Declino umanistico, declino dell'uomo
Il rettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore ha sintetizzato per "L'Osservatore Romano" i temi del suo discorso inaugurale tenuto in occasione dell'apertura dell'anno accademico.
di Lorenzo Ornaghi È opportuno chiedersi se ciò che sta accadendo da qualche mese in Italia sia un caso solo italiano, quasi si trattasse della scoperta, giunta all'improvviso e sorprendentemente, dell'ennesima e perversa anomalia del Paese. O se invece colpi e sommovimenti, da cui è scosso il nostro sistema universitario, non possano costituire i segnali che preannunciano una più profonda e generale crisi della realtà e dell'immagine di università anche in altri Paesi europei.
Che anche in gran parte dell'Europa si possano più intensamente avvertire, tra breve, i segni di una generale e profonda crisi della realtà e dell'immagine di università, non è - a mio giudizio - da escludere. Soprattutto laddove i sistemi universitari sono storicamente divenuti parte costitutiva del cosiddetto "Stato dei servizi", l'ordinario funzionamento e le necessarie linee di sviluppo di tutti gli atenei non potranno non gravare sulla crescente insostenibilità delle forme esclusivamente stato-centriche di welfare, ossia di un welfare interamente mantenuto per il presente, e più o meno fondatamente garantito per il futuro, dallo Stato. Insostenibilità economica, innanzi tutto, poiché causata dagli ostacoli che già oggi si frappongono, e sempre più si frapporranno domani, a incrementi di risorse sino ai livelli ritenuti indispensabili o ragionevolmente desiderati dalle numerose istituzioni, e dalle molteplici parti, della comunità nazionale. Insostenibilità, o quasi impossibile sostenibilità politico-sociale, in secondo luogo: ogni significativa ripartizione delle più limitate risorse a disposizione andrà infatti effettuata tra grandi ambiti di servizi che, proprio perché nevralgici rispetto ai bisogni della generalità dei cittadini - si pensi solo, per una sin troppo facile esemplificazione, ai bisogni legati alla salute o all'ordine pubblico - ben difficilmente patirebbero di essere in dura concorrenza fra di loro. Insostenibilità, infine, che solo con poche esitazioni qui qualificherei come "istituzionale", proprio pensando allo strettissimo nesso che ha visto procedere insieme, nella storia dal Basso Medioevo sino a oggi, l'università come istituzione e il complesso di istituzioni - a partire, appunto, dallo Stato - con cui si è stabilmente - e con successo, almeno fino ai nostri giorni - organizzata la vita sociale, economica, politica, dentro e tra le comunità nazionali.
A chi è convinto dell'accelerato e fatale declino dello Stato e del sistema degli Stati, quali - nel loro ordine storicamente specifico e nella loro capacità ordinante - creatura e prodotto della cultura dell'Europa moderna, anche la sorte dell'università appare inesorabilmente segnata. Ma è davvero così? O non piuttosto l'università, che ha contribuito a far nascere, prosperare, succedere le une alle altre pressoché tutte le forme di stabile organizzazione economica, sociale e politica, in cui ancora viviamo, nuovamente si trova di fronte alla funzione e alla responsabilità di diradare le nebbie che avvolgono i grandi cambiamenti in corso, di elaborare idee e progetti con cui orientare tali trasformazioni, di creare autenticamente, mediante la ricerca e la formazione dei giovani, "cultura"?
Sì, cultura. È la funzione culturale dell'università ciò di cui oggi abbiamo soprattutto necessità. Ma tale funzione comincia a indebolirsi, e l'essenza stessa dell'università si smarrisce o si snatura, quando la prospettiva dello studium generale diventa poco più che una parola del passato; talvolta anche per chi negli atenei e per gli atenei vive e lavora. Non sono gli eventi collocati alla superficie dei cambiamenti in corso ad allontanarci sempre più dall'essenza dell'università; né il comprensibile svolgimento e l'accentuata divaricazione delle specializzazioni disciplinari; né, infine, il diverso grado con cui le ricerche in alcuni campi sono oggi socialmente più utili di altre, o tali vengono considerate dalle convinzioni e convenzioni più diffuse: le ricerche su come renderci più belli o esteticamente meno sgradevoli sono certamente più interessanti, e attraenti da finanziare, rispetto a qualsiasi seria indagine che abbia per oggetto il più o meno recente passato. Siamo noi, nelle nostre università, a non praticare più lo studium generale, a non credere nella sua capacità di saper produrre ciò che per il presente e il domani è davvero nuovo e utile.
L'infiacchirsi dell'idea di studium generale consegue - o, più probabilmente, vi si lega in stretta interdipendenza - al declinare dell'idea di humanitas, quale architrave di ogni forma di sapere, di una "visione umanistica" quale componente indispensabile affinché ogni passo in avanti della conoscenza scientifica sia autenticamente un suo progresso.
Riflettere sull'essenza dell'università, sulle sue funzioni ancora indispensabili, sul nesso fra didattica e ricerca, significa volere e saper pensare - anche nei frangenti di questi mesi - al domani incombente di questa nostra istituzione. Ed è proprio il domani dell'università, quello immediato e quello meno vicino, che soprattutto ci deve stare a cuore.
Pur in mezzo a tante fatiche, al domani della nostra università ci siamo preparati e ci stiamo preparando nel solco rispettoso di tutta la nostra quasi secolare tradizione. Fortissima sentiamo infatti la responsabilità di corrispondere alla nostra identità, alle ragioni e alla fede grazie alle quali l'ateneo dei cattolici italiani è nato e cresciuto, a quella missione di libertà da cui - a partire dalla libertà stessa di scegliere i giovani da avviare alla ricerca scientifica e all'insegnamento - interamente dipende la fecondità del nostro servizio alla Chiesa e alla società italiana, dipende la nostra possibilità di educare quella "nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile" richiesta dal Santo Padre Benedetto XVI nell'omelia pronunciata in occasione della recente visita pastorale in Sardegna. L'educazione e la preparazione di questi laici cristiani è, per un'università come la nostra, un dovere indeclinabile.
Lungo questo solco procederemo. E, a suggello di questa determinazione, vorrei apporre l'annotazione di un grande autore che già in altre occasioni mi è parso importante richiamare. È una frase di John Henry Newman, tratta da una pagina del secondo capitolo del suo Origine e sviluppo delle Università (1856). Ricorderemo e celebreremo il cardinale Newman alla fine del prossimo marzo, con un convegno internazionale e una santa messa nella cappella maggiore, che, interamente e sapientemente restaurata anche nelle bellissime decorazioni scultoree di Giacomo Manzù da cui è adornata, si offre ora a tutti nel suo originario splendore.
Tra le moltissime possibili ho trascelto questa annotazione, poiché essa mi sembra quella che meglio illumina il cammino che abbiamo davanti e maggiormente incoraggia tutti noi che apparteniamo all'Università Cattolica del Sacro Cuore. Nell'enunciazione del cardinale Newman, se bene la meditiamo, vi sono infatti compresi l'"idea" di università e tutto il senso del nostro quotidiano operare in questa università. Eccola: "Per natura grandezza e unità vanno insieme; l'eccellenza implica un centro. E tale (...) è l'università (...) È un luogo che conquista l'ammirazione del giovane con la sua fama, suscita l'affetto degli adulti con la sua bellezza, e fissa la fedeltà dei vecchi con le sue associazioni. È una sede della sapienza, una luce del mondo, un ministero della fede, un'Alma Mater della generazione nascente. È questo e molto di più".
(©L'Osservatore Romano - 20 novembre 2008)
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