevano già al di sotto della soglia di povertà, lottando per sopravvivere.
I cristiani hanno una sollecitudine prioritaria per i poveri. Questa "opzione preferenziale per i poveri", com'è spesso definita, è un tema costante nella dottrina sociale della Chiesa. Il concetto biblico di giustizia implica che la giustizia di una comunità venga valutata da come quest'ultima tratta i deboli.
Per vivere in un mondo globalizzato dobbiamo considerare non solo i poveri e gli emarginati del nostro Paese, ma anche gli ottocento milioni di persone al di fuori dei suoi confini che soffrono cronicamente la fame. È giusto che i responsabili religiosi continuino a insistere sul fatto che, nell'elaborare le nostre politiche economiche e commerciali, dobbiamo considerare le loro implicazioni per i poveri, a livello sia nazionale sia internazionale.
All'inizio di quest'anno mi trovavo nello Zimbabwe. La povertà e la desolazione estreme dei suoi abitanti mi hanno profondamente colpito. Qualsiasi nuova normativa economica che non affronti il divario estremo fra ricchi e poveri non merita alcuna considerazione.
Oltre a porre enfasi sulla dignità e sul valore di ogni individuo dal concepimento alla tomba, la Chiesa considera la persona umana come un essere essenzialmente sociale che ha bisogno di un sicuro contesto sociale in cui prosperare. Da questo derivano l'importanza del matrimonio e della famiglia e quella della comunità e di un posto sicuro dell'individuo in essa. Privare le persone del diritto al lavoro vuole dire privarle della capacità di contribuire alla vita della comunità, emarginandole e riducendo la loro dignità umana.
Quando il mercato si riprenderà, dovrà essere gestito in modo da contribuire a creare nuova occupazione con una retribuzione adeguata e condizioni lavorative decenti.
La Chiesa non condanna l'economia di mercato né la esalta. I cristiani riconoscono che il mercato, come il denaro in sé, è un elemento essenziale nella conduzione degli affari umani. Tuttavia le leggi per mezzo delle quali opera non sono cieche come quella della forza di gravità. Derivano da azioni e decisioni umane, che quindi le possono moderare. Quanti gestiscono il mercato hanno l'obbligo di garantire che le loro azioni promuovano il bene comune e non solo la massimizzazione dei profitti di quanti sono più esperti nel suo sfruttamento.
In questo, Governi e moderatori hanno un ruolo da svolgere, ma tutti noi, non solo i banchieri, gli operatori economici e i finanzieri, dobbiamo ricordare le implicazioni morali di quanto facciamo e considerare se stiamo contribuendo, anche in maniera minima, alla promozione del bene comune e non al perpetrarsi dell'ingiustizia.
Tuttavia, che cos'è il bene comune? Non c'è nulla di immorale nel desiderare la prosperità, ma la crescita economica e il benessere materiale in costante aumento sono gli unici criteri di una società sana e prospera? Il fatto che la maggioranza delle persone del mondo industrializzato viva decisamente meglio dal punto di vista economico rispetto a quarant'anni fa si è forse tradotto in benessere spirituale, emotivo e sociale?
Ritengo che molta di quell'infelicità derivi dal fatto che le persone sono portate a credere che la vita non abbia altra spiegazione o significato al di là di ciò che ci insegnano la scienza e la tecnologia e alcuno scopo al di là del progresso materiale. I non credenti per definizione non condividono la fede cristiana in uno scopo divino, ma quello che molti di noi condividono è un disagio verso l'attuale condizione della società, che non è evidentemente a proprio agio con se stessa.
Ci è stato detto che non esiste una realtà chiamata società e tuttavia l'individualismo possessivo ci ha tradito. In una società frammentata molti possono sentirsi alienati, ma, come ha dimostrato la recente crisi, nessuno può sfuggire alle conseguenze di un sistema finanziario mondiale che ci unisce tutti.
Quindi mi sembra che la crisi attuale possa essere un kairòs: un'opportunità per compiere una valutazione, per affrontare un nuovo dibattito nella società sulla nostra idea di bene comune e su cosa significa per una società o per una nazione essere prospera, su cosa significa essere umani. Al contempo, è un'opportunità per riconoscere che il compito di garantire la giustizia sociale non può essere lasciato solo ai Governi, ai politici e al mercato, ma dipende dalle decisioni quotidiane di ognuno di noi e dagli obiettivi che ci poniamo.
Ogni giorno ci viene detto che viviamo in una società secolare e plurireligiosa e che questo è un segno di tolleranza. Tuttavia dovremmo superare la mera tolleranza, che si concentra sui diritti individuali, e pervenire all'idea di come la nostra interdipendenza possa migliorare in modo creativo tutta la nostra vita.
I credenti non hanno il monopolio dei valori e i non credenti hanno delle convinzioni su cosa costituisce una società giusta e sana, che non sono tutte antitetiche alle convinzioni dei cristiani, dei musulmani e di quanti appartengono ad altre religioni.
La valutazione a cui ci costringe la crisi economica è un'opportunità per un dibattito in cui tutti noi, credenti e non, possiamo esplorare insieme l'estensione del terreno che abbiamo in comune. Se riusciremo a farlo senza rancore e nel rispetto reciproco, la crisi finanziaria sarà un motivo di speranza invece che di depressione.
(©L'Osservatore Romano - 23 novembre 2008)
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