L'assordante belato
che sale dal mondo
Uno dei capolavori dell'arte fiamminga - il polittico dell'Adorazione dell'agnello mistico di Jan e Hubert Van Eyck - viene presentato in un libro d'arte curato da André Pinet (La pala di Gand, Genova-Milano, Marietti 1820, 2008, pagine 113, euro 70). Pubblichiamo ampi stralci della prefazione.
di Davide Rondoni Cosa chiameremo quando diremo "agnello"? Cosa ci viene in mente, e cosa ci viene agli occhi se diciamo la parola che per secoli ha indicato l'innocente sacrificato sulla pietra, sull'altare? Che belato di bambino o dalla bocca di spastico o da che uomo invecchiato e impotente nella innocenza indecente degli anni? O che vittima tra le migliaia che ci hanno fatto piangere in questi anni bui e sfarzosi? I quattro bambini rubati in un lampo di granata la settimana scorsa? Li han fatti saltare assieme alla madre che preparava loro la colazione in una zona contesa tra guerriglia palestinese ed esercito d'Israele. A noi che Israele non siamo più, né altro popolo formatosi in pastorizia dopo diversi tipi di nomadismo o di esilio, a noi che non sentiamo mai belare nessun agnello se non quello sperduto del cuore, che vittima, che cosa viene in mente che abbia e ci passi almeno un po' di quel tremore? La madre non è morta subito, ha avuto il tempo d'esser portata all'ospedale. mentre i suoi quattro piccoli agnellini erano già stati presi dal fuoco e dal buio. Come se lei volesse avere il tempo per chiedere, per vedere se di là dal lampo tremendo ci fosse dopo il buio una tavola apparecchiata per loro quattro, e una mattina ancora.
Avremo in mente i quattro bambini che il Dio delle colazioni avrà preso con sé o quell'altra piccola di cui mi è giunta notizia, dannata da una malattia rara? Che belato ci ferirà la mente? La supplica di lei che in video piangeva d'essere risparmiata dai tagliatori di gole e non lo fu?
Perché senza sentire quel belato, l'indescrivibile voce dell'innocente, il suo viso di capretta sperduta, non potremmo mai guardare veramente questo portentoso quadro. Non capiremmo niente. Senza avere nelle fibre, senza sentire addosso il belato infinito, replicato, individuale e orchestrale, non possiamo capire niente del coro di figure che nella pala si dispone. Senza tremare per la voce che più di ogni altra fa tremare, che fa silenzio terribile, senza avere negli occhi un viso ingiustamente condannato, di bambino, o embrione o cucciolo di bestia che sia; sì, senza avere addosso l'assordante belato che sale dal mondo, il belato buio, il belato notte di ogni altra voce, il suo sfaglio, il dolce e tremendo viso di un essere innocente, la sua scandalosa presenza, senza quasi belare noi stessi, o con un nodo, un tronco ritorto di voce anche noi che ci resta in gola sentendo quel belato, no, non vedremmo niente in questo miracoloso e delicato quadro. Non vedremmo nulla della sua pena e della sua gloria. Che attraversano i secoli, immagine sepolta da tante immagini, e pur nitidissima.
Se non ci disponiamo un istante con gli occhi chiusi a sentire il belato che non cessa mai, non avremo lo sguardo pronto per questo trattenuto fulgore.
Feriscici la mente, agnello che non cessi di tornare a brucare nelle nostre mani, negli occhi e nei nostri petti con le mille figure dell'innocenza violata. Feriscici la mente.
E infatti il borgomastro Joos e sua moglie Isabella vollero che si dipingesse la storia intera intorno all'agnello. Per offrire alla nostra mente la sapienza. E la pazienza. Adamo ed Eva che guardano l'agnello. Abele e Caino. Le sibille custodi e suggeritrici dell'enigma. Virgilio tra i profeti. Vollero le Fiandre come Betlemme. Come se la storia non avesse senso senza il mistero tremendo dell'innocenza colpita. Come se non la si potesse raffigurare, e dunque neanche pensare, senza avere al centro il mistero dell'innocente che muore. La Grande Ingiustizia come perno del movimento millenario. Del movimento universale. Come se il borgomastro non potesse reggere nulla, e la sua donna esser donna di niente senza rammentare che al centro della storia sta lo scandalo, e non il tornare dei conti. Il belato dell'innocente che va a morire e non la conversazione amabile tra reggitori e dame della città. Come se non si potesse pensare a niente, nemmeno a se stessi, senza considerare al centro quel maledetto e benedetto altare.
Senza quel belato non avrebbe senso nulla. Sarebbero tutte figure vane. Le colombe dello spirito, come gli sguardi assorti di Adamo ed Eva. Giovanni il Battista, e Giovanni l'Evangelista. E il cartiglio delle parole dell'Arcangelo gentile e nobile rivolte a Maria, che ha il viso teso e imperscrutabile delle dame fiamminghe. E neanche il cartiglio scritto al contrario, delle parole che da lei qui come nel Beato Angelico sono parole che escono e non entrano dalla bocca. Come se la pala della storia, profana e sacra che sia, non si potesse aprire senza trovare al centro il controsenso supremo dell'innocente colpito. Che tiene su le parole al diritto e anche le parole al contrario. Le parole della proposta di Dio e quelle della più alta disponibilità umana. Anche quell'architrave, dell'Angelo e di Maria, non starebbe in piedi, non si reggerebbe, senza l'esposizione dell'agnello. Del sacrificio. Del controsenso. Le parole dette dall'angelo e quelle dette da lei, che ha il volto di chi sa.
Così come sanno anche Adamo ed Eva, colti nel momento in cui si riconoscono davvero. Nudi anche in questa delicatezza di raffigurazione. Nudi di più, se così si può dire, anche e proprio perché così degnamente e decorosamente pitturati. Il loro sguardo iniziale va verso l'altare, come se avessero compreso che anche la loro storia oscura, il loro primario tradimento e il loro ritrovamento non fossero niente se non l'annuncio e il presentimento che doveva accadere qualcosa di più forte ancora. Di più che un tradimento e un ravvedimento. Qualcosa di più radicale. Di più misterioso che non la sola conoscenza del male e del bene. Come se sapessero che doveva accadere qualcosa di più oscuro. E guardano in quella direzione. Maggiormente scandaloso che non la nudità della loro presa di coscienza del bene e del male.
Doveva accadere che male e bene si incontrassero fino al punto più alto della loro forza contraddittoria. Fino al punto più alto e profondo del loro combattimento. Fino alla figura e alla vicenda che non lascia nemmeno spazio tra il bene e il male, perché li assume insieme, contemporaneamente. In una figura sola, in una agonia. Che è dell'innocente sull'altare. Il punto in cui il bene non si accontenta di succedere al male. Non si accontenta di tenergli testa. Di vincere. Come se non bastasse nemmeno quel superamento. Quel mettere in fila, e nella successione giusta, l'esperienza del male e quella del bene. Come se si dovessero addirittura abbracciare. E, scandalosamente, baciare. Cosa è infatti l'innocente che muore se non l'atto imprevedibile dove il male è usato dal bene? Dove non si cancella il male superandolo, lasciandoselo alle spalle come l'albero spogliato. Ma il male diviene attore del bene.
Mistero dei misteri. Figura unica adombrata da sempre sotto ogni latitudine e usanza: il sacrificio dell'innocente.
Ma qui c'è ancora da stupire. Da trasalire. Perché non basta che il male sia usato dal bene. Che il sangue coli per un bene. Non basta andare oltre la sola dinamica colpa e punizione. Perché l'agnello, e il sacrificio stavolta è Dio stesso. Non è colui che attende perduto nei reami celesti. No, è lui a belare, a farsi embrione, vecchio da spostare sul letto, bambini uccisi a colazione, donna che supplica in video, ragazzetto morto di fame, lui è l'essere indifeso che poggia la testa e offre la giugulare. È Dio stesso che lascia i cieli e posa la testa sulla pietra. E bela come un abbandonato. O pittore, di due nomi, due cuori e due o quante mani che hai voluto fissare per i secoli questo momento che non passa. Dio che mette se stesso sull'altare. E il suo belato fa tremare la storia intera.
Si voltano a guardarlo le sibille, i primi umani, i profeti e le Fiandre che sono come la luce ferma e infinita di ogni paese! Cosa hai fatto, pittore... Potevi scegliere altri soggetti o lo hai dovuto fare? Quale congregazione o volere di borgomastro ti ha obbligato a guardare al momento dell'agnello? Al momento che non si riesce a immaginare. Dio non è più colui che attende il sacrificio, e ne resta a godere. Crescendo nella sua divinità. No, è lui a patirlo, sprofondando nella nostra umanità. Belando come un demente. Agnello bellissimo e inguardabile come un figlio che va a morire. Il più grande innocente trattato come il più grande colpevole. Crisi, perno, scandalo e tavola centrale della storia.
Qui si deve trasalire ancora, e stupire ancora. Perché quel belato che ci arriva se chiudiamo gli occhi, se li serriamo dopo aver visto quel che ci tocca di vedere, e che viene da milioni di innocenti è il belato sperduto di Dio.
E noi facciamo coro, davanti alla Pala di Gand, con Adamo ed Eva, con i profeti e le sibille che sapevano e non sapevano, con Maria che sapeva, e con gli avi e le città; facciamo coro muto.
Perché Dio che abita i cieli è sceso nel punto scandaloso della storia. Nel punto che non torna. È sceso nel controsenso. Nel luogo inabitabile. Dove l'innocente soffre. Dove si manda all'aria e saltano come stracci tutti i nostri ragionamenti. E le parole conoscono il buio. È arrivato lì, dove non si vorrebbe guardare. E ha reso il posto più inospitale del mondo il suo posto. Il posto di Dio. Ha preso per sé il posto che è cloaca di tutti i nostri pianti, che è tensione di tutti nostri pugni chiusi nell'ombra e di tutte le nostre bestemmie. Perché è venuto proprio qui dove l'ingiustizia non si colma. Dove la bocca che piange non si chiude. E dove il maledetto belato non cessa. Ne ha fatto il suo reame. Perché lo trovassimo qui dove pensiamo che ci aspetti solo il buio, solo l'amaro scandalo.
E tu, pittore di due nomi, due cuori, più mani, hai dipinto tutto questo delicatamente. I simboli posati sull'erba, i cespugli, la valle, i gentiluomini...
Con una pittura sospesa di stupori e così certa della natura dell'evento. Alla nostra distanza opponi la tua familiare vicinanza con l'esattezza dell'evento. Alla nostra divagata disperanza opponi - e proponi - la tua paziente esattezza paesaggistica e teologica. La tua gentilezza seria. Alla nostra divaricata mente, opponi - e proponi, ti prego proponi - la tua discreta e chiarissima concentrazione. E alla nostra divorante e dolorosa smania opponi la precisione delle figure incise nella luce. Come per raccogliere il dolore e la inconsapevolezza. Come per dare riposo agli occhi e alla mente. Un riposo vigile. Dove l'intornabile torna. Dove il vuoto in cui il belato della vita ci svanisce torni ad agglomerarsi. In tensione d'architettura, in disposizione di spazi. In preziosità di particolari, nelle vesti, nelle sfumature dei volti, l'inclinazione degli sguardi. Alla nostra cecità a riguardo di tutte queste cose proponi la visione lungamente lavorata della tua pazienza.
(©L'Osservatore Romano - 28 novembre 20008)
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