«Operazione carte false»
per salvare gli ebrei
Così il vescovo di Assisi attuò le direttive di Pio XII
"Ricordo la grande semplicità e la purezza del suo sguardo, quel qualcosa di immediatamente buono e ingenuo che sembrava sprigionarsi, insieme a una grande forza, da ogni suo gesto, da ogni parola. Nell'ombra e nel silenzio delle grandi stanze, la figura del vescovo era rassicurante - come qualcosa a cui ci si poteva appoggiare".
Il presule di cui si parla è monsignor Giuseppe Placido Nicolini e a ricordarne la figura, a oltre sessant'anni da quell'incontro, è Mirjam Viterbi Ben Horin. Era il 1943 e lei una bambina che, con i genitori e la sorella, trovò scampo dalla persecuzione nazifascista ad Assisi grazie all'organizzazione di soccorso agli ebrei messa in piedi proprio dal vescovo con l'aiuto di due sacerdoti in particolare: don Aldo Brunacci e padre Rufino Nicacci.
I fatti sono ormai ben noti: i tre protagonisti della vicenda sono stati riconosciuti Giusti tra le nazioni dallo Yad Vashem. Ma ogni nuova testimonianza di quella vicenda è un ulteriore tassello per la ricostruzione della verità storica di quegli anni tragici.
Ciascun racconto svela qualcosa di inedito - non fosse altro che il punto di vista di chi narra - insieme con la gratitudine per quell'aiuto disinteressato e non privo di rischi. E proprio la riconoscenza ha spinto Mirjam Viterbi Ben Horin a rendere pubblico il suo personalissimo ricordo, filtrato attraverso lo sguardo di una bambina.
Con gli occhi di allora (Brescia, Morcelliana, 2008, pagine 90, euro 10) è dunque la storia di una bimba ebrea che in seguito alle leggi razziali del 1938 fu costretta a lasciare la casa di Padova e a rifugiarsi con la famiglia ad Assisi tra il 1943 e il 1944. Ed è qui che scoprì l'esistenza di uomini e donne che non rinunciarono alla propria umanità, che non si sottrassero al dovere del bene pur consapevoli che ciò avrebbe potuto costare loro la vita.
"Lo scrivere queste pagine - annota l'autrice - è anche il mio modo, oggi, per dire grazie a tutti coloro che mi hanno fatto sentire che la vita anche nei momenti più oscuri può essere bella, se qualcuno ti è vicino, ti tende una mano o semplicemente, anche con il suo stesso silenzio, è insieme a te: se qualcuno con la sua presenza rompe il guscio della tua solitudine e della paura".
La figura centrale del racconto appare subito quella del vescovo. Fin dal primo incontro con la famiglia Viterbi.
"La mamma e il papà gli spiegarono chi eravamo - ricorda Mirjam - e gli consegnarono quei pochi oggetti ebraici che ci avevano seguito da Padova e che, se scoperti, avrebbero potuto denunciare la nostra identità.
"Monsignor Nicolini li prese con attenzione e delicatezza, assicurando che li avrebbe messi personalmente in un luogo sicuro. Infatti, come poi si venne a sapere, era solito nasconderli lui stesso nei sotterranei del Palazzo vescovile, picconando e murando, mentre don Aldo Brunacci gli faceva luce con una candela.
"Esaurita questa prima fase della visita, il discorso si concentrò sull'argomento "carte false", così essenziale per il nostro futuro, e di cui si sarebbe occupato più direttamente don Aldo".
Il problema principale per gli ebrei era infatti costituito dai documenti. Occorreva procurarsene di falsi e solitamente si usavano nomi di persone residenti in zone dell'Italia meridionale già liberate, dove era più difficile effettuare controlli. Al tal fine, su indicazione del vescovo, venne avvicinato un tipografo dichiaratamente comunista, Luigi Brizi, che acconsentì coinvolgendo anche il figlio Trento, malgrado i rischi di una tale attività.
Dunque, monsignor Nicolini era impegnato in prima linea in quella catena di soccorso. Del resto proprio don Brunacci ha raccontato più volte come nacque quell'organizzazione. Il terzo giovedì del settembre 1943, dopo la consueta riunione mensile del clero che aveva luogo nel seminario diocesano, il vescovo lo chiamò in disparte nel vano antistante la cappella e, mostrandogli una lettera della Segreteria di Stato, gli disse: "Dobbiamo organizzarci per prestare aiuto ai perseguitati e soprattutto agli ebrei, questo è il volere del Santo Padre Pio XII. Il tutto va fatto con la massima riservatezza e prudenza. Nessuno, neppure tra i sacerdoti, deve sapere la cosa".
La Chiesa, dunque, nella lotta contro la barbarie nazifascista ebbe un ruolo specifico e rilevante sotto Pio XII. Seguendone le direttive, cercò di coordinare gli sforzi e soprattutto di trasmettere un esempio ai fedeli. "Non si trattava soltanto - ha affermato di recente il segretario di Stato Tarcisio Bertone - di organizzare burocraticamente la ricerca dei dispersi e l'assistenza ai prigionieri. Fu invece un'attitudine precisa nei confronti degli ebrei perseguitati. Essi andavano aiutati, in ogni modo possibile. È questo il presupposto su cui si fondò l'azione del Papa e dei suoi collaboratori, come si evince dalla documentazione esistente".
Da questa indicazione generale e dalla direttiva di monsignor Nicolini nacque ad Assisi il Comitato assistenza agli sfollati, un nome di copertura per un'attività ad alto rischio. Il convento delle clarisse di San Quirico divenne il quartier generale dell'organizzazione.
Qui, come nelle foresterie delle collettine, delle stimmatine, delle suore cappuccine tedesche e delle benedettine di Sant'Apollinare, i perseguitati venivano ospitati fino a quando si riusciva a trovare per loro nuove carte di identità, grazie alle quali ottenevano le tessere annonarie e potevano vivere in albergo o in appartamenti privati.
Bruno Angeli, un altro ebreo padovano fuggito con la famiglia, "fu il primo a parlarci di un'organizzazione che aiutava in modo straordinario tutti gli ebrei arrivati ad Assisi - racconta Mirjam - fornendo anche documenti di riconoscimento con generalità false, cioè "ariane".
"A tutti i conventi, compresi quelli di clausura, era stato impartito l'ordine di aprire le loro porte ai perseguitati per ospitarli. E la nostra identità religiosa, aggiunse, veniva rispettata a tal punto che pochi giorni prima, al termine del digiuno di Kippur, le clarisse del Monastero di San Quirico avevano preparato una grande tavolata adorna di fiori, volendo servire loro stesse il pasto che chiudeva la lunga giornata di preghiera e di penitenza".
Così quando padre Vincenzo, del convento di San Damiano, li avvicinò - "Se avete un amico ebreo, ditegli di venire nel nostro convento e indossare la tonaca dei frati" - i Viterbi già sapevano di cosa si trattava e che quella era una direttiva del padre guardiano, Nicacci.
Ma Mirjam e i suoi familiari non si rifugiarono in convento, ma in abitazioni private. Sempre pronti, tuttavia, a partire immediatamente. "In quel periodo - racconta al riguardo Mirjam - controllavo sempre più attentamente la mia piccola valigia, sempre pronta in un angolo, specie quando la sera udivo un camion fermarsi sotto casa o il rumore di stivali sul selciato. Sapevo che era accaduto e che poteva accadere anche a noi. Non mi sentivo in colpa di essere viva; no; ma... fino a quando? Con quelle valigie allineate, io credo di aver cominciato a capire allora, forse senza rendermene pienamente conto, che nella vita bisogna sempre essere pronti a partire. Non si sa per dove. Non si sa perché".
Tuttavia le cose a un certo punto sembrarono precipitare. I nazifascisti intensificarono i controlli.
E ancora una volta nei ricordi della bambina emerge la figura di monsignor Nicolini: "Mio padre andò a consigliarsi col vescovo e a chiedergli se in caso di estrema necessità avesse potuto accoglierci in vescovado, già asilo di un incredibile numero di sfollati e di perseguitati. Monsignor Nicolini sorrise, con quella sua espressione buona: "Sono rimaste libere solo la mia stanza da letto e lo studio", - disse con spontaneità - "Ma posso benissimo sistemarmi nello studio e la stanza da letto è per voi". Papà, di fronte a quell'offerta tanto generosa, non si sentì ovviamente di accettare". L'attività di aiuto agli ebrei non passò del tutto inosservata. Don Brunacci venne arrestato dalla polizia fascista che lo aveva atteso sotto casa. Fu portato a Perugia, dal prefetto Rocchi.
Venne rilasciato una decina di giorni dopo, purché abbandonasse Assisi per la Città del Vaticano. Quella notizia gettò nello sconforto gli ebrei rifugiati in città, ma fortunatamente non accadde nulla. Fino a quando arrivarono i liberatori, la mattina del 17 giugno 1944.
Era finita. Almeno per gli ebrei di Assisi. Oltre trecento si salvarono dalla deportazione grazie al vescovo, ai due sacerdoti e alle persone che sostenevano in vario modo l'organizzazione.
Dopo la guerra Mirjam e la sua famiglia provarono a tornare a Padova. "La nostra casa era stata incendiata - sottolinea - e a mio padre non rimase altra possibilità che alienarla, con un acuto senso di lacerazione. Venne reintegrato all'università e all'accademia patavina, ma non si sentì più di ritornare a vivere a Padova, pur rimanendone affettivamente molto legato. Riprese il suo insegnamento all'università di Perugia. Nell'incertezza di dove stabilirsi, si rimase ad Assisi per 7 anni. Nel '50 ci si trasferì a Roma".
Fu proprio il padre di Mirjam, Emilio Viterbi, a esprimere pubblicamente - come riportato in altri documenti - la gratitudine dei salvati: "Noi ebrei rifugiati in Assisi non ci dimenticheremo mai di ciò che è stato fatto per la nostra salvezza. Perché in una persecuzione che annientò sei milioni di ebrei, ad Assisi nessuno di noi è stato toccato".
Nella città di Francesco - dove, come scrive Mirjam Viterbi Ben Horin, "il Pax et Bonum divenne presto per me il saluto più spontaneo, non sapendo minimamente, allora, che era proprio come il dire shalom in ebraico" - si compì un miracolo d'amore.
Un miracolo che aveva i volti di monsignor Nicolini e dei suoi più stretti collaboratori. Volti che gli occhi di quella bambina non hanno dimenticato.
(©L'Osservatore Romano - 17-18 novembre 2008)
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