martedì 30 settembre 2008

L'OSSERVATORE ROMANO Edizione quotidiana 29-30 settembre 2008

L'arcivescovo Angelo Amato a Bialystok, Polonia, proclama beato Michele Sopocko

Un modello esemplare

di santità sacerdotale




Michele Sopocko, sacerdote polacco, fondatore delle Suore di Gesù Misericordioso e dell'istituto secolare della Divina Misericordia, è stato elevato agli onori degli altari ieri, domenica 28 settembre. La celebrazione, nella quale è stato inserito il rito della beatificazione, è stata presieduta, presso la chiesa della Divina Misericordia a Bialystok (Polonia), dall'arcivescovo diocesano monsignor Edward Ozorowski. L'arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ha pronunciato la formula solenne della beatificazione e ha tenuto l'omelia.

Monsignor Amato, nel riproporre l'esemplare santità sacerdotale del nuovo beato, ha voluto innanzitutto ricordarlo come confessore di santa Faustina Kowalska, della quale ha citato una frase contenuta nel suo personale Diario a proposito di una esortazione di Gesù:  "Scrivi che giorno e notte il mio sguardo riposa su di lui".


"Su chi riposava lo sguardo di Gesù? - si è domandato l'arcivescovo - Sul beato Michele Sopocko, questa esemplare figura di sacerdote polacco, educatore, formatore di giovani, confessore, padre spirituale, che si aggiunge alle recenti grandi figure della santità polacca, come san Massimiliano Kolbe e suor Faustina Kowalska". Tra gli elementi di attualità nella testimonianza del nuovo Beato monsignor Amato ha sottolineato l'esemplarità "convincente dell'eterna bellezza della sequela Christi. Essere cristiani significa essere nella verità, nella libertà, nella gioia; significa essere sale della terra e luce del mondo.


"In qualsiasi condizione ci troviamo e qualunque cosa noi facciamo la nostra vita è una imitatio Christi, che riecheggia la bontà e la misericordia del Signore Gesù. Così ha fatto Michele Sopocko.


"Ci possiamo chiedere:  come imitare il Beato nell'esercizio della virtù della misericordia? La risposta è semplice. Nelle famiglie ogni giorno c'è bisogno di misericordia. Ogni giorno la sposa deve avere comprensione verso lo sposo e viceversa, riconfermando continuamente la loro reciproca fedeltà. Ogni giorno i genitori devono essere magnanimi nel perdonare i propri figli, nel sopportare le loro disobbedienze e le loro continue mancanze. Ma anche i figli devono essere pazienti coi loro genitori e ne devono seguire i buoni esempi e le giuste esortazioni".


Il discorso si è poi spostato sulla società. "La nostra società - ha detto in particolare - ha bisogno di cittadini onesti, buoni, generosi, compassionevoli". Sta alle famiglie forgiarli nel modo più giusto.


Il beato Sopocko consegna però un suo messaggio particolare anche ai sacerdoti:  "Siano instancabili nello zelo pastorale. Egli invita - ha ricordato l'arcivescovo Amato - i sacerdoti ad avere un cuore buono e misericordioso; a essere pazienti, miti, accoglienti; a essere perseveranti nella catechesi ai bambini, ai giovani, agli adulti; a essere disponibili nell'indispensabile ministero del perdono nel sacramento della riconciliazione. Oggi, più che mai, i fedeli hanno bisogno di aprire il loro cuore al confessore per riceverne conforto, perdono e benedizione. La gioia più profonda dei cuori deriva dal perdono sacramentale. Il confessionale sia la cattedra più importante del magistero sacerdotale. Cari sacerdoti, siate generosi nel perdono. Così agiva il beato Michele Sopocko. In tal modo ha potuto restituire a tanti cuori la serenità della vita".


Riferendosi poi a quanta parte egli ha avuto nel guidare alla santità una giovane suora, Faustina Kowalska, monsignor Amato ha aggiunto:  "Se compito indispensabile di ogni sacerdote è quello di dispensare la misericordia divina sulle miserie umane, è anche suo compito dirigere e guidare le anime dei laici e dei consacrati sulla via della perfezione cristiana. Nell'oceano delle opinioni oggi il sacerdote è chiamato a nutrirsi della parola di Gesù per offrire ai fedeli la verità su Dio e sul destino dell'umanità. In un mondo dalle mille opinioni è difficile discernere la verità, perché nessuno ce la indica con chiarezza e autorità. Spetta ai sacerdoti mostrare la verità del Vangelo alla nostra umanità spaesata. Spetta a loro guidare i giovani alla luce e alla gioia della verità che è Gesù Cristo per diventare buoni cristiani e onesti cittadini".


E a proposito del Vangelo ha ricordato che esso "non è un impedimento alla felicità umana, anzi è il libro della gioia, della vita che vince la morte, della luce che disperde le tenebre. Nella complessità della cultura contemporanea la Chiesa ha bisogno di sacerdoti che sappiano essere maestri di vita spirituale, guide esperte nel discernimento di ciò che è buono e di ciò che è giusto. Giovani e adulti oggi hanno bisogno di uomini saggi, che orientino la loro libertà a scelte coerenti col Vangelo. In un mondo di falsi profeti, che pubblicizzano le loro fatue soluzioni di vita, il sacerdote deve esercitare con umiltà e perseveranza il ministero di pastore delle anime, praticando una vera e propria paternità spirituale".


A proposito dell'importanza dei direttori spirituali nell'evangelizzazione l'arcivescovo ha detto che "Se i genitori danno la vita fisica, i direttori spirituali danno, curano e promuovono la vita spirituale. Non si nasce cristiani, lo si diventa:  "Guai a chi è solo, perché, se cade, non ha nessuno che lo rialzi" (Qo 4, 10). I direttori spirituali sono guide sperimentate per far evitare i vizi e per guidare alla virtù. In un mondo secolarizzato, come il nostro, oggi c'è più che mai bisogno di padri spirituali".


Sottolineando i compiti fondamentali della confessione e della direzione spirituale dei sacerdoti, ha proposto il beato Michele Sopocko come modello di una interpretazione eroica di questa missione. Egli, in virtù della sua instancabile attività, "nell'omelia del suo funerale - ha ricordato - fu chiamato:  "Il mostro di lavoro, l'eroe, il matto di Dio" (i, 535). Lo zelo per la salvezza delle anime lo spingeva a farsi tutto a tutti. Il fervore per la promozione della devozione e del culto alla Divina Misericordia incendiò il suo cuore e la sua mente. Fu il suo capolavoro. Non fu uno zelo scomposto, sconsiderato, ma prudente, attento, capace di riflettere".


A questo zelo sapiente si deve quel tesoro spirituale che è il Diario di santa Faustina Kowalska. È utile richiamare l'origine concreta del Diario. Sopocko fu, dal 1932 al 1941, confessore delle Suore della Madre della Divina Misericordia. Qui, nel 1933, incontrò suor Faustina come penitente. La suora però durante le confessioni si soffermava a lungo a parlare delle rivelazioni private sul culto alla Misericordia divina. Poiché queste sue confessioni duravano più del dovuto, mettendo a dura prova la pazienza delle altre consorelle che attendevano il loro turno per confessarsi, il beato ordinò a suor Faustina di essere più discreta in confessione, di mettere per iscritto le sue esperienze e di consegnargliele. In tal modo nacque il Diario.


"Il beato - ha detto in proposito il prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi - non credette subito al carattere soprannaturale di queste manifestazioni. Dopo un lungo discernimento prudenziale e dopo accurata analisi teologica, giunse alla convinzione della loro autenticità. Non solo, ma anch'egli si dedicò alla diffusione del culto alla Divina Misericordia, fondando la Congregazione delle Suore di Gesù Misericordioso.


"In tal modo - ha concluso la sua omelia monsignor Amato - il Cuore misericordioso di Gesù ha forgiato due apostoli della carità divina:  santa Faustina Kowalska e il beato Michele Sopocko. E invita anche noi a essere testimoni di perdono, donato e ricevuto, grati a questi due santi apostoli, che hanno diffuso il messaggio evangelico non solo nella loro nobile patria polacca, ma in tutta la Chiesa e in tutto il mondo".


domenica 28 settembre 2008

mercoledì 24 settembre 2008

L'OSSERVATORE ROMANO Edizione quotidiana 25 settembre 2008

L'intervento alla conferenza anglicana-cattolica a Lourdes

Il ruolo di Maria

nell'unità della Chiesa






Si svolge mercoledì 24 a Lourdes il pellegrinaggio comune anglicano e cattolico, partito dal santuario di Nostra Signora di Walsingham, in Gran Bretagna. Il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, ha presieduto una celebrazione presso la Grotta delle apparizioni. L'omelia è stata pronunciata dall'arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, primate della Comunione anglicana. Nell'ambito del pellegrinaggio è stata prevista una conferenza sul ruolo di Maria nell'unità della Chiesa, durante la quale sono intervenuti il primate anglicano e il cardinale. Pubblichiamo quasi integralmente il testo del porporato.




di Walter Kasper


Lourdes è conosciuta per i suoi miracoli; oggi, anche noi siamo testimoni di un miracolo particolare. Chi avrebbe potuto immaginare solo venti o trenta anni fa che - come avviene oggi - dei pellegrini cattolici e anglicani avrebbero compiuto insieme un pellegrinaggio dal santuario nazionale di Nostra Signora a Walsingham, in Gran Bretagna, a questo luogo di pellegrinaggio mariano, riconosciuto internazionalmente, per la celebrazione del 150° anniversario delle apparizioni di Nostra Signora, e che in questa occasione un cardinale cattolico e l'arcivescovo di Canterbury, capo della Comunione anglicana, e altri sette vescovi anglicani avrebbero pregato insieme? Per quanti conoscono i dibattiti e le polemiche del passato riguardo Maria tra i cattolici e i cristiani delle Chiese non cattoliche, per quanti conoscono le riserve nel mondo non cattolico verso i luoghi mariani di pellegrinaggio come Lourdes, per tutte queste persone l'evento odierno, che non ha precedenti, è una sorta di miracolo.


Certo, possiamo perfino dire che tutto il movimento ecumenico potrebbe essere considerato un miracolo. Dopo secoli di divisione e spesso d'inimicizia tra i cristiani di molte denominazioni, i nostri tempi moderni hanno segnato l'inizio di un pellegrinaggio comune verso l'unità per la quale Gesù Cristo ha pregato alla vigilia della sua morte, quando ha chiesto al Padre che tutti i suoi discepoli fossero una cosa sola. Il concilio vaticano ii ha giustamente affermato che il movimento ecumenico non è un'impresa e uno sforzo meramente umano, bensì un impulso dello Spirito Santo per rispettare il testamento di Gesù al termine della sua vita terrena. Pertanto, dal concilio vaticano ii, la Chiesa è in missione per l'unità di tutti i cristiani, come sottolineate con il vostro pellegrinaggio, e mi congratulo con voi per questa splendida iniziativa.


Riflettiamo dunque questo pomeriggio su un tema che non è comune od ovvio tra gli ecumenisti, ma che ciononostante è importante. Parliamo di Maria e dell'unità della Chiesa, di Maria e del movimento ecumenico verso la piena e visibile unità.


Non si tratta di una questione insormontabile come qualcuno potrebbe pensare. La devozione mariana è esistita in tutti i periodi della storia della Chiesa, come Nostra Signora stessa aveva profetizzato:  "D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata"! Come cattolici condividiamo la venerazione per Nostra Signora specialmente con i nostri fratelli e con le nostre sorelle ortodossi, che in molti splendidi inni la lodano come Theotokos (Madre di Dio), Aeiparthenos (Sempre Vergine) e Panhagia (Tutta Santa).


Ma la devozione mariana esisteva anche al tempo della Riforma. Nel 1521 Martin Lutero ha scritto un testo splendido e ammirevole sul famoso cantico di Maria, il Magnificat, testo che solo 17 anni dopo è stato pubblicato anche in inglese. Lutero per tutta la vita ha venerato con fervore Maria, che professava, con i Credi antichi e i concili della Chiesa indivisa del primo millennio, come vergine e Madre di Dio. Era critico solo riguardo ad alcune pratiche, che considerava abusi ed esagerazioni. Esistono anche molti altri testi dei riformatori del XVI secolo, che nel secolo scorso sono stati raccolti e pubblicati con il titolo Das Marienlob der Reformatoren (La lode mariana dei riformatori, 1987).


Nella Riforma inglese del XVI secolo osserviamo lo stesso fenomeno. Sebbene il santuario medievale di Our Lady of Walsingham, risalente all'xi secolo, fosse stato tristemente distrutto per ordine di re Enrico viii, i riformisti inglesi continuarono ad accettare la dottrina della Chiesa antica riguardante Maria - Maria come sempre vergine, come Madre di Dio - perché consideravano queste dottrine sia scritturali sia corrispondenti alla tradizione antica comune. Pertanto, il Libro della preghiera comune anglicano del XVI secolo conservò le solennità mariane tradizionali dell'anno liturgico:  Concezione di Maria, Natività di Maria, Annunciazione, Visitazione e Purificazione o Presentazione.


Purtroppo - specialmente dal tempo dell'Illuminismo - negli ambiti protestanti, e anche in alcuni ambiti anglicani, ha prevalso principalmente uno spirito noto come minimalismo mariologico. Nostra Signora è stata spesso trascurata e le testimonianze bibliche su di lei sono state ignorate; alcuni hanno perfino ritenuto di dover completare la riforma rifiutando ciò che i riformatori ancora conservavano dell'antica e comune tradizione.


Ai nostri giorni, attraverso una lettura e una meditazione rinnovate e nuove delle Sacre Scritture, osserviamo un cambiamento lento ma decisivo. Oggi, non sono poche le donne evangeliche e anglicane che scoprono Maria come loro sorella nella fede. Nel Catechismo evangelico per adulti, testo ufficiale tedesco, pubblicato esattamente venti anni fa, nel 1988, si trova l'interessante e in qualche modo sorprendente affermazione:  "Maria non è solo "cattolica"; è anche "evangelica"". È evangelica perché appare nell'Evangelio, nel Vangelo. Un'altra dichiarazione luterano-cattolica, Communio sanctorum (La comunione dei santi, 2000) e una dichiarazione del famoso Gruppo di Dombes in Francia, Maria nel disegno di Dio e nella comunione dei santi (1997), hanno approfondito questa prospettiva e hanno portato a un ulteriore progresso nella comprensione e nel credo comune.


Infine, in questo contesto riveste una particolare importanza l'ultimo documento, una dichiarazione di accordo della Commissione internazionale anglicana-cattolica romana (Arcic), pubblicata nel 2004, che ha il titolo significativo di Maria:  grazia e speranza in Cristo. Mentre questa dichiarazione di accordo non ha ottenuto il pieno consenso, vi è stato però un consenso sorprendentemente alto sul posto speciale di Maria nella storia della salvezza, nella vita della Chiesa e nel discepolato cristiano.


Questa breve descrizione dei nostri dialoghi ecumenici ci dice:  Maria non è assente, è presente nel dialogo ecumenico; le Chiese hanno compiuto progressi nel riavvicinamento riguardo alla dottrina su Nostra Signora. Nostra Signora non ci divide più, ma ci riconcilia e ci unisce in Cristo suo Figlio. Specialmente il risultato del nostro dialogo anglicano-cattolico, tenendo conto delle deplorevoli agitazioni e delusioni in altri ambiti dei nostri rapporti, può essere considerato un segno positivo e incoraggiante di speranza, forse perfino un piccolo miracolo, dono del quale non potremo mai ringraziare abbastanza il Signore. Vi è motivo per sperare che Nostra Signora ci aiuti a superare le difficoltà attuali nei nostri rapporti, di modo che con l'aiuto di Dio possiamo continuare il nostro pellegrinaggio ecumenico comune, che abbiamo iniziato su impulso dello Spirito di Dio e che finora è stato benedetto da tanti buoni frutti. Sono davvero convinto che, come spesso è accaduto in passato, anche ai nostri giorni e in futuro Maria sarà l'aiuto dei cristiani nelle situazioni di bisogno, come lo sperimentiamo oggi nel nostro pellegrinaggio ecumenico.



Di seguito non intendo illustrare per intero tutti i documenti menzionati sopra, e ancor meno illustrare l'intero dibattito teologico riguardo la dottrina su Maria nel contesto ecumenico attuale. Desidero qui trattare il tema "Maria e l'unità della Chiesa" solo da una prospettiva cattolica, e posso farlo soltanto in modo frammentario. Ma prenderò qualche spunto dal titolo del sopra menzionato documento d'accordo anglicano-cattolico Maria:  grazia e speranza in Cristo. Questo titolo, infatti, ci dice che Maria è un segno unico e una testimonianza unica di ciò che è il centro e il cuore della Buona Novella del Vangelo. È un segno unico e una testimonianza unica di ciò che è fondamentale per il discepolato cristiano. Infine, rappresenta ciò che oggi ci manca e di cui abbiamo più bisogno:  grazia e speranza, grazia e speranza anche nel cammino verso l'unità della Chiesa:  grazia e speranza.


Anzitutto la grazia. All'inizio del suo Vangelo, Luca ci parla dell'annunciazione della venuta nella carne del Figlio di Dio nel nostro mondo. L'angelo saluta la Vergine Maria:  "Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te". Nel testo greco leggiamo:  ti saluto Maria, kecharismene, che in inglese spesso viene tradotto come "tu sei prescelta", ossia Dio ha un particolare riguardo per te, ti ha preferita e ti ha scelta dall'eternità, ti ha benedetta e ti ha preparata con la pienezza della sua grazia affinché, senza macchia di peccato, fossi pronta per la tua vocazione e per la tua missione unica di diventare la Madre del Signore, Figlio di Dio e Salvatore di tutti gli uomini. Con te, la salvezza del mondo entra nella fase finale; tu, piena di grazia, sei l'alba della nuova umanità, della nuova creazione.


Guardare a Maria significa proiettare la nostra mente verso l'eternità e vedere il disegno eterno di Dio per la salvezza degli uomini e conoscere la grazia abbondante di Dio, con la quale non ha voluto che, dopo la caduta nel peccato e tutte le sue tragiche conseguenze, l'alienazione tra uomini e donne, tra i diversi gruppi etnici, l'alienazione dentro di noi derivante dall'alienazione da Dio, fossimo perduti per sempre. Solo attraverso il sì che Dio dice a noi e al mondo, solo per la Sua grazia l'umanità può sopravvivere.


In questo piano eterno di salvezza Maria trova il suo posto e la sua missione. Al momento dell'annunciazione ha rappresentato indirettamente tutti gli uomini. Con il suo sì - "sì, eccomi, sono la serva del Signore" - con questo suo sì, il sì eterno di Dio ha potuto compiersi nel nostro mondo. Ella ha pronunciato questo umile sì a nome di tutti noi, a nome di tutta l'umanità. Ma non lo ha fatto per se stessa, così come non ha fatto nulla per se stessa, bensì come la kecharismene, benedetta e piena di grazia. Così ha potuto magnificare Dio:  "L'anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore".


Pertanto, Maria è segno, testimonianza, profeta e destinataria della grazia di Dio. Ci dice:  nulla è possibile, niente può essere fatto, né noi né il mondo potremmo sopravvivere, senza la grazia di Dio. Per tutto ciò che siamo dobbiamo ringraziare Dio; per tutto dobbiamo lodare Dio, nostro creatore e nostro redentore. Anche noi dobbiamo gioire del misericordioso sì che dice a ciascuno di noi. Esistiamo inoltre solo per grazia. In ogni momento della nostra vita Dio deve dirci:  sì, voglio che tu sia. E per giunta non veniamo salvati dai nostri modesti meriti e sforzi, dal nostro comportamento morale o dalle nostre azioni umane più o meno corretti, ma solo dalla grazia, sola gratia. Su questa verità fondamentale i cattolici, gli anglicani e i protestanti non hanno più controversie; su questa verità fondamentale possono testimoniare e annunciare insieme a un mondo che ha bisogno di questo messaggio, poiché sbaglia quando crede che con le nostre capacità scientifiche e tecniche possiamo realizzare da soli la nostra felicità. No, non siamo noi gli artefici della nostra felicità. Viviamo e veniamo salvati dalla grazia.


Ciò che è vero per ciascuno di noi è vero anche per tutta la comunità dei credenti, per la Chiesa. La Chiesa non è soltanto un corpo costruito socialmente, non è soltanto il risultato della disponibilità umana a vivere, a lavorare e a stare insieme. Se la Chiesa avesse dovuto sopravvivere solo con le sue potenzialità umane sarebbe crollata già molto tempo fa. No, la Chiesa esiste e vive perché, rappresentata da Maria, è la kecharismene, la prescelta, l'eletta, convocata, benedetta e colmata di grazia dal Signore. Come Chiesa siamo il popolo di Dio e il suo tempio.


Pertanto, non possiamo fare, organizzare o manipolare l'unità della Chiesa. La piena unità, che cerchiamo e per la quale preghiamo, è - come tutta la storia della salvezza - opera di Dio, dono di Dio e grazia di Dio. Pertanto, il cuore e il centro stesso dell'ecumenismo è l'ecumenismo spirituale, che rende nostra la preghiera pronunciata dal Signore alla vigilia della sua passione:  "Affinché tutti siano una cosa sola".


Il grande maestro francese dell'ecumenismo spirituale, l'Abbé Paul Couturier, ha formulato l'obiettivo del movimento ecumenico non come unità intesa come nostro progetto, ma un'unità quando, dove e come Dio vuole che sia. L'ecumenismo non dipende dai nostri progetti. È un progetto di Dio. Non siamo noi a dominare questo processo. Ma sappiamo che chiunque prega nel nome di Cristo può essere certo che la sua preghiera verrà esaudita. Il fare nostra la preghiera di Cristo per l'unità dei suoi discepoli contiene la promessa che l'unità verrà, quando, dove e come la suprema provvidenza di Dio ha disposto.


Questo mi porta al prossimo punto. Maria - come abbiamo detto - è segno e testimonianza del sì di Dio al nostro mondo, a ciascuno di noi e alla Chiesa. Ora, però, dobbiamo completare questa prima tesi con una seconda. Maria ha risposto al sì di Dio con il proprio sì. "Eccomi, sono la serva del Signore". Così, come Madre di Dio, è diventata l'ingresso di Dio nel nostro mondo. Ha donato Gesù Cristo a noi e a tutta l'umanità. Ma l'essere madre non si conclude col dare alla luce un bambino; una madre rimane madre per sempre. Quindi Nostra Signora ha accompagnato con la sua maternità tutta l'esistenza del Figlio sino alla fine della sua vita terrena. Con tristezza, lo ha cercato quando, dodicenne, sembrava essersi perso, e lo ha seguito fino alla croce. È rimasta sotto la croce a soffrire con Lui e aggiungendo la propria sofferenza alla sua, diventando la Madre addolorata. Non stava ai piedi della croce solo fisicamente, poiché con lei c'era il sì che aveva pronunciato in principio. Rimase fedele alla sua vocazione e alla sua missione.


Anche sotto questo aspetto Maria è un esempio, un modello, una forma del nostro discepolato. Dio chiede il nostro sì in risposta al suo sì; Dio vuole che - ispirati, sostenuti e rafforzati dalla sua grazia - siamo collaboratori e cooperatori nella sua opera salvifica. O, come afferma sant'Agostino:  "Lui, che ci ha creati senza di noi, non ci redime senza di noi". Ognuno di noi ha una vocazione e una missione personale, il proprio carisma, ognuno ha il proprio posto. Di solito, non sempre si tratta di vocazioni grandi, comunemente riconosciute, potenti o spettacolari. Maria non rappresenta i potenti, i superbi e i ricchi; rappresenta i piccoli, gli indifesi, i poveri, i miti, gli umili. È tenera con i malati e i disabili, è tenera anche con i peccatori. Tutti questi sono figli di Dio. Quindi ciascuno di noi ha il proprio compito, il proprio slancio nel mondo e nella Chiesa per la realizzazione del piano salvifico di Dio.


Ciascuno di noi ha anche la missione di lavorare per realizzare l'ultima volontà di Cristo, l'unità dei suoi discepoli. Esistono molti modi per cooperare, più di quelli che pensiamo normalmente:  con la preghiera, come già abbiamo detto, con la sofferenza, con una vita di purezza e di santità, con il dialogo della vita e dell'amore, con l'interesse e il rispetto per la fede degli altri cristiani, con la solidarietà anche con i problemi interni delle altre comunità cristiane, come fratelli e sorelle in Cristo dobbiamo aiutarci gli uni gli altri. Poi possiamo cooperare testimoniando la nostra fede cattolica e spiegando con pazienza e amore la nostra posizione quando gli altri hanno difficoltà a capirla. In tal modo possiamo imparare gli uni dagli altri, cosa che Papa Giovanni Paolo ii ha definito uno scambio non solo di idee, ma anche di doni. In tutto questo non dobbiamo dimenticare che l'unità può essere realizzata con l'amore e con la verità. Queste sono strettamente collegate tra di loro. La verità senza amore può essere dura e ripugnante, ma l'amore senza verità diventa disonesto. Quindi dobbiamo dire la verità nell'amore, cioè non con arroganza, ma con rispetto, sensibilità e pazienza.


Infine, possiamo e dobbiamo testimoniare insieme ciò che abbiamo in comune, che è di più di ciò che ci divide. Il mondo attuale ha bisogno della nostra testimonianza comune. E quando parliamo insieme, la nostra voce è molto più convincente. Pertanto, ogni volta che è possibile, dobbiamo parlare con una sola voce e dobbiamo lavorare insieme per la venuta del Regno di Dio nel nostro mondo.


Permettetemi ora di arrivare all'ultimo punto, che è forse quello più importante. Siamo partiti dall'annunciazione, l'inizio della missione di Nostra Signora. Ora guardiamo alla fine della vita terrena di Gesù:  Maria ai piedi della croce. Dalla croce Gesù vede sua Madre e il discepolo che ama e pronuncia le famose parole "Donna, ecco il tuo figlio", e al discepolo:  "Ecco la tua madre".


Il discepolo che Gesù ama, nel quarto Vangelo rappresenta tutti i discepoli. Rappresenta tutti noi. Quindi Gesù, quando ha lasciato questo mondo, non ha voluto lasciarci orfani. Ci ha lasciato sua Madre come Madre di tutti noi. In un certo senso, e in senso correttamente inteso, l'ha resa Madre della Chiesa. E poiché normalmente la madre è il centro dell'unità della famiglia, anche Nostra Signora è stata resa Madre dell'unità della Chiesa.


In primo luogo - come ci ha detto il concilio vaticano ii facendo riferimento a un'espressione di sant'Ambrogio - ella è il typos, il modello dell'unità della Chiesa. Prima tra tutti i discepoli di Cristo, rappresenta ciò che la Chiesa è o dovrebbe essere:  il sì indiviso dei fedeli al sì di Dio in una vita di purezza e di santità, una vita di preghiera e di amore. Ella ci dice che cosa fare. Alle nozze di Cana in Galilea dice ai servi:  "Fate quello che vi dirà!". Non indica se stessa, bensì Gesù!


Quali altre ragioni, infatti, vi sono state e continuano a esservi per le divisioni nella Chiesa se non che non abbiamo vissuto e ancora non viviamo come ci dice Gesù, se non che il nostro amore e la nostra fede sono stati indeboliti. Anche oggi vi sono divari crescenti perché molti non ascoltano ciò che ci dicono Gesù e le Sacre Scritture, bensì ciò che appare piacevole nella cultura moderna e post-moderna. Ogni volta che il pensiero secolare e i parametri di questo mondo intaccano la Chiesa, l'unità della Chiesa è in pericolo. Maria ci guida non verso ciò che è gradito a tutti, ma talvolta ci conduce anche ai piedi della croce. Pertanto, non esiste altro mezzo per tracciare nuovamente il cammino verso la piena unità dell'essere come Maria, cioè seguaci decisi di suo Figlio. Troveremo l'unità della Chiesa attraverso l'unità con Lui; e nella misura in cui siamo uniti a Lui, saremo uniti anche tra di noi. Dunque, scegliamo Maria come esempio, come modello e come tipo della nostra vita e della vita della Chiesa, e in tal modo compiremo dei passi avanti nel nostro pellegrinaggio ecumenico.


In secondo luogo, Maria è Madre della Chiesa e dell'unità della Chiesa perché intercede instancabilmente per noi presso suo Figlio. A lei possiamo affidare le nostre preghiere. So che questo è un punto difficile per i nostri fratelli e sorelle protestanti e anche per molti anglicani. Hanno difficoltà a comprendere l'intercessione dei santi e anche l'intercessione della regina di tutti i santi. Temono che con le nostre preghiere a Maria e ai santi il ruolo e il posto unico di Cristo come unico e vero capo della Chiesa e come unica sorgente di ogni grazia, potrebbero essere messi in discussione.


Il concilio vaticano ii ha ribadito che la nostra venerazione per Nostra Signora e la nostra fiducia in lei non sminuisce né mina, bensì vuole mettere in evidenza Cristo, come capo unico e unica sorgente di grazia. E Maria non vuole essere per niente lontana da Cristo o senza di Lui; ella è il suo primo discepolo e l'umile ancella di Dio. Ma come qualsiasi madre intercederebbe per i propri figli, e così come ogni madre, dopo la propria morte, intercederebbe in cielo e dal cielo, anche Maria accompagna la Chiesa nel suo pellegrinaggio e nel suo viaggio, spesso in un mare tempestoso, con la sua sollecitudine materna. E sono convito che accompagni anche la Chiesa nel suo cammino e nel suo pellegrinaggio verso la piena comunione. In lei, nostra Madre, possiamo confidare. Sta con noi ai piedi della croce e sente con tutti noi la sofferenza delle nostre divisioni; ci guida dal venerdì santo alla Pasqua e alla vita nuova e alla luce della Pasqua. È la Madre della speranza.


Abbiamo iniziato dicendo che Maria è per noi testimonianza di grazia e speranza. Pertanto, per concludere, consentitemi di dire qualche parola sulla speranza. Maria è la donna della speranza benedetta. Con lieta speranza ha portato suo Figlio in grembo, al di là della montagna, da sua cugina Elisabetta. Ai piedi della croce non ha ceduto alla disperazione; non è scappata come, con l'eccezione di Giovanni, hanno fatto tutti i discepoli uomini. Risoluta, è rimasta ai piedi della croce perché credeva che a Dio nulla è impossibile. Così, con le altre donne, era tra gli apostoli e i discepoli dopo l'ascensione del Signore a pregare per lo Spirito promesso. È rimasta sino alla fine la donna della speranza per la venuta finale del regno di Dio. Sapeva:  non saranno le forze del male, dell'ingiustizia, dell'odio e della falsità, ma solo Dio a dire l'ultima parola, e allora la giustizia prevarrà sull'ingiustizia, l'amore prevarrà sull'odio e la verità prevarrà su ogni falsità.


Questa speranza, fondata non su un ottimismo superficiale ma sulla fedeltà di Dio, è ciò di cui abbiamo bisogno nel nostro pellegrinaggio ecumenico. Non possiamo fuggire e arrenderci quando sorgono delle difficoltà e il successo immediato non è a portata di mano. Nell'ecumenismo, come in tutta la vita della Chiesa, dobbiamo spesso attraversare il tunnel dell'oscurità al fine di raggiungere la luce pasquale. Quindi abbiamo bisogno della speranza di Maria. La speranza è anche ciò di cui abbiamo bisogno oggi nel nostro mondo. La speranza oggi scarseggia. C'è una mancanza di prospettiva e spesso camminiamo nella nebbia e nella foschia. Ma senza speranza, nessuno, nessun popolo e nemmeno la Chiesa possono vivere; senza speranza non c'è entusiasmo, non c'è coraggio per i grandi obiettivi e le grandi aspirazioni.


Pertanto, guardiamo a Nostra Signora, la donna della benedetta speranza, impariamo da lei, seguiamola, perché indica e guida verso Gesù, suo Figlio, come luce del mondo, via, verità e vita. Ella è l'aurora e la stella del mattino che annuncia il sorgere del sole. Ci accompagna, ci aiuta, ci guida, ci incoraggia a realizzare ciò per cui Gesù ha pregato e che ci ha lasciato come suo testamento:  che tutti siano una cosa sola.


L'OSSERVATORE ROMANO Edizione quotidiana 25 settembre 2008

Un premier cattolico in Giappone




Tokyo, 24. Il cattolico Taro Aso è il nuovo primo ministro del Giappone. Lo ha deciso oggi il Parlamento di Tokyo, che ha votato la sua nomina a larga maggioranza.

Aso, sessantotto anni, ex ministro degli Esteri, ha infatti ottenuto 337 voti contro i 117 andati al leader dell'opposizione, il presidente del Partito democratico giapponese (Dpj), Ichiro Ozawa. "Per effetto del responso del voto dell'Aula, Aso è eletto primo ministro", ha detto il presidente della Camera bassa di Tokyo, Yohei Kono. Accettando l'incarico, Taro Aso - che prende il posto del dimissionario Yasuo Fukuda, al potere dal settembre del 2007 - si è inchinato quattro volte di fronte ai colleghi parlamentari in segno di ringraziamento.


Aso tecnicamente sarà il nuovo capo del Governo di Tokyo - il novantaduesimo della storia del Sol levante - solo dopo l'incontro tra il presidente della Camera bassa e quello della Camera alta, controllata dall'opposizione, dove si è votato a favore di Ozawa, anche se, non con un margine sufficiente a garantirgli il successo alla prima tornata. Secondo la Costituzione giapponese, la scelta fatta dalla Camera bassa prevale su quella della Camera alta. La data del voto anticipato non è stata, comunque, ancora resa nota dalla Commissione elettorale.


La nomina di un cattolico a primo ministro è una svolta nella politica giapponese, dove la religione non ha mai avuto particolare influenza sulla vita pubblica, ma il rispetto delle tradizioni è vissuto con grande partecipazione da tutti gli schieramenti politici. Recentemente, rompendo la proverbiale riservatezza dei politici giapponesi sulle questioni religiose, il nuovo premier ha dichiarato che la sua famiglia è cattolica da quattro generazioni.


Aso, nato a Iizuka, nella prefettura di Fukuoka (isola di Kyushu), è noto per le sue posizioni conservatrici e nazionaliste. Lunedì scorso è stato nominato presidente del Partito liberaldemocratico (Ldp). Appena dopo l'investitura, appellandosi all'unità, ha suonato le corde dell'orgoglio d'appartenenza, citando i grandi nomi dell'Ldp, come suo nonno, Shigeru Yoshida (il più prestigioso primo ministro liberaldemocratico dell'immediato dopoguerra), ma anche Nobusuke Kishi, capo del Governo nipponico dal 1957 al 1960.


Taro Aso - la cui famiglia è imparentata con quella dell'imperatore Akihito - è un personaggio decisamente simpatico e amato dalla gente. Soprannominato "ministro manga" per via della grande passione per i fumetti, di cui ha istituito anche un premio internazionale, è costantemente in testa negli indici di popolarità,  ed  è considerato una vera leggenda dalle folle di otaku (i fanatici di fumetti, cartoni animati e videogiochi) che popolano il quartiere elettrico Akihabara di Tokyo.


Durante il Governo presieduto da Junichiro Koizumi, Aso ha ricoperto l'incarico di ministro degli Interni (2003) e poi degli Esteri, dal 2005 alla caduta dell'Esecutivo guidato da Shinzo Abe (2007).


mercoledì 17 settembre 2008

Langonia (7 settembbre 2008)

"San Francesco, ti prego di dare una lezione ai frati di Sassoferrato. Snobbando Gesù Cristo, che disse “andate e ammaestrate tutte le nazioni”, ospiteranno da oggi un convegno maomettano nel loro convento in provincia in Ancona. Te lo chiedo perché tu credevi nei pugni come misura pedagogica. Tommaso da Celano racconta di quando dicesti al tuo vicario di punire i frati calunniatori mettendoli nelle mani del “pugilatore di Firenze” (il grosso e manesco frate Giovanni). “Se troverai innocente il frate accusato, infliggi all’accusatore una punizione così dura che serva d’esempio a tutti”. I frati di Sassoferrato forse non parlano male degli altri frati ma sicuramente hanno dimenticato di parlar bene di Cristo: urge una squadra di pugilatori per rimettergli in testa il Vangelo."

Valensise: Il canto del Prof. Ratzinger spiegato agli artisti (da Rémi Brague)

Parigi.Scoppiano le polemiche dopo la visita di Benedetto XVI. Se il socialista Manuel Valls accusa Nicolas Sarkozy di avere “snaturato la funzione” presidenziale, con la mano tesa al papa in termini di laicità positiva, il democristiano François Bayrou viene accusato di mendacio dai vertici dell’Ump, che ricordano come lungi dal difendere le radici cristiane nel trattato europeo egli ne fu fermo avversario. Ma è intra ecclesiam che le polemiche divampano. Benedetto XVI non è andato molto per il sottile a Lourdesquando ha rivolto ai vescovi francesi un messaggio chiaro sull’atteggiamento da tenere in una società ipersecolarizzata, richiamandoli all’ordine. “Voi siete i rappresentanti di Cristo, e il popolo cristiano deve considerarvi con affetto e rispetto”. Li ha invitati a tenere duro, senza complessi né timidezza, a insistere sulla catechesi, a resistere ai compromessi coi divorziati, sostenendo le vocazioni sacerdotali “nello stesso interesse del mondo laico”. Li ha esortati alla “pacificazione degli spiriti”, per evitare “nuove lacerazioni alla tunica di Cristo” puntando sulla “liberazione spirituale della Francia”. Era un messaggio rivolto soprattutto allo stato laico, perché guardasse la chiesa non come una delle tante comunità che compongono la società francese, ma come l’istituzione portatrice della visione cattolica. Così dunque ha messo in guardia i francesi dalla pigrizia della chiesa gallicana, segnata da un record negativo di praticanti (appena il 4 per cento della popolazione) e afflitta da una crisi inesorabile di vocazioni. “Su questo, se potessi, farei a meno di rispondere” dice il filosofo Rémi Brague, che insegna alla Sorbona. “Da decenni, si nominano vescovi dalle personalità incolori. Le cose sono un po’ cambiate col cardinale Lustiger, ma il clima generale è il disfattismo”. Eppure se gli si chiede un bilancio del viaggio del Papa, il professore, che non si è mai fatto illusioni sull’odio anticristiano e la sua particolare virulenza, invita alla prudenza: “E’ difficile dire se l’intellighenzia laica presterà ascolto al messaggio del Papa o non farà orecchie da mercante”. Poi però lui stesso insiste sulla sostanza del discorso ai Bernardini. “Il Papa ha invitato artisti, cantanti, attori e scrittori a riflettere sulle fonti dell’arte e della tecnica. Cosa c’è dietro l’‘ora’ e il ‘labora’ dei monaci medievali? Per spiegarlo, il Papa ha citato il canto monastico, ricordando che non era espressione della soggettività, ma uno sforzo per conformarsi all’armonia del mondo. Il che pone il problema dell’attività artistica, di tutto ciò che nell’uomo supera l’attività tecnica di trasformazione della natura, vale a dire, noi abbiamo ancora qualcosa da cantare e celebrare? Se l’arte in generale, e non solo la musica, è una glorificazione dell’uomo da parte dell’uomo, va a finire che l’uomo non ha più niente da dire, come dimostrano in modo spettacolare alcune tendenze dell’arte contemporanea. E così come non c’è più nulla da cantare, non c’è più nulla da festeggiare: siamo a uno stadio della civiltà in cui si festeggia solo il fatto di fare festa. E’ questa la domanda che il Papa ha posto agli esponenti del mondo della cultura. Cosa avete ancora da festeggiare? Potete fare come i monaci che cantavano la gloria di Dio, o produrre solo rumore per dire che siete soli, come un bambino che canta di notte perché ha paura del buio, o mentre cammina nella foresta per darsi coraggio?”. Resta fuori il “labora”? “Per i monaci medievali singificava perfezionare la creazione. Ma se cessa di essere un’imitazione dell’opera divina e consiste solo nella volontà della specie umana di imporre e dominare la creazione, le conseguenze sono catastrofiche”. E’ anche per questo che il Papa insiste sul ritorno alla ragione. “Combatte contro un razionalismo segretamente irrazionale, che accredita la ragione come il risultato di processi accidentali e del tutto irrazionali, come il Big bang o la selezione della specie, che favorisce la sopravvivenza dei più forti”.

Marina Valensise
© Il Foglio, 16 settembre 2008

martedì 16 settembre 2008

Solov'ev

Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa... Si provi a trovare, per la parola di Cristo a Pietro, un effetto adeguato che non sia la cattedra di Pietro; e si provi a scoprire, per questa cattedra, una causa sufficiente che non sia la promessa fatta a Pietro.
SOLOVIEV

venerdì 12 settembre 2008

domenica 7 settembre 2008

6 settembre - manifestazione contro l'aborto a Melbourne, Victoria, Australia

4500 persone presenti

Benedetto non si arrende

Non finisce di riscaldarci il cuore il papa, a mia opinione, una bendizione per la polica in Italia. Oltre che naturalmente per la Chiesa fondata da Cristo Signore.

Nell'omelia in occasione della propria Visita Pastorale a Cagliari, visita che si conclude stasera, durante lìomelia nell'ambito della Celebrazione Eucaristica sul Sagrato del Santuario di Nostra Signora di Bonaria, egli ha esortato la Chiesa e i cattolici a tornare ad "essere capaci di evangelizzare il mondo del lavoro, dell'economia, della politica", e anche che l'Italia "necessita di una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile".

A mio parere i giovani non devono avere paura della politica, devono crederci, dovrà finire questa guerra civile "fredda" (quando va bene), prima o poi, nel nostro paese. E ciò che facciamo nelle nostre parrocchie e nel nostro lavoro di evangelizzazione sul volontariato non basta.

sabato 6 settembre 2008

Paolo non è solo un genio, è anche l'espressione di un popolo - (©L'Osservatore Romano - 7 settembre 2008)

Gli ultimi studi sul rapporto tra Gesù e l'Apostolo



di Romano Penna

Gli studi più recenti sulle origini cristiane, oltre a quelli che si interessano del loro ambiente storico-culturale, si possono suddividere grosso modo in due categorie. Gli uni prendono in considerazione il fenomeno da un punto di vista globale, sia individuandone tappe cronologiche e dislocazioni geografiche, sia esaminandone i contenuti e le posizioni ideali. Gli altri insistono piuttosto o su momenti o su personaggi o su temi particolari, che hanno contribuito, ciascuno per la sua parte, a configurare da posizioni diverse l'insieme del fenomeno stesso.
Per quanto riguarda specificamente i personaggi, non c'è dubbio che, oltre a Gesù, la parte del leone la fa Paolo, che di volta in volta viene studiato in rapporto ai suoi maestri ebrei, ai primi apostoli, ai suoi collaboratori, a Giacomo fratello del Signore, e particolarmente in rapporto a Gesù stesso.
Proprio sulla relazione tra Gesù e Paolo, o tra Paolo e Gesù (a questo proposito va precisato che si intende solo il Gesù storico e non il Gesù risuscitato), si dà ormai una bibliografia vastissima, la cui catalogazione e discussione meriterebbero da sole una ricerca. A mia conoscenza, le ultimissime produzioni sono quelle di Giuseppe Barbaglio, di Jerome Murphy-O'Connor e del curatore Todd D. Still. Tra questi tre studi dico subito che quello di Murphy-O'Connor è un prodotto infelice, non solo per la bizzarra idea derivata impropriamente da Plutarco di mettere in parallelo due personaggi del tutto asimmetrici, stante il fatto che il secondo si professa addirittura doùlos del primo, ma anche perché a mio parere va a forzare i testi e, per fare ad ogni costo di Gesù un corrispettivo di Paolo, sostiene addirittura che anche lui ebbe una sorta di conversione da una primitiva fase di sostenitore zelante della Legge.
In ogni caso, resta vero ciò che scriveva Alexander J. M. Wedderburn nel 1996, cioè che "è difficile pensare nello studio di tutto il Nuovo Testamento un tema più pressante del rapporto tra Paolo e Gesù".
In realtà, questo non è altro che un capitolo della questione più ampia concernente il passaggio dalla fase gesuana a quella più propriamente cristiana. Infatti, se John Dominic Crossan ritiene di non poter trovare correttamente Gesù partendo da Paolo, è pur vero che, come osserva invece Larry W. Hurtado, se non si tiene in adeguata considerazione Paolo non si arriva a presentare correttamente la nascita del cristianesimo.
Il giudizio negativo sulla parte svolta da Paolo proprio sulla nascita del cristianesimo, diventato poi pressoché un tòpos negli studi o meglio in "certi" studi sulle origini cristiane, a mia conoscenza è stato formulato per la prima volta da Nietzsche in Aurora (del 1881). Mentre in Umano, troppo umano (del 1879) è ancora Gesù a essere considerato il "fondatore del cristianesimo" ( 85, 177), in Aurora invece egli scrive testualmente a proposito di Paolo: "È questo il primo cristiano, l'inventore della cristianità" ( 68, 53), dove però bisogna avere presente la singolare ermeneutica nietzschiana secondo cui si trattò di un passaggio dall'"evangelo" di Gesù al "dysangelo" paolino imperniato sull'odio per l'umano, che sarebbe tipico dell'ebreo.
Ancora nel 1999 uno scrittore esponente del giudaismo italiano poneva come sottotitolo a una sua biografia dell'Apostolo L'ebreo che fondò il cristianesimo.
Il più noto Georg William Wrede nel 1904, pur senza citare Nietzsche, parlerà se non altro di "secondo fondatore del cristianesimo", riconoscendo tra i due, non proprio una continuità, ma uno sviluppo. Ancora Rudolf Bultmann, ampiamente debitore della religionsgeschichtliche Schule, scorgeva nella teologia di Paolo eine neue Bildung in quanto tra Gesù e Paolo si deve calcolare il cristianesimo ellenistico, sicché la questione del rapporto tra i due si ridurrebbe semplicemente a quella tra Gesù e appunto il cristianesimo ellenistico.
I successivi studi sul giudeo-cristianesimo hanno in buona parte modificato il quadro generale, sicché, a quanto vedo, nella produzione luterana tedesca recente, quel tòpos sembra ormai abbandonato, anche se qualcuno mette di più l'accento sul fattore della discontinuità, almeno nella misura in cui è possibile ipotizzare che Paolo si collocasse in una corrente della tradizione cristiana che concedeva poco spazio alla trasmissione di dati gesuani. E in effetti, una semplice equivalenza tra i due è ben difficile da sostenere.
In tutto questo gran parlare di Gesù e Paolo si trascura spesso il ruolo decisivo, giocato dalla comunità cristiana primitiva. Perlomeno questo fattore è praticamente dimenticato o comunque bypassato da chi continua a parlare di Paolo come fondatore o inventore del cristianesimo, che semmai è rimasto un luogo comune solo in ambito giornalistico o simili. A livello di ricerca, invece, non v'è (Bultmann compreso) chi non ponga tra la trattazione della figura di Gesù e quella di Paolo un capitolo specifico dedicato alla comunità primitiva, eventualmente divisa un po' discutibilmente tra versante palestinese e versante ellenistico.
Ebbene, ciò che a me preme di evidenziare è appunto la parte svolta dal cristianesimo pre-paolino nei confronti dell'Apostolo, per dire in sostanza che, se dobbiamo proprio parlare di una eventuale "ri-fondazione" del cristianesimo, questa semmai avvenne già prima di Paolo. Altri recentemente vorrebbero enfatizzare piuttosto il ruolo specifico di Simon Pietro, che funzionerebbe come trait-d'union tra la Third Quest on Jesus e la New Perspective on Paul, in quanto egli è caratterizzato sia dal giudaismo sia anche da un sicuro rapporto storico con entrambi, Gesù e Paolo. Ma in definitiva il suo è un ruolo che si può inserire nel quadro più ampio della Chiesa primitiva. Comunque, è certamente indiscusso il fatto che il rapporto tra Paolo e Gesù non è stato diretto ma che tra di essi, un ebreo palestinese e un ebreo della diaspora ellenistica, si inframmezzò la comunità postpasquale.
Tuttavia, ciò che interessa in questa sede non è la descrizione completa del patrimonio confessionale della comunità o, meglio, delle comunità al plurale (ma si potrebbe anche usare il singolare "comunità/chiesa" da intendersi come singolare collettivo), che storicamente si interposero tra i due Ebrei. Mi interessa piuttosto considerare l'apporto che le comunità primitive diedero al formarsi dell'identità cristiana di Paolo.
Il mio punto di vista, cioè, non vuol essere quello delle comunità cristiane in quanto tali, ma quello di Paolo stesso in quanto nelle sue lettere rivela di essere stato condizionato dalla loro vita di fede. A questo proposito distinguo metodologicamente tra il Paolo anteriore all'evento di Damasco e il Paolo posteriore, in quanto ciascuna delle due fasi in modi diversi influì sulla sua conoscenza di Gesù Cristo.
Con ogni probabilità, come già accennato, Paolo non incontrò mai Gesù di Nazaret durante la propria vita terrena, anche se resta il problema suscitato da una loro effettiva contemporanea presenza a Gerusalemme, sia quando Gesù vi scendeva dalla Galilea, sia quando egli vi fu crocifisso, stante il fatto che Paolo si trovava proprio in quella città fin da quando vi si trasferì da Tarso (forse all'età del bar mitzvà) e quindi anche sul finire degli ultimi anni venti del primo secolo.
Al massimo, quindi, egli seppe di Gesù solo per sentito dire. Ed è qui che si colloca il primo decisivo influsso esercitato su di lui da quelle che egli stesso chiama "le chiese della Giudea" (1 Tessalonicesi, 2, 14; Galati, 1, 22). È precisamente da queste che egli ebbe la prima conoscenza di Gesù di Nazaret. E fu una conoscenza "secondo la carne", come scrive testualmente nella seconda lettera ai Corinzi (5, 16). Egli cioè percepì nella fede dei primi cristiani qualcosa di eccessivamente nuovo e insostenibile, che non poteva essere facilmente coniugato con il tradizionale patrimonio del popolo d'Israele. Non intendo qui parlare dello "zelo" del fariseo Paolo (cfr. Galati, 1, 14; Filippesi, 3, 6), che peraltro si inscrive in un fenomeno tipico del giudasimo del Secondo Tempio. Piuttosto è importante rendersi conto del perché abbia preso di petto il movimento che si richiamava a Gesù di Nazaret e si sia dimostrato intollerante nei suoi riguardi fino ad adottare forme di persecuzione.
A questo proposito sono state scritte pagine importanti da Terence Donaldson. Egli fa vedere bene che, se Paolo avversò il movimento cristiano, non fu perché gli fosse genericamente antipatico, ma perché là scorse dei tratti inaccettabili da un pio Giudeo in quanto incompatibili con il suo status di appartenente al popolo dell'alleanza costituito dall'adesione alla Torah rivelata da Dio.
L'unica incongruenza è che non abbiamo una documentazione che provenga direttamente dal periodo predamasceno. Ma due fattori ci confermano in questa ipotesi. L'uno è che l'evangelo paolino svincolato dalla Legge non è certamente anteriore a quell'esperienza. Infatti la consapevolezza che egli attribuisce già a quel momento (cfr. Galati, 1, 15-16a: "perché lo annunziassi tra le Genti") dimostra almeno un tendenziale superamento dei limiti storico-salvifici della Legge, la quale non è per i Gentili, tanto più che il cristianesimo prepaolino nel suo insieme, almeno quello palestinese, non è sostanzialmente intenzionato a varcare i confini di Israele. L'altro fattore è il fatto incontestabile che Paolo dimostrò uno zelo particolare nel perseguitare la comunità cristiana con l'intento addirittura di distruggerla (cfr. Galati, 1, 13-14). Il motivo per cui ciò avvenne riecheggia in alcune parole del Paolo postdamasceno, là dove egli afferma che il Gesù oggetto di fede delle prime comunità non poteva che essere collocato al primo posto per una motivazione di tipo teologico attinente al patrimonio ideale della fede israelitica oppure per una motivazione di tipo piuttosto sociologico correlata all'emergere di un gruppo deviante all'interno di una comunità precostituita.
Generalmente, "il giudaismo del Secondo Tempio era caratterizzato da un considerevole grado di tolleranza verso partiti, sette e altri movimenti dai punti di vista diversi. Solo quando la presenza e le attività di tali gruppi rompevano l'equilibrio sociale ed erano percepiti come minaccia alla comunità costituita e alle sue linee di demarcazione, veniva intrapresa un'azione di persecuzione per preservare le delimitazioni sociali e proteggere la solidarietà di gruppo".
Ma ciò significa che doveva esserci in gioco qualcosa di troppo importante. Questo "qualcosa", nel caso di Paolo, non poteva essere altro che una minaccia alla Torah e quindi alla comunità che si definiva in base all'obbedienza ad essa. Non per nulla, il gruppo di Qumran - benché assolutamente settario tanto da definire "figli delle tenebre" tutti coloro che non vi appartenevano - per quanto ne sappiamo non suscitò voglie persecutorie da parte dell'establishment giudaico, poiché evidentemente non rappresentava una minaccia al criterio identitario fondamentale del giudaismo dominante.
Ebbene, la prima comunità cristiana e il suo kèrygma dovevano caratterizzarsi appunto per una centralità e una funzione particolare accordata a Gesù, proclamato Cristo e Signore, tale da non potersi accordare con il punto focale della tradizionale identità giudaica e quindi da non poter essere sopportata da un fariseo zelante come Paolo. Improvvisamente apparve che la Torah (da sola) non era più sufficiente e quindi neanche necessaria per acquisire la giustizia davanti a Dio. Una ulteriore discussione si potrebbe instaurare sull'interrogativo se il fattore determinante sia stato più la cristologia (Gesù come Signore) o la soteriologia (Gesù come Salvatore) o non piuttosto l'idea di appartenenza alla vera comunità di salvezza.
Certo è che, "se il Gesù crocifisso e risuscitato era l'Unto di Dio, allora l'associazione al popolo di Dio, o la giustizia, non poteva venire dalla Torah".
Proprio questo fu il Gesù conosciuto per la prima volta da Paolo! Probabilmente invece Paolo non ebbe contatti con la/le comunità che fanno capo alla cosiddetta fonte Q, poiché in quell'ipotetico testo mancano lògia sulla morte salvifica di Gesù e invece vi è presente una cristologia di tipo sapienziale e profetico che Paolo non dimostra di conoscere. Non dunque il maestro e profeta della Galilea fu quello conosciuto da Paolo, ma un Gesù crocifisso-risuscitato, inopinatamente confessato e venerato come decisivo identity marker di una inedita comunità che si stava impiantando all'interno di Israele. Questa comunità ormai non vedeva più "soltanto" nella Legge il proprio elemento distintivo. Un Gesù di questo tipo per il fariseo Paolo, come già accennato, non poteva che essere associato alla maledizione di cui si legge in Deuteronomio, 21, 23; 27, 26 (cfr. Galati, 3, 13) ed essere quindi assolutamente motivo di scandalo (cfr. 1 Corinzi, 1, 23; Romani, 9, 33). Certo non si può dire che la fede della prima comunità cristiana si riducesse tutta qui, poiché la sua configurazione confessionale era sicuramente molto sfaccettata. Neppure si può dire che la sua soteriologia corrispondesse già a quella poi elaborata da Paolo, essendo invece connotabile come giudeocristiana. Ma Paolo si concentrò polemicamente su questo particolare aspetto, che sul piano della caratterizzazione propria dei credenti in Cristo era quello forse più distintivo.
Come si vede, dunque, se ci fu uno slittamento confessionale a proposito di Gesù di Nazaret, questo si verificò non primariamente con Paolo, ma già con le prime chiese della Giudea. E fu subito qualcosa di rilevante a livello di configurazione identitaria. Fu, se non l'inizio, certo un inizio del parting of the ways. A questo proposito va però precisato che il fortunato sintagma coniato da James D. G. Dunn connota, semmai, non la coscienza propria della comunità dei "santi di Gerusalemme" (Romani, 15, 26), che per parte loro si sentivano certamente integrati in Israele, ma certo connota la reazione risentita di almeno una parte della comunità israelitica, di cui proprio Paolo rappresentò il fenomeno più vistoso. È dunque sulle prime chiese che occorrerebbe puntare l'attenzione per prendere atto di un secondo inizio del cristianesimo, chiedendosi eventualmente come mai ciò sia stato possibile.
E allora il discorso dovrebbe riguardare l'importanza e la natura delle prime confessioni cristiane, che vertevano sulla resurrezione di Gesù.
L'evento della strada di Damasco non fece altro che condurre a un esito imprevedibile, ma in qualche modo anche sanzionò, una esperienza che per Paolo era stata traumatica. Là si provocò un vero e proprio ribaltamento del suo convictional world. Comunque si voglia spiegare il fatto, il risultato è uno solo: colui che prima infieriva contro i discepoli di Gesù improvvisamente si trovò invece ad annunciare la sua signorìa (cfr. Atti degli apostoli, 9, 21. 28; Galati, 2, 23)!
È forse per questo capovolgimento, inaspettato e soprattutto documentato dalle fonti come per nessun altro dei primi testimoni di Gesù, che si pensò a una rifondazione del cristianesimo, naturalmente combinato con una originale operazione ermeneutica condotta poi personalmente da Paolo.
Ma ciò che importa notare in questa sede è che Paolo attesta ripetutamente nelle sue lettere una propria interessante dipendenza dalla fede delle prime comunità cristiane e dalla formulazione stessa di quella fede. Già per quanto riguarda alcuni lògia del Gesù terreno, Paolo è il primo scrittore a trasmettercene almeno qualcuno. Non sto qui a trattare la questione della conoscenza da parte sua delle tradizioni gesuane e in particolare dei detti riconducibili al Maestro galileo, eventualmente sotto forma di citazione o di riecheggiamento o di adattamento.
Benché le posizioni degli studiosi in materia siano molto diverse, una cosa è sicura: Paolo ha ricevuto l'eventuale materiale gesuano rintracciabile nelle sue lettere soltanto dalla tradizione viva delle prime comunità cristiane palestinesi, il contatto con le quali è perlomeno documentato dalla sua propria informazione di essere stato quindici giorni con Cefa a Gerusalemme, oltre che di avere visto là anche Giacomo fratello del Signore (cfr. Galati, 1, 18-19).
Ma, a parte i debiti verso le tradizioni gesuane, sono le medesime lettere paoline a permetterci di ricostruire, mediante citazioni, richiami e allusioni, la stessa fede cristiana delle origini post-pasquali, quale essa era confessata prima di lui. Sicché, proprio Paolo è praticamente l'unica fonte, o almeno la principale, che ci permette di risalire all'identità confessionale della Chiesa primitiva. A questo proposito, già alcuni anni fa si produssero alcuni studi importanti a opera di Vernon H. Neufeld e Klany Wengst, per non dire di Reinhart Deichgräber, che si preoccuparono di distinguere e catalogare le forme letterarie, nelle quali aveva preso corpo la più antica enunciazione della fede cristiana. In effetti, l'Apostolo documenta l'esistenza di confessioni/homologìe, acclamazioni e "inni" che quella fede esprimono, testimoniandola e perfino celebrandola nel canto. Non è mia intenzione dare qui l'elenco di questa documentazione e tantomeno analizzarla esegeticamente. Ritengo sufficiente rimandare ad alcune di queste forme e ai rispettivi passi epistolari.
Per quanto riguarda le confessioni di fede, altrimenti etichettate anche come "il credo" o kèrygma, la loro caratteristica è la proclamazione degli eventi salvifici incentrati sulla figura di Gesù Cristo. Ricordo solo due di queste formule: 1 Corinzi, 15, 3-5 ("Vi ho trasmesso ciò che anch'io ho ricevuto, che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e poi ai Dodici") e Romani, 1, 3b-4a ("nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito figlio di Dio in potere secondo lo Spirito di santità dalla risurrezione dei morti").
Esse convergono unicamente nella confessione della resurrezione di Gesù, ma per il resto si differenziano e comunque ognuna delle due presenta un proprio schema ermeneutico di base (rispettivamente quello del giusto sofferente e quello della intronizzazione regale). In più si potrebbero citare perlomeno Romani, 3, 25; 4, 25; 1 Corinzi, 8, 6; 2 Corinzi, 13, 4; 1 Tessalonicesi, 4, 14.
Quanto alle acclamazioni, esse sono incentrate sulla dichiarazione solenne di Gesù/Cristo come Kyrios. Molto più brevi delle homologhìe, esse con ogni probabilità non sono destinate all'esterno della comunità cristiana ma appartengono a momenti celebrativi-cultuali della sua vita interna. Tali sono le frasi che leggiamo in 1 Corinzi, 12, 3 ("Nessuno può dire "Signore Gesù", se non nello Spirito Santo"); Romani, 10, 9 ("Se confesserai con la bocca che Gesù è Signore"); Filippesi, 2, 11 (ogni lingua confessi che Gesù è Signore"). Anzi, Paolo addirittura definisce i cristiani come "coloro che invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo" (1 Corinzi, 1, 2). D'altronde, l'attribuzione al Gesù glorificato della qualifica aramaica di mâr/mârâ' (1 Corinzi, 16, 22) dice con chiarezza che si tratta di una venerazione di antica ascendenza proto-cristiana.
Anche la innologia proto-cristiana è documentata da Paolo.
A parte l'informazione generica che egli ci dà in 1 Corinzi 14, 26 ("Quando vi radunate ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione"), qui mi riferisco in particolare al brano di Filippesi, 2, 6-11, che ritengo essere con ogni probabilità pre-paolino e che in quanto tale può essere considerato "il più antico esempio di una composizione innica cristiana", anche se la sua qualifica formale di "inno" verosimilmente non è adeguata. Certo vi manca l'interpretazione soteriologica della morte di Cristo (e proprio questo a mio parere è un indizio pesante sulla pre-paolinità del testo), ma la doppia confessione della sua pre-esistenza e dell'ottenimento di una kyriòtes/signoria da parte del crocifisso, equiparabile solo a quella divina, dà ragione a quanto scrive Martin Hengel: "L'"apoteosi del crocifisso" deve essere giunta a compimento già negli anni Quaranta, onde si ha la tentazione di affermare che nel giro di neanche due decenni il fenomeno cristologico è andato incontro a un processo le cui proporzioni sono maggiori di quelle più tardi raggiunte durante i successivi sette secoli".
Dunque, non si può pensare a Paolo senza includere necessariamente nella formazione della sua identità cristiana il ruolo decisivo svolto da coloro che egli riconosce esplicitamente essere stati in Cristo prima di lui (cfr. Romani 16, 7: hoì kaì prò emoù gègonan en Christòi, a proposito della coppia Andronico e Giunia!).
Altra cosa è poi riconoscere che Paolo non si è limitato a fare il ripetitore e che invece ha elaborato l'evangelo primitivo con una propria ermeneutica, che dimostra indubbiamente l'apporto di una personale genialità.
In effetti, come ebbe a scrivere a suo tempo Albert Schweitzer, "Paolo ha assicurato per sempre nel cristianesimo il diritto di pensare (...). Egli non è un rivoluzionario. Parte dalla fede della comunità, ma non ammette di doversi fermare dove quella finisce (...) Egli fonda per sempre la fiducia che la fede non ha nulla da temere dal pensiero (...) Paolo è il santo protettore del pensiero nel cristianesimo"! Forse senza saperlo, con queste parole Schweitzer di fatto riformulava, applicandolo a Paolo, ciò che già aveva affermato Agostino in termini più generali: "Se la fede non viene pensata, è come se non ci fosse".
Ma non credo che questo basti per fare dell'Apostolo un altro fondatore del cristianesimo, altrimenti chissà quanti ne dovremmo calcolare!



(©L'Osservatore Romano - 7 settembre 2008)

La continuità della liturgia per resistere alla persecuzione sovietica

Trent'anni fa moriva il Patriarca Nikodim, metropolita di Leningrado e Novgorod

di Adriano Roccucci

Sono passati trent'anni dalla scomparsa del metropolita di Leningrado e Novgorod, Nikodim (Rotov), che il 5 settembre 1978 morì a Roma durante l'udienza concessagli dal neoeletto Giovanni Paolo i. La figura del metropolita, protagonista della vita dell'ortodossia russa nei difficili anni Sessanta e Settanta, e artefice di una rete di relazioni ecumeniche che ha connesso il patriarcato di Mosca alle principali Chiese cristiane, è stata oggetto delle valutazioni più diverse. Con l'aumentare della distanza temporale si rende necessaria una interpretazione storica della sua complessa personalità e del suo ruolo nelle vicende della Chiesa russa e in quella del cristianesimo nel xx secolo.
Nikodim, negli anni della nuova offensiva antireligiosa di Chruscèëv, ritenne che le relazioni internazionali ed ecumeniche della Chiesa costituissero un'opportunità preziosa per rafforzarne il profilo di fronte allo Stato. Più il patriarcato di Mosca avrebbe stretto rapporti a livello internazionale, minore sarebbe stato il rischio di una ripresa di persecuzioni cruente, quali quelle che erano state conosciute dalla Chiesa russa negli anni Venti e Trenta: tale era la sua convinzione.
L'obiettivo congiunturale della politica sovietica era di evitare la formazione di un fronte avverso di forze religiose. Nikodim riuscì a coniugare tali interessi con esigenze di lungo periodo dell'ortodossia russa, tese a evitare il pericolo di un suo isolamento nel campo delle relazioni intercristiane. L'ingresso da protagonista del patriarcato di Mosca nei rapporti tra le Chiese cristiane, con l'adesione al Consiglio ecumenico delle Chiese e l'invio di osservatori al Concilio Vaticano ii, secondo la visione del metropolita, avrebbe spezzato l'isolamento e avrebbe posto la Chiesa russa al centro delle relazioni fra le Chiese cristiane. Nikodim, come è noto, riuscì nel suo intento e la sua strategia ebbe successo.
Tale esigenza era avvertita dalle menti più sensibili dell'ortodossia russa sin dai primi decenni del Novecento. Sono significative le parole utilizzate da padre Sergej Bulgakov, intervenendo al concilio del 1917-1918, sul ruolo che il ristabilimento del patriarcato avrebbe potuto giocare nel futuro della Chiesa russa: "Il patriarcato è il vertice della Chiesa, che si alza sopra gli steccati locali, e che vede gli altri vertici ed è visto da loro. (...) noi viviamo in un'epoca, in cui l'esistenza angusta e provinciale della Chiesa locale diviene ormai impossibile, in cui sorge una serie di questioni di carattere non solo internazionale, ma anche interconfessionale". In un articolo del 1931 Nikolaj Berdjaev si interrogava sui processi di mondializzazione dell'età contemporanea: "Viviamo in un'epoca di unioni mondiali: religiose, culturali, intellettuali, economiche, politiche" - esordiva l'articolo. Il pensatore russo continuava: "Non c'è mai stata prima d'ora una tale nostalgia di unità, un tale anelito a superare il particolarismo e l'isolamento. Questa tendenza mondiale si riscontra anche nella vita delle Chiese cristiane. La questione ecumenica è all'ordine del giorno per la coscienza cristiana (...) Bisogna accorgersi che è imminente una nuova epoca mondiale e riconoscere i nuovi compiti che il cristianesimo deve affrontare per superare il provincialismo della propria confessione".
La personalità di Nikodim è complessa. Non è solo quella di un accorto ecclesiastico che ha saputo sfruttare con abilità gli spazi concessi dal potere comunista. Il metropolita di Minsk e Sluck Filaret (Vachromeev) ha scritto di lui: "Quando pregava, celebrava, pronunciava un'omelia, si nutriva di tale "ossigeno di eternità", quale esiste solo nella Chiesa durante la liturgia". È concorde la testimonianza di quanti hanno conosciuto il metropolita sul suo amore particolare per la liturgia. Uno dei suoi primi discepoli, il metropolita Juvenalij (Pojarkov), ha ricordato: "Posso dire con certezza che in tutte le fasi del servizio pastorale il posto centrale dell'attività del metropolita Nikodim era occupato dalla liturgia", amava ripetere: "Io posso fare tutto rapidamente, tranne la liturgia". E infatti, quando compariva in chiesa, egli era come se si trasfigurasse e faceva tutto lentamente, maestosamente, con profondità, amando la magnificenza della chiesa e della liturgia".
Anche in questo caso possiamo rintracciare i fili di un legame tra l'esperienza del metropolita e le correnti profonde della storia dell'ortodossia russa. La rinascita liturgica costituisce un elemento fondamentale della vicenda della Chiesa russa nel Novecento, tanto da rappresentare una chiave di lettura di tutta la sua storia in questo secolo tormentato. La liturgia è diventata il centro della vita della Chiesa in epoca sovietica, non solo per necessità, perché era l'unica attività permessa dallo Stato. La vita liturgica è il cuore della Chiesa ortodossa, particolarmente di quella russa. E la concentrazione sulla liturgia non è stata un rifugio, ma una strategia di resistenza alla persecuzione sovietica. Sono estremamente significative le parole dette da Nikodim a un suo interlocutore occidentale: "Voi pensate che facciamo troppi compromessi? Ebbene, se ci chiuderanno tutte le chiese, se ci impediranno tutti gli assembramenti, se ci smantelleranno tutte le strutture, tutto questo lo accetterò. Chiederò soltanto un'unica cosa: che ci lascino celebrare l'ultima divina Liturgia (...) Perché, anche se non sussiste più niente, sono certo che da questa unica, ultima divina Liturgia, tutto potrà risorgere. Per il resto non voglio oppormi e contrastare: la storia ci dirà se questo è debolezza o se è, invece, fede fino alle ultime conseguenze".
La liturgia è il vero paradigma del rapporto con il mondo nella concezione ortodossa. Di fronte allo scorrere del tempo, al mutare delle situazioni essa segna il tempo della Chiesa: un tempo che sembra immobile, ma che non fa mai essere la Chiesa in ritardo con la storia. La strategia della liturgia è un tratto antico della storia dell'ortodossia, che ha mostrato la sua forza anche nel periodo della persecuzione sovietica e ha avuto nel metropolita Nikodim un suo interprete. Una Chiesa che si misura con la modernità è, secondo il suo pensiero, in primo luogo una Chiesa che rafforza la sua vita liturgica: "Io mi sono sempre impegnato - ha affermato Nikodim - per il rafforzamento della vita liturgica non solo perché ha un significato per la soddisfazione dei bisogni spirituali, ma anche perché favorisce la realizzazione della missione esterna della Chiesa, l'annuncio del Vangelo".
La vicenda ecclesiale del metropolita si è consumata tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta del xx secolo. Erano gli anni dell'offensiva antireligiosa di Chruscèëv, in Unione Sovietica, mentre nelle società occidentali arrivava come a compimento il processo di secolarizzazione che investiva ora nuovi Paesi e interrogava le Chiese.
Questo tempo di travaglio per il cristianesimo è stato segnato da grandi personalità che hanno condiviso la volontà di non sfuggire alle sfide che l'età contemporanea poneva alle Chiese. È parte non minore di questa storia la trama di relazioni che si è venuta dipanando tra gli uomini spirituali di quel tempo, i quali hanno allacciato tra loro rapporti di profonda sintonia, proprio nel comune sforzo di rispondere alle sfide poste ai cristiani. Il metropolita Nikodim è, senza dubbio, una di queste personalità, il cui itinerario si è incontrato e intrecciato con quello di Giovanni XXIII, di Paolo VI, del Patriarca Athenagoras, solo per citare alcuni nomi. Sono uomini con biografie diverse, che hanno vissuto però tutti il travaglio di un secolo difficile, che hanno sperimentato il confronto con eventi drammatici, che hanno avvertito gli interrogativi e le inquietudini di un'epoca e hanno creduto che tutto ciò non fosse estraneo alla Chiesa.
Comprendere Nikodim è anche collocarlo in tale quadro. I suoi rapporti con i protagonisti di questa stagione del cristianesimo non sono solo l'espressione della sua attività come responsabile delle relazioni esterne del patriarcato di Mosca o di particolari simpatie personali, ma riflettono anche il convergere di sensibilità spirituali maturate nel cuore delle Chiese attorno alle domande di un cristianesimo sfidato dalla storia in età contemporanea. È noto il suo rapporto con Paolo VI, con il quale si incontrò più volte. Intensa fu anche la relazione con Athenagoras. Anthony-Emil Tachiaos ha ricordato quanto dettogli dal Patriarca ecumenico: "Ho sempre difficoltà a discutere con i rappresentanti russi (...) Ma quando so che viene Nikodim, mi rallegro, perché egli sa comprendere quello che mi sta a cuore (...) Così riusciamo sempre a metterci d'accordo su ciò che ci divide, ritrovando quel che ci unisce". Il metropolita avvertiva che il senso del suo ministero fosse principalmente nel preparare il futuro della Chiesa russa. Nikodim, uomo di Chiesa, aveva detto di sé al momento della sua nomina episcopale: "Tutta la mia vita consapevole appartiene alla Chiesa". Il suo servizio non fu facile. Le parole di Nikodim riferite dall'arcivescovo Vasilij (Krivosein) sono a questo proposito significative: "Anche io avrei potuto rilasciare interviste sulla condizione della Chiesa da noi, che avrebbero fatto rumore in tutto il mondo, ma io non l'ho fatto, perché non sarebbe nell'interesse della Chiesa, le avrebbe solo nuociuto. Io so che posso entrare nella storia infangato, e ciò non mi è affatto indifferente, ma sono pronto ad andare incontro a questo per il bene della Chiesa. Non c'è altra via". È anche in questa sofferenza, fatta di contraddizioni, la grandezza di un uomo di Chiesa, che ha vissuto una delle pagine più drammatiche e difficili della storia del cristianesimo nel Novecento.



(©L'Osservatore Romano - 7 settembre 2008)

Kevin D. Dello Iacono: un raro documento su papa Pio IX

Papal Documents Exhorting Non-Catholics to Convert to the Church
Iam Vos Omnes

Apostolic Letter of His Holiness, Pope Pius IX, to all Protestants and other Non-Catholics at the convocation of the Vatican Council, September 13, 1868, that they may return to the Catholic Church (a rare historical document!)


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Surely you all are aware that We, who have been raised up, though without any merit, to this Chair of Peter, and therefore to the head of the supreme government and care of the entire Catholic Church of Jesus Christ Our Lord, have thought it opportune to call to Us the Venerable Brothers of the Episcopate of all the world, and to reunite them, in the coming year, in an Ecumenical Council; for preparation, with the same Venerable Brothers, calling you to share Our pastoral solicitude, those provisions which will prove more suitable and more incisive to dissipate the darkness of many pestilent errors which, wherever, with added damage of the soul, every day are more affirmed and triumph, and to always give more consistency and to diffuse in the Christian people, entrusted to Our vigilance, the kingdom of the true faith, of justice and of authentic peace of God.

Reposing full confidence in the most tightly bound and most amiable pact of union which in a marvelous way binds to Us and to this Seat the same Venerable Brothers, what testimony the unequivocable tests of fidelity, of love and of obedience towards Us and towards this Our Seat, [they] have never omitted to offer in the course of all Our Supreme Pontificate, we nourish the hope that, as it has happened in ages past through other General Councils, so also in the present age, this Ecumenical Council of Ours will produce, with the help of divine grace, copious and most joyous fruits for the greater glory of God and for the eternal salvation of men.

Sustained therefore by this hope, solicitous and urged by the charity of Our Lord Jesus Christ, who offered His life for the salvation of all the race of men, it is not possible for us to pass by the occasion of the future Council without turning Our paternal and Apostolic word again to all those who, even if they acknowledge Jesus Christ the Redeemer and boast of the name of Christian, do not profess the totality of the true faith of Christ and are not in the communion of the Catholic Church. This being the case, we propose with all zeal and Charity to admonish, exhort, and beseech them for this reason to seriously consider and reflect whether the way in which they continue is that which is indicated by that same Christ the Lord: which is the way that leads to eternal life.

Nobody will certainly be able to doubt or deny that this Jesus Christ, to the end that the fruits of His Redemption might be applied to all the race of men, has built here on earth, upon Peter, the only Church, which is one, holy, catholic and apostolic; and that He has conferred upon her the power necessary to preserve whole and inviolate the deposit of faith; to transmit this same faith to all peoples, tribes, and nations; to call [elect] to unity in this Mystical Body, through baptism, all men, for the purpose of preserving in them, and perfecting, that new life of grace, without which no one can merit and obtain eternal life; wherefore this Church, which constitutes the Mystical Body, will persist and prosper in her own stable and indefectible nature until the end of the ages, and offer to all Her sons the means of salvation.

Whoever thus gives proper attention and reflection to the situation which surrounds the various religious societies, divided amongst themselves and separated from the Catholic Church - which, without interruption, from the time of Christ the Lord and of His Apostles, by means of her legitimate sacred Shepherds, has always exercised, and exercises still, the divine power conferred upon Her by the Lord - it will be easy to convince [them] that in none of these societies, and not even in all of them taken together, can in some way be seen the one and Catholic Church which Christ the Lord built, constituted, and willed to exist. Neither will it ever be able to be said that they are members and part of that Church as long as they remain visibly separated from Catholic unity. It follows that such societies, lacking that living authority established by God, which instructs men in the things of the faith and in the discipline of the customs, directing and governing them in all that concerns eternal salvation, they continuously mutate in their doctrines without that mobility and the instability they find one end. Everyone therefore can easily comprehend and fully reckon that this is absolutely in contrast with the Church instituted by Christ the Lord, in which the truth must always remain constant and never subject to change whatsoever, deposited as if it were into a warehouse, entrusted to be guarded perfectly whole. To this purpose, it has received the promise of the perpetual presence and the aid of the Holy Spirit. No one then ignores that from these dissentions [disagreements] in doctrines and opinions derive social divisions, which find their origin in these innumerable communions and which are always and increasingly diffused with grave damage[s] to the Christian and civil society.

Therefore, whoever recognizes that religion is the foundation of human society must be moved to confess what great violence has been wrought in civil society by the discrepancy of principles and the division of religious societies which fight amongst themselves, and with what force the refusal of the authority willed by God for governing the convictions of the intellect of men through the direction of the actions of men, as much in private life as in social life, has provoked, promoted and fed the lamentable of the things and of the times which agitate and plague [afflict] in this way nearly all peoples.

It is for this reason that so many who do not share “the communion and the truth of the Catholic Church” must make use of the occasion of the Council, by the means of the Catholic Church, which received in Her bosom their ancestors, proposes [further] demonstration of profound unity and of firm vital force; hear the requirements [demands] of her heart, they must engage themselves to leave this state that does not guarantee for them the security of salvation. She does not hesitate to raise to the Lord of mercy most fervent prayers to tear down of the walls of division, to dissipate the haze of errors, and lead them back within holy Mother Church, where their Ancestors found salutary pastures of life; where, in an exclusive way, is conserved and transmitted whole the doctrine of Jesus Christ and wherein is dispensed the mysteries of heavenly grace.

It is therefore by force of the right of Our supreme Apostolic ministry, entrusted to us by the same Christ the Lord, which, having to carry out with [supreme] participation all the duties of the good Shepherd and to follow and embrace with paternal love all the men of the world, we send this Letter of Ours to all the Christians from whom We are separated, with which we exhort them warmly and beseech them with insistence to hasten to return to the one fold of Christ; we desire in fact from the depths of the heart their salvation in Christ Jesus, and we fear having to render an account one day to Him, Our Judge, if, through some possibility, we have not pointed out and prepared the way for them to attain eternal salvation. In all Our prayers and supplications, with thankfulness, day and night we never omit to ask for them, with humble insistence, from the eternal Shepherd of souls the abundance of goods and heavenly graces. And since, if also, we fulfill in the earth the office of vicar, with all our heart we await with open arms the return of the wayward sons to the Catholic Church, in order to receive them with infinite fondness into the house of the Heavenly Father and to enrich them with its inexhaustible treasures. By our greatest wish for the return to the truth and the communion with the Catholic Church, upon which depends not only the salvation of all of them, but above all also of the whole Christian society: the entire world in fact cannot enjoy true peace if it is not of one fold and one shepherd.

Given at Rome, from St. Peter, on the 13th of September, 1868; in the 23rd year of Our Pontificate,
Pius IX




The True Catholic Attitude of "Reaching Out" to Non-Catholics:

"But God forbid that the sons of the Catholic Church ever in any way be hostile to those who are not joined with us in the same bonds of faith and love; but rather they should always be zealous to seek them out and aid them, whether poor, or sick, or afflicted with any other burdens, with all the offices of Christian charity; and they should especiallendeavoror to snatch them from the darkness of error in which they unhappily lie, and lead them back to Catholic truth and to the most loving Mother the Church, who never ceases to stretch out her maternal hands lovingly to them, and to call them back to her bosom so that, established and firm in faith, hope, and charity, and 'being fruitful in every good work' [Colossians 1:10], they may attain eternal salvation." (Pope Pius IX, Encyclical Quanto Conficiamur Moerore, par. 9, 10 Aug. 1863; Denzinger 1678)

Pope Pius XI on "ON RELIGIOUS UNITY":

Thus, Venerable Brethren, it is clear why this Apostolic See has never allowed its subjects to take part in the assemblies of non-Catholics. There is but one way in which the unity of Christians may be fostered, and that is by furthering the return to the one true Church of Christ of those who are separated from it; for from that one true Church they have in the past fallen away. The one Church of Christ is visible to all, and will remain, according to the will of its Author, exactly the same as He instituted it. The mystical Spouse of Christ has never in the course of centuries been contaminated, nor in the future can she ever be, as Cyprian bears witness: "The Bride of Christ cannot become false to her Spouse; she is inviolate and pure. She knows but one dwelling and chastely and modestly she guards the sanctity of the nuptial chamber" (De Cath. Ecclesiae unitate. 6). The same holy martyr marveled that anyone could believe that "this unity of the Church built upon a divine foundation, knit together by heavenly sacraments, could ever be rent asunder by the conflict of wills" (ibid.). For since the mystical body of Christ, like His physical body, is one (1 Cor. xii.12), compactly and fitly joined together (Eph. iv. 15), it were foolish to say that the mystical body is composed of disjointed and scattered members. Whosoever therefore is not united with the body is no member thereof, neither is he in communion with Christ its head (Pope Pius XI, Mortalium Animos, par. 9, 6 Jan. 1928)

Dialogo sulla quaestione dell'aborto in Spagna

Auspicato dal cardinale Levada

Il porporato rattristato dal progetto di una nuova legge

Madrid, 6. La questione dell'aborto non è meramente politica, ma religiosa, culturale e sociale. Tocca le radici dell'essere umano e merita un dialogo cordiale e profondo. Lo ha affermato ieri da Santiago de Compostela il cardinale William Joseph Levada, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, commentando l'annuncio da parte del Governo spagnolo di una nuova legge sull'aborto.
Il porporato si è detto rattristato dall'iniziativa e ha sottolineato che alla sua base manca una visione della vita e della dignità di ogni persona, che comincia sin dal concepimento. Secondo il prefetto del dicastero vaticano il progetto dell'Esecutivo spagnolo si configura come autoritario.
In difesa del Governo è scesa ieri il primo vice presidente, María Teresa Fernandéz de la Vega Sanz, la quale in una conferenza stampa ha sottolineato che la legge attuale - in vigore da 25 anni - è stata superata dagli eventi e in alcuni termini può risultare ambigua. Fernández de la Vega ha assicurato che la commissione di esperti costituita per l'elaborazione del nuovo testo - annunciata dal ministro per l'Uguaglianza, Bibiana Aído Almagro - realizzerà uno studio legislativo comparato per verificare "ciò che è fallito e ciò che ha funzionato della normativa". Alcuni osservatori rilevano tuttavia come la commissione sia formata a netta maggioranza da esponenti del mondo medico e giuridico favorevoli all'aborto.
Il vice presidente dell'Esecutivo spagnolo ha anche sottolineato che la nuova legge "garantirà meglio i diritti delle donne che hanno deciso di abortire legalmente e i diritti dei medici". A questo proposito può essere rilevato come delle 101.592 interruzioni di gravidanza volontarie effettuate in Spagna nel 2006 solo il 3 per cento è stato compiuto in ospedali pubblici. È un dato ascrivibile all'obiezione di coscienza dei medici, diritto che viene sancito dalla Costituzione.
Sull'iniziativa dell'Esecutivo spagnolo la Conferenza episcopale non si è finora pronunciata, nell'attesa di conoscere i dettagli della nuova normativa. In una nota diffusa nel marzo dello scorso anno dalla sottocommissione per la famiglia e la difesa della vita, i vescovi spagnoli evidenziarono tuttavia come il Paese abbia "una tra le legislazioni del mondo che meno protegge la vita umana". Come pastori del popolo della vita - scrissero - "dobbiamo denunciare la diffusione nella nostra società di una vera cultura della morte, una visione dell'uomo che lascia senza fondamento i suoi diritti basilari e indebolisce nella coscienza sociale il valore della vita e la dignità della persona". Secondo i vescovi, nel Paese sono inoltre presenti diversi gruppi di pressione e mezzi di comunicazione sociale che promuovono l'aborto libero e l'eutanasia.

Un'interessante notizia dagli scienziati canadesi

Il Canada ha messo a punto un satellite per la sorveglianza dei corpi celesti pericolosi per la Terra 

Asteroide ti tengo d'occhio


di Maria Maggi 

Nell'estate del 1908, un piccolo asteroide si abbatté su una foresta siberiana. Passò alla storia come l'evento Tunguska. Il suo impatto ebbe la potenza equivalente di una bomba di dieci-quindici megatonnellate (oltre seicento volte la bomba di Hiroshima). La possibilità che la Terra sia colpita da corpi provenienti dallo spazio è reale. Per questo c'è, per esempio, Spaceguard, un programma per la sorveglianza degli asteroidi istituito nel 1996 dall'European space agency (Esa) con l'obiettivo di scoprire asteroidi dal diametro maggiore di un chilometro che si trovano su orbite pericolose. 
Ma ora c'è una novità. Il controllo si farà anche dallo spazio. Il Canada sta mettendo a punto un piccolo satellite per la sorveglianza degli asteroidi pericolosi per la Terra. Avrà la capacità di seguirne le traiettorie. Potrà, eventualmente, lanciare l'allarme e dare il là a missioni per disintegrare quei proiettili prima che centrino il bersaglio. 
Si tratta di un microsatellite del peso di sessanta chili, chiamato Near Earth Object Surveillance Satellite (Neoss). Il suo lancio è previsto nel 2010. Porterà un telescopio di quindici centimetri, più piccolo di quelli usati dagli astronomi dilettanti, ma che, operando tra seicento e ottocento chilometri d'altezza, sopra l'atmosfera, e orbitando da polo a polo ogni cinquanta minuti offrirà vantaggi enormi a questa ricerca. Il microsatellite non solo osserverà asteroidi e comete in avvicinamento, anche di dimensioni piccole difficilissimi da osservare da terra, ma pure i relitti della ricerca spaziale che vagano attorno al pianeta. Lo spazio sta diventando congestionato. Ci sono circa dodicimila manufatti umani in orbita intorno alla Terra e solo il quattro per cento di questi sono satelliti attivi. Il mini-telescopio potrà seguire i rottami che sono tra i quindicimila e i cinquantamila chilometri di altezza e prevedere le collisioni possibili. 
Si sa che sulla Terra cadono in media settemila meteoriti l'anno. Nella maggior parte sono così piccoli da causare danni minimi. Ma la possibilità di un evento-Tunguska c'è. La stima di frequenza di collisioni di questa portata va da una ogni duecento anni a una ogni mille anni. Gli scienziati hanno già catalogato novemilacento   asteroidi vicini alla Terra. Ma si pensa che novantacinquemila rocce spaziali di almeno centoquaranta metri di diametro - più grandi di quella che cadde a Tunguska che doveva essere tra i cinquanta e gli ottanta metri - possano incrociare l'orbita del nostro pianeta. Un impatto sarebbe devastante. Il congresso degli Stati Uniti ha incaricato la Nasa di localizzarli entro il 2020. 
Ma cosa accadde veramente in quel remoto angolo della Siberia un secolo fa? Le ricerche non hanno ancora svelato completamente il mistero del corpo celeste precipitato allora sulla Terra. La "cosa" terrificante esplose appena a nord di un corso d'acqua chiamato Tunguska "pietrosa" (Podkamennaja Tunguska), nell'altopiano siberiano, in una regione disabitata di taiga paludosa dove il suolo rimane gelato per otto o nove mesi l'anno. I testimoni più vicini al luogo dell'impatto si trovavano a una sessantina di chilometri di distanza. Il racconto del contadino Semenov, che era seduto sotto il portico della sua casa a Vanavara, fu terrificante:  "improvvisamente il cielo si squarciò in due e, in alto sopra la foresta, tutta la parte verso nord apparve coperta di fuoco. In quel momento sentii un gran caldo come se la camicia mi bruciasse addosso. Poi udii come un'esplosione in cielo e uno schianto assordante. Fui scaraventato a terra lontano dal portico e persi i sensi per qualche istante". 
Altre testimonianze parlano di scoppi violenti, di terra che tremava, di un globo di fuoco luminosissimo seguito da una scia di polveri e di fiamme con striature azzurre. Il rumore dell'esplosione fu udito a oltre mille chilometri di distanza e i fenomeni luminosi furono avvertiti fino a seicento chilometri. Al macchinista della Transiberiana, che si trovava a seicento chilometri  dal  punto di impatto, l'onda d'urto diede la  sensazione  che  il  treno  stesse  deragliando. Se un fenomeno del genere accadesse a Roma, sarebbe visto in tutta Italia e udito da Francoforte a Tripoli e da Barcellona a Belgrado. 
In seguito si calcolò che la deflagrazione abbatté ottantamilioni di alberi in un'area di duemila chilometri quadrati. Migliaia di renne perirono, ma non vi fu nessuna perdita di vite umane. L'onda d'urto fece due volte il giro del mondo e fu registrata da tutti i sismografi. Gli abitanti di gran parte dell'emisfero boreale videro nelle notti seguenti il cielo illuminato da un insolito bagliore rossastro, ma non capirono veramente ciò che era successo. Nonostante  la  portata  del fenomeno, non ci fu  reazione  da  parte  della scienza, e solo qualche giornale locale riportò la notizia dell'evento. 
Si dovette aspettare una ventina d'anni perché gli scienziati mettessero in relazione le notti chiare con il disastro della Tunguska, che aveva scaraventato nell'atmosfera fino a qualche decina di chilometri d'altezza una gran quantità di polveri, in grado di diffondere la luce solare in piena notte. 
In quell'estate del 1908 nessuno, nemmeno gli studiosi russi, sembrava interessato ad approfondire il fatto. Poi venne la guerra e la rivoluzione. Solo nel 1927 il geologo Leonid Kulik, del Museo di mineralogia di San Pietroburgo, dopo aver letto incuriosito alcuni ritagli di giornale risalenti al 1908, fu in grado di allestire la sua prima spedizione nel luogo del disastro. Ne diresse poi altre tre fino al 1939. Scoprì una vasta zona di alberi abbattuti e si convinse che la catastrofe fosse stata causata dall'impatto al suolo di un grande meteorite. I tronchi, infatti, erano caduti secondo un andamento radiale che si estendeva per chilometri, a partire da una zona centrale nella quale rimaneva un gruppetto solitario di alberi ancora in piedi parzialmente bruciati. Cercò per anni una traccia dell'oggetto venuto dal cielo, ma non ci riuscì. Le uniche tracce rilevabili erano date da una fine polvere meteorica. Con le sue spedizioni fece però conoscere al mondo ciò che poteva essere successo e alimentò il mito di Tunguska. 
In seguito si pensò all'impatto di una cometa, ma oggi si propende per la disintegrazione di un corpo roccioso, di poco più di cinquanta metri di diametro e costituto da materia leggera e poco coesa, che fu completamente vaporizzato esplodendo a ottomila metri d'altezza mentre era in volo sulla regione siberiana. Non ci fu nessun impatto al suolo, ma una violenta deflagrazione prodotta dal repentino rilascio dell'energia accumulata dal corpo celeste nell'attraversamento dell'atmosfera. 
Un probabile piccolo cratere è stato trovato in recenti esplorazioni della zona da un gruppo di scienziati italiani:  il lago Cheko, che nelle cartine militari della fine Ottocento non compariva. Potrebbe essere stato formato dall'impatto di un piccolo frammento, di un metro o poco più di diametro. La forma leggermente ellittica e a imbuto del lago, delle dimensioni di trecentocinquanta metri per cinquecento, fa pensare che una scheggia di meteorite abbia colpito il suolo con un'angolazione di quarantacinque gradi e a una velocità di un chilometro al secondo. Lo scioglimento del permafrost, avvenuto subito dopo l'impatto, e la conseguente liberazione di gas e acqua, potrebbe aver modellato la forma e le dimensioni attuali del lago. 
Quello di Tunguska non fu un evento di dimensioni straordinarie. Il nostro pianeta, nella sua lunga storia, ha sperimentato di peggio. Tunguska è diventato però il simbolo di un rischio da non sottovalutare.



(©L'Osservatore Romano - 6 settembre 2008)