«Finalmente ho capito cosa rende
la vita moderna così vuota»
"Ti do l'estremità di un filo d'oro, devi solo avvolgerlo in un gomitolo, ti condurrà davanti al cancello del cielo, costruito nelle mura di Gerusalemme": da questi versi di William Blake, Bede Griffiths, monaco camaldolese morto in India nel 1993, ha tratto il titolo della sua autobiografia. Nato a Walton on Thames nel 1906, ultimo di quattro figli di una famiglia anglicana della media borghesia, il giovane Griffiths (che adora i cupi romanzi di Hardy) si allontana presto dalla religione, nutrendo un forte pregiudizio contro il dogma e la morale.
Se ha una grande venerazione per Gesù in quanto essere umano perfetto - come l'ha per Socrate - ritiene invece che il cristianesimo appartenga ormai al passato. Negli anni della Grande Guerra, come molti altri giovani, Griffiths vive un profondo disinganno anche verso la società del tempo. Impegnato nel sociale, nel 1925, tra letture, riflessioni e grandi inquietudini, inizia l'università ad Oxford (ha come tutore Clive Staples Lewis). Qualche anno dopo, però, nell'aprile 1930, per reagire all'inquietudine profonda che sente rispetto al mondo, Griffiths fa un'esperienza di vita primitiva ed essenziale nella campagna del Cotswold, prima con due amici e poi da solo, rifiutando i prodotti, i tempi e le logiche che lo circondano. Il risultato di questa esperienza è un nuovo incontro con Dio, che si traduce prima in un riavvicinamento alla Chiesa anglicana e, poi, nella conversione al cattolicesimo. "Feci la mia prima comunione alla Messa di mezzanotte (del 24 dicembre 1931) nella piccola chiesa di Winchcombwe. Era una tranquilla notte di luna piena, e mentre passavo davanti alla grande chiesa gotica parrocchiale, sapevo che per me iniziava una nuova epoca". Ancora una volta, però, Griffiths si ritrova solo all'inizio nel suo percorso di ricerca che mai ha conosciuto tregua: seguire il filo d'oro è stato, infatti, un cammino impervio che a ogni passo lo ha radicalmente rimesso in discussione. Salvo poi scoprire che, in realtà, dietro l'enorme fatica di voler capire, comprendere e trovare una risposta, v'era semplicemente Dio, che lo stava attendendo. "Capii di aver cercato Dio per tutti quegli anni. La presenza che mi era apparsa sotto le forme della natura, quel giorno a scuola; la bellezza che avevo trovato nei poeti; la verità che la filosofia mi aveva mostrato; e infine la rivelazione del Cristianesimo. All'improvviso capii che per tutto quel tempo non ero stato io a cercare Dio, ma Dio a cercare me". La ricerca di Griffiths non si ferma alla conversione, ma lo conduce (nemmeno un mese dopo questa) all'ingresso in monastero. "Cominciai a rendermi conto che era possibile seguire Cristo senza diventare un predicatore. La predicazione aveva occupato al massimo due o tre anni della sua vita e non era stato principalmente tramite quella che la sua opera era stata compiuta. La maggior parte della vita Cristo l'aveva passata in completa oscurità a Nazaret. Vedevo ora che questa vita nascosta, trascorsa in un piccolo villaggio lontano dal mondo (...) era un modello di vita per ogni cristiano e, soprattutto, era proprio la cosa da cui mi sentivo attratto". Griffiths prende così l'abito di novizio benedettino il 20 dicembre 1933 (con il nome di Beda, santo per lui molto importante), mentre fa la professione semplice nel 1934 e quella solenne del 1937.
Il percorso di Griffiths è interessante anche per la prospettiva che offre sui rapporti tra cattolici e anglicani. Per un giovane inglese degli anni Venti, "la scoperta che la Chiesa anglicana era stata fondata da un Papa romano e che i primi arcivescovi di Canterbury e di York erano stati inviati da Roma fu un'illuminazione": proprio come l'Inghilterra aveva fatto parte dell'impero romano, così la Chiesa anglicana aveva fatto parte della Chiesa di Roma (a riprova della chiusura tra le due realtà, v'è il fatto che il solo cattolico che Griffiths conosceva all'epoca è il suo librario, che lo indirizzerà a Padre Palmer). "La rottura" tra le due Chiese è "un evento psichico che appartiene a tutte le nostre vite, qualcosa che giace profondamente sepolto nell'inconscio, ma è pronto a emergere a livello conscio qualora le circostanze costringano a fronteggiarlo. Era questo mostro del profondo della mia anima che ora dovevo affrontare". E così la sua prima reazione verso il cattolicesimo è la paura ("in parte era, senza dubbio, la paura dell'ignoto"). Quando finalmente una domenica trova il coraggio di andare alla chiesa di Newbury per la messa, Griffiths si sente, al contempo, attratto "per il suo mistero" e respinto "per la sua stranezza e singolarità", un'esperienza che, piuttosto che mitigarla, aumenta la sua paura. "Studiare il cattolicesimo in Dante e in san Tommaso era una cosa, ma vederlo nella sua forma moderna era molto diverso". Nel convertirsi, però, Griffiths - consapevole della sofferenza che sa di causare ai suoi cari, specie alla madre, ma "l'amore vero non esita mai a dare dolore a coloro che ama, quando la verità lo richiede" - vuole la conferma della presenza di Cristo nella Chiesa cattolica. E la conferma la riceve quando padre Palmer riesce a trascinarlo in un monastero lì vicino ("per me i monasteri erano semplicemente reliquie del passato e non avevo idea che ci fossero ancora dei monasteri esistenti nel mondo moderno"). Ma a distanza di anni Griffiths ricorderà ancora l'impressione di quella prima volta. È, innanzitutto, lo shock della dimensione comunitaria della preghiera, che per lui, invece, era sempre stata "qualcosa di privato e di isolato, qualcosa di cui non mi sarei mai sognato di parlare ad altri. Ora, invece, mi trovavo in un'atmosfera dove la preghiera era il respiro della vita". Enorme è la sorpresa quando uno dei monaci, del tutto casualmente, gli dice che avrebbe pregato per lui, "il mondo soprannaturale all'improvviso divenne per me qualcosa di concreto e reale. Capii, allora, cosa mi era mancato in tutto quel tempo. Era stata l'assenza della preghiera come base costante della vita a rendere la vita moderna così vuota e priva di significato. Avevo trovato nella fede la chiave per tutte le verità e mi resi conto che solo ora potevo realmente cominciare ad assimilarla". E assimilarla significa per Griffiths, innanzitutto, viverla: "Vedevo ora che il cristianesimo non era solo una dottrina da predicare, ma soprattutto una vita da vivere, e che il cuore vero di quella vita era da ricercarsi nel sacrificio. Non fu con la sua opera o con la sua predicazione, ma con il sacrificio della sua vita sulla croce che Cristo salvò il mondo". Proprio questa idea del sacrificio lo porterà alla prima grande crisi della sua vita monastica: sebbene la vita nel monastero non fosse facile, era però meno austera di quella alla quale Griffiths si era abituato. Una consapevolezza questa che diventa l'occasione per capire che la volontà di Dio non va ricercata seguendo i propri desideri - "per quanto spirituali possano apparire" - ma tentando di adattarsi alle circostanze in cui ci si trova, per volere divino: "Mi resi conto che il più grande ostacolo nella vita era il potere della volontà personale e che questa poteva mascherarsi nel desiderio di predicare il Vangelo o di vivere una vita austera".
Per Griffiths la fede va vissuta in una continua dialettica tra dimensione individuale e dimensione collettiva, un dialogo incredibilmente fecondo, sebbene a volte difficile. "Ho cercato Dio nella solitudine della natura e nel lavorio della mia mente, ma l'ho trovato nella comunità della sua Chiesa e nello Spirito di Carità. E tutto questo è stato per me non tanto una scoperta, quanto un riconoscimento". Scoprire Dio, del resto, "non vuol dire scoprire un'idea, ma scoprire se stessi, vuol dire prendere coscienza di quella parte della nostra esistenza che è rimasta nascosta ai nostri occhi e che abbiamo rifiutato di riconoscere. La scoperta può essere molto dolorosa; è come attraversare una specie di morte. Ma è l'unica cosa che dà valore all'esistenza. Tale riscoperta della religione è la grande avventura intellettuale, morale e spirituale del nostro tempo. Richiede tutte le nostre energie e implica sia sforzo che sacrificio. La riscoperta deve essere fatta per proprio conto da ogni singolo individuo. A ciascuno viene dato, in egual misura, il filo d'oro e ognuno deve trovare la propria via all'interno del labirinto". La religione è, dunque, individuale ma collettiva al contempo, esattamente come l'esperienza monastica non è fuga, ma una realtà il cui "vero scopo è di rendere capaci di affrontare i problemi del mondo al loro livello più profondo, cioè mettendoli in relazione con Dio e con la vita eterna".
La conversione di Griffiths è anche un progressivo abbandono. "Ciò che realmente mi spaventava era il conflitto con la mia ragione. Finora la mia ragione e il mio istinto avevano sempre camminato mano nella mano. Mi ero reso giudice di ogni cosa, in cielo e in terra, e non riconoscevo nessun potere o autorità su di me. Ora venivo sollecitato ad abbandonare questa indipendenza. All'interno della mia natura era sorto qualcosa che la mia ragione non poteva controllare". Per una persona che si riconosce come spirito libero - "né l'umiltà né l'obbedienza avevano avuto senso per me, ed era emblematico che non le avevo mai considerate delle virtù riscontrabili in Cristo" - è questa la lezione più dura. "Nulla mi sembrava più lontano dalla mia esperienza del detto di Agostino "non crederei al Vangelo se non fosse per l'autorità della Chiesa". Al contrario, sentivo che era solo perché credevo al Vangelo che ero arrivato ad accettare l'autorità della Chiesa. Ma presto cominciai a rendermi conto che, per quanto potessi esser sicuro della verità del Vangelo, la mia fede non poteva poggiare solo sulla mia esperienza individuale. Chiedeva il sostegno della testimonianza della Chiesa universale, solo quando accettai l'autorità della Chiesa universale la mia fede raggiunse la completa certezza".
Griffiths ritorna spesso anche sul fatto che Gesù è "venuto per ricapitolare tutte le fasi della storia umana", un aspetto in relazione al quale sente una vicinanza fortissima con Newman ("non penso che la mia mente avesse mai preso seriamente in considerazione il pensiero della Chiesa cattolica, e comprai Development of Christian Doctrine solamente per un interesse generale, ma il suo effetto su di me fu una prova decisiva"). Vedendo Newman "impiegare tutto il suo sapere e tutte le sue capacità esegetiche nel tentativo di dimostrare che la Chiesa delle Scritture e dei Padri non era altro che la Chiesa di Roma", Bede rimane affascinato. L'ultima tappa terrena e spirituale, Griffiths la vive trasferendosi in India (dove morirà). "Essere cristiani significa accettare la responsabilità del peccato non solo in se stessi, ma anche negli altri - scrive Griffiths -, significa riconoscere che tutti noi siamo responsabili gli uni degli altri. Ciò che desideriamo deve accedere al centro del nostro stesso essere, nell'oscurità dell'intimo, nell'unico luogo in cui è possibile incontrare il Dio che è nascosto nel profondo dell'anima".
(©L'Osservatore Romano - 13 novembre 2008)
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