lunedì 30 marzo 2009

Stasera ad Alleanza Cattolica

Si legge "L'Anima di ogni Apostolato", il capolavoro di http://www.donbosco-torino.it/image/06/06-1/05-Dom_Gustave_Chautard.jpg, caspita!

Saint of the day

Bl. Amadeus IX of Savoy
Feastday: March 30
1472

Duke of Savoy, a model of charity. Amadeus was the son of Duke Louis I of Savoy. He was born in 1435 in Thonon, Savoy and betrothed as an infant to Princess Yolanda, the daughter of Charles VII of France. They were married in 1451, and Amadeus succeeded his father as duke of Savoy. A victim of epilepsy, he resigned his dukedom around 1471, leaving Yolanda in control. A revolt developed, and Amadeus was imprisoned until King Louis XI of France, Yolanda's brother, secured his release. He died on March 30, 1472, known for his charity and concern for the poor. He was beatified in 1677.

Questo è cosa pensa il mio amico Giovanni Formicola

Il riferimento da parte del presidente Obama a Gioacchino da Fiore (1130 ca.-1202) è assai pertinente, e altrettanto inquietante, per cui mi sembra tutt’altro che male indirizzata o eccessiva l’attenzione per esso da parte del predicatore della Casa Pontificia.

La profezia gioachimita – al di là delle reali intenzioni del monaco calabrese –, infatti, potrebbe essere l’aura mistica di una sorta di new age politico-culturale, che come sempre prima si manifesta e poi viene «battezzato».

Essa, com’è noto, riguarda l’avvento di un III Reich (la suggestione non è mia, ma di Karl Löwith [1897-1973]) finalmente «spirituale». Ed in effetti, un’era tutta dello «spirito» può tendere al völkisch molto più di quanto si possa pensare: una sua possibile declinazione è la liberazione dell’anima di un popolo (anche «di Dio», perché no), come interpretata da un «capo», che afferma sé stessa senza freni e viene attuata in modo «religioso». È quello che precisamente accade alla religione quando non è più «purificata e strutturata dalla ragione» (Benedetto XVI), si de-istituzionalizza e immanentizza il «regno». Così, pure eliminati (e non è un’eliminazione da poco, evidentemente) apparato repressivo, filo spinato e lager, rimane la pretesa di riscrivere la storia in termini volontaristici, vitalistici e sostanzialmente di desiderio.

Una modalità storica interessante è stata appunto peculiarmente tedesca. Non posso certo qui ricostruire il processo che dal libero esame – un rapporto immediato con lo Spirito – conduce fino, per una dinamica propria che travalica certo le intenzioni dei riformatori tedeschi, all’ideologia völkisch e al piccolo III reich, che travolse tutte le istituzioni e le leggi morali della «vecchia Germania». Ma non possono sfuggire – mutatis mutandis, e non è certo poco quel che è da mutare – le analogie con l’attualità, che per esempio sono evidentissime nell’approccio scientista e tecnocratico, medico e eugenetico alle questioni del concepire, nascere e morire, trattate in termini di dominio, come pure la volontà di guidare dall’alto il processo dell’economia.

Ma l’analogia è più strutturale: è nell’idea di libertà di scrivere il proprio destino come piena «spirituale» (e un po’ superomistica) liberazione della coscienza – con sottolineature diverse, che vanno da quella popolare a quella individuale – da ogni costrizione e forma. Che siano quelle della «camicia di forza della ragione aristotelica», come pure quelle di ogni istituzione e autorità che non creino la legge, ma la leggano nell’ordine proprio delle cose e la custodiscano, sforzandosi di trascriverla nel modo più possibile fedele nella legge positiva, certe della radicale fallibilità e imperfezione della loro azione, ma altrettanto certe di tutti i non possumus che devono opporre all’io desiderante.

Come lucidamente ha scritto il prof. De Marco, «[…] le istituzioni esonerano l’uomo dalla dipendenza dall’immediato (impulso e desiderio, piacere e dolore) e ne realizzano la libertà […]. La promozione di diritti individuali incondizionati contro le istituzioni fondamentali è promozione di un asservimento irrazionale della comunità all’arbitrio di ognuno.

«Dovremo ripetere con un grande critico delle derive anti-istituzionali, Arnold Gehlen, che ciò che smantella tradizioni, forme, ordinamenti primitivizza l’uomo, lo rigetta nella “instabilità della vita istintuale”?». Questa new age «gioachimita» sembra muoversi esattamente nella direzione di questo smantellamento. E se è vero che non si vedono all’orizzonte i lager, è altrettanto vero che, come disse il compianto Augusto Del Noce (1910-1989), per gli oppositori sono già operativi i «campi di concentramento spirituale».

I foud this: this is great

The papal preacher, Obama and a medieval monk

Father Raniero Cantalamessa

Capuchin Father Raniero Cantalamessa in a 2007 file photo. (CNS photo/Gregg McIntosh, The Michigan Catholic)

VATICAN CITY — When Capuchin Father Raniero Cantalamessa, preacher of the papal household, offered his weekly Lenten meditation to the pope and members of the curia Friday, he put his finger on a mystery involving a medieval monk, Italian bloggers and President Barack Obama.

Father Cantalamessa was discussing the relationship between Christ and the Holy Spirit in a talk about the importance of the Holy Spirit in the life of both individuals and the church. But as a bit of background to his main point, he said:

The fact that the newly elected president of the United States, during his electoral campaign, referred to Joachim da Fiore three times has re-ignited interest in the doctrine of this medieval monk. Few of those who discuss him, especially on the Internet, know or bother to learn exactly what this author said. Every idea about the renewal of the church or of the world is casually attributed to him, including the idea of a new Pentecost for the church invoked by John XXIII.

One thing is certain. Whether or not it is attributed to Joachim da Fiore, the idea of a third Age of the Spirit that would succeed that of the Father in the Old Testament and of Christ in the New Testament is false and heretical because it strikes at the very heart of the dogma on the Trinity. The affirmation of Gregory Nazianzen is completely different. He distinguishes between three phases in the revelation of the Trinity: in the Old Testament, the Father is fully revealed and the Son is promised and proclaimed; in the New Testament, the Son is full revealed and the Spirit is promised and proclaimed; in the age of the church, the Holy Spirit is finally fully known and one rejoices in its presence.

But the only problem is that no one can seem to find any proof that as a candidate Obama actually cited Joachim of Fiore, who lived 1135-1202. There are dozens of Italian bloggers and Web sites that say Obama did, but the assertion cannot be backed up by an actual quote in an actual speech. In fact, the Joachim fan page on Facebook includes a link to Obama’s Aug. 28 speech accepting the nomination at the Democratic National Convention; a tag says that’s the speech that includes three references to Joachim. But it doesn’t.

In an e-mail message this afternoon, Father Cantalamessa told me, “Typing ‘Obama Gioacchino da Fiore’ (the monk’s name in Italian) in Google, you will find all the news on which I based my remarks.”

In fact, I did that Friday when I first read Father Cantalamessa’s meditation, but since I couldn’t find any real proof that Obama had cited Joachim as an inspiration for his vision of a changed world order, I simply wrote about Father Cantalamessa’s main points.

Getting back to Obama and Joachim this morning, it appears most of the results that turn up in the Google search cite an Aug. 28 or 29 article in the Italian newspaper Corriere della Sera. But searching the newspaper’s Web site, no such article comes up.

The only thing I could think to do next was contact the most serious organization dedicated to studying and promoting the writings of Joachim, the International Center for Joachimist Studies. When I asked if they knew when Obama mentioned Joachim, a spokeswoman told me, “Everyone asks us, but we have no information and we don’t know how this got started. We don’t have on hand any information showing if or when he cited Joachim.”

domenica 29 marzo 2009

Il famoso teologo e insulti a Saviano

Quel famoso teologo (vescovo dei poveri diocesani di Chieti-Vasto), che scrive dappertutto più un paio di libri al mese o più, non vale un tubo (mi rifiuto di farne il nome, come di quell'altro prete [Gennaro Matino] napoletano che scrive sopra la testata di Avvenire ogni giorno). Purtroppo è mio concittadino. Quasi meglio i preti-di-strada. Però come loro fa un sacco di soldi, credo di più.

Poi, preché devo pagare la scorta a Saviano, non se ne andava dall'Italia ?, certo somiglia molto a un nazi-skin.
A suo tempo dovetti leggere il suo libro per darne un opinione. Adesso emerge che le parti sostanziali erano copiati (cioè UGUALI) da CRONISTI CHE DAVVERO RISCHIANO LA VITA E CREDETTERO NELLA NELLA SUA BUONA FEDE condividendo le le loro informazioni col tipaccio. Il lessico è da seconda elementare, Vabbè, di questo se ne erano accorti tutti. Operazione commerciale, dopo il film il musical, cosa manca, ah, il posto nelle liste dell' IdV! Che pena.

La minaccia viene dal Pakistan

Attaccata nel nordovest una base di rifornimenti per le truppe Nato

Si è avuta stamane (28 marzo) l'ennesima conferma che in territorio pakistano il terrorismo continua a colpire non dando tregua e alimentando i timori della comunità internazionale: nel nordovest un commando ha attaccato con armi automatiche e razzi un terminal utilizzato come base per inviare rifornimenti alle truppe Nato in Afghanistan (il 75 per cento dei rifornimenti per le truppe statunitensi e dell'Alleanza Atlantica operanti in territorio afghano arrivano attraverso il Pakistan). Proprio ieri, nell'illustrare la nuova strategia statunitense nella regione, il presidente Barack Obama aveva lanciato l'allarme: i terroristi islamici vogliono colpirci dal Pakistan. Di conseguenza la strategia da adottare, secondo il capo della Casa Bianca, non può ammettere indugi. "Occorre distruggere, smantellare e sconfiggere Al Qaeda, impedendogli in futuro ogni possibilità di ritorno".
"La situazione è sempre più rischiosa" ha detto il capo della Casa Bianca, annunciando la nuova strategia, che prevede l'invio di altri quattromila soldati per addestrare le forze di sicurezza di Kabul, aiuti in dollari al Pakistan (un miliardo e mezzo all'anno fino al 2014), e per la prima volta l'indroduzione di criteri di efficienza, in base ai quali valutare i progressi militari e civili nella lotta alla corruzione e nell'uso oculato degli aiuti internazionali. Obama ha poi proposto la creazione di un Gruppo di contatto per l'Afghanistan, di cui facciano parte i Paesi Nato e quelli del Golfo, insieme a Iran, Cina, Cina, India e Russia. Il presidente statunitense ha quindi dichiarato: "Se il Governo afghano dovesse cadere nelle mani dei talebani, allora Al Qaeda non avrebbe più oppositori e il Paese tornerebbe a essere una base per i terroristi. È un prezzo che il mondo non può permettersi di pagare".

mercoledì 25 marzo 2009

Il soggiorno milanese di John Henry Newman nell'autunno del 1846 (©L'Osservatore Romano - 26 marzo 2009)


"John Henry Newman oggi: logos e dialogo" è il tema del convegno internazionale che si tiene a Milano all'Università Cattolica del Sacro Cuore nei giorni 26 e 27 marzo. Pubblichiamo ampi stralci di una delle relazioni.

di Inos Biffi

Newman soggiornò a Milano, insieme con Ambrose St. John, durante il suo viaggio verso Roma. Arrivò il 20 settembre del 1846 dal passo del Sempione, in tempo per la messa in duomo: più volte egli registra nel suo diario di aver sentito messa in duomo o presso la tomba di san Carlo. Il 18 ottobre, festa della Dedicazione della Cattedrale, annoterà d'aver preso parte alla "Messa solenne in Duomo, dove si tiene una grande funzione con indulgenza plenaria" e di aver visitato "alla sera l'oratorio di san Carlo"; lo stesso giorno farà sapere: "Siamo appena tornati dal Duomo dove c'è stata una grande funzione, compresa la solenne Messa pontificale nella celebrazione della dedicazione della chiesa di san Carlo. La giornata è molto piovosa, ma l'area della chiesa era gremita da cima a fondo".
Subito il 21 settembre Newman visita la basilica di sant'Ambrogio. Il 23 settembre, dopo una prima disagiata sistemazione presso un non confortevole hotel Garni, si trasferirà presso san Fedele, e vivrà in cordiale fraternità con due sacerdoti milanesi: don Giacomo Vitali e don Giovanni Ghianda, e sarà anche commensale del prevosto di San Fedele, Giulio Ratti.
Per i suoi ospiti avrà parole di grande ammirazione, specialmente per don Ghianda, che sarà anche suo confessore. Scriverà: "Il nostro amico, l'abate Ghianda, è molto gentile e premuroso. Non avremmo potuto imbatterci in persona più amica. Egli fa tutto per noi"; e il 22 ottobre, alla vigilia di ripartire da Milano: "Siamo stati assai fortunati di trovare qui il cappellano di Manzoni, che ci è stato sempre vicino ed è stato un amico estremamente gentile".
La prima lettera scritta da Milano, il 24 settembre, contiene un grande elogio per la chiesa di San Fedele: "È in stile greco o palladiano. Temo che lo stile architettonico mi piaccia più di quanto alcuni dei nostri amici di Oscott e di Birmingham approverebbero. La luminosità, la grazia e la semplicità dello stile classico sembra si addica meglio a rappresentare Santa Maria o San Gabriele che non qualsiasi realtà in stile gotico. È sempre un sollievo dello spirito, e una sua elevazione, entrare in una chiesa come San Fedele. Essa ha un aspetto così dolce, sorridente, aperto - e l'altare è così grazioso e attraente - che spicca così che tutti lo possono vedere e avvicinarvisi. Le alte colonne di marmo levigato, le balaustre marmoree, il pavimento di marmo, le immagini luminose, tutto parla la stessa lingua. E una volta leggera corona l'insieme. Ma forse io seguo la tendenza delle persone anziane, che hanno visto abbastanza cose tristi da ritenersi dispensate da una tristezza espressamente e intenzionalmente voluta - e come i giovani preferiscono l'autunno e i vecchi la primavera, i giovani la tragedia e i vecchi la commedia, così, nel cerimoniale religioso, io lascio che i giovani preferiscano il gotico, una volta che tollerino la mia debolezza che chiede l'italiano. È così riposante e gradevole, dopo le torride vie, entrare in questi interni delicati, benché ricchi, che fanno pensare ai boschetti del paradiso o a camere angeliche".
E in un'altra lettera: "C'è nello stile italiano una tale semplicità, eleganza, bellezza, chiarità - implicate, credo, nella parola "classico" - che mi sembrano convenire al concetto di angelo e di santo. Potrei percorrere per tutto un giorno questa bella chiesa col suo altare sorridente e seducente, senza stancarmi. E poi essa è così calma che è sempre un riposo per lo spirito entrarvi. Nulla si muove se non la lontana lampada scintillante che segnala la presenza della nostra Vita immortale, nascosta ma sempre attiva, pur essendo entrata nel suo riposo".
Aggiunge Newman: "È davvero stupendo vedere questa divina Presenza che dalle varie chiese quasi guarda fuori nelle strade aperte, così che a S. Lorenzo abbiamo veduto che la gente si levava il cappello dall'altra parte della strada quando passava".
Con le chiese, infatti, è la pietà dei milanesi a suscitare in Newman la più viva ammirazione: "Nella città di sant'Ambrogio - osserva - uno comprende la Chiesa di Dio più che non nella maggior parte degli altri luoghi, ed è indotto a pensare a tutti quelli che sono sue membra. E inoltre non si tratta di una pura immaginazione, come potrebbe essere trovandosi in una città di ruderi o in un luogo desolato, dove una volta dimoravano i Santi - c'è invece qui una ventina di chiese aperte a chi vi passi davanti, e in ciascuna di esse si trovano le loro reliquie, e il SS. Sacramento preparato per l'adoratore, anche prima che vi entri. Non v'è nulla che mi abbia mostrato in maniera così forte l'unità della Chiesa come la Presenza del suo Divin Fondatore e della sua Vita dovunque io vada". Aggiunge: "Le chiese sono molto sfarzose. Il Duomo è tutto di marmo. Qui il marmo è praticamente il materiale ordinario delle chiese - e ancora più comune è il granito. Il granito proveniente dal Lago Maggiore sembra essere stato in uso da tempo immemorabile".
Un giorno comunica: "Come sta diventando buio, benché ora siano le 6. Faccio fatica a vederci. Il Duomo è l'edificio più incantevole che mai abbia visto. Se si va per la città, i suoi pinnacoli assomigliano a neve luminosa contro il cielo blu. Siamo stati due volte sulla sua cima, dalla quale appaiono belle le Alpi, specialmente il Monte Rosa".
In particolare Newman è impressionato dal duomo come luogo di devozione e ne parla abitualmente nelle sue lettere. La partecipazione alle assemblee liturgiche del Duomo di Milano gli rivelano che cosa sia "la liturgia come fatto oggettivo": "Una Cattedrale Cattolica - scrive - è una specie di mondo, ciascuno dei quali si muove intorno alla propria attività, solo che questa è di tipo religioso; gruppi di fedeli o fedeli solitari - in ginocchio o in piedi - alcuni presso le reliquie, altri presso gli altari - che ascoltano messa e fanno la comunione - flussi di fedeli che si intercettano e si oltrepassano a vicenda - altare dopo altare accesi per la celebrazione come stelle nel firmamento - o la campana che annuncia ciò che sta incominciando nei luoghi sottratti al tuo sguardo - mentre nel contempo i canonici in coro recitano le loro ore di mattutino e lodi o vespri, e alla fine l'incenso sale a volute dall'altare maggiore e tutto questo in uno degli edifici più belli del mondo, e ogni giorno - alla fine senza esibizione o sforzo alcuno, ma come ciò che ciascuno è solito fare - ciascuno occupato al proprio lavoro, così come lascia l'altro al suo".
Newman rimane specialmente colpito dal numero di comunioni che si fanno nelle chiese di Milano: "Ho riscontrato questo in Duomo, a San Fedele, che è stata la nostra chiesa parrocchiale, e a Sant'Ambrogio. Nella chiesa un altare è riservato alla comunione, e io penso di non aver visto una Messa senza che ci fosse chi si comunicava - oltre le comunioni fuori della Messa". A Milano ricorre il primo anniversario della conversione cattolica di Newman e il 9 ottobre scriverà: "Oggi è un anno dacché sono nella Chiesa Cattolica e ogni giorno benedico Lui, che mi conduce dentro sempre più. Sono passato dalle nubi e dalle tenebre alla luce, e non posso guardare alla mia precedente condizione senza provare l'amara sensazione che si ha quando si guarda indietro a un viaggio faticoso e triste". Nel duomo di Milano Newman incontrava esattamente uno degli aspetti e dei momenti più espressivi della Chiesa cattolica.
A Milano Newman trova poi un rito diverso da quello romano, a sua volta significativa testimonianza di antichità; egli ne rimane attratto: "È tuttora in vigore la vecchia liturgia ambrosiana, o Messa, che riporta indietro proprio all'età del grande Santo. Per alcuni aspetti mi piace più di quella romana". Milano è per Newman soprattutto la "città di sant'Ambrogio". Egli ripeterà, scrivendo ai suoi amici d'Inghilterra: "È una benedizione così grande quella di poter entrare, quando camminiamo per la città, nelle chiese - sempre aperte con larga e generosa gentilezza - piene di preziosi marmi da ammirare, di reliquiari, di immagini e di crocifissi, tutti disponibili al passante che voglia personalmente inginocchiarvisi accanto - dappertutto il SS. Sacramento, e abbondanti indulgenze".
"È meraviglioso andare nella chiesa di Sant'Ambrogio - dove si trova il suo corpo - e inginocchiarsi presso le sue reliquie, che sono state così portentose, e di cui io ho sentito e letto più che di ogni altro Santo fin da quando ero ragazzo. Sant'Agostino qui si è convertito! Qui venne anche santa Monica a cercarlo. Sempre qui, nel suo esilio, venne il grande Atanasio per incontrare l'Imperatore. Quanta tristezza quando dovrò partire!"; "Io non sono mai stato in una città che mi abbia così incantato - scriverà alla sorella l'ultimo giorno di permanenza a Milano: stare davanti alle tombe di grandi Santi come sant'Ambrogio e san Carlo e vedere i luoghi dove sant'Ambrogio ha respinto gli Ariani, dove santa Monica montò la guardia per una notte con la "pia plebs", come la chiama sant'Agostino, e dove lo stesso sant'Agostino venne battezzato. Le nostre più vecchie chiese in Inghilterra non sono nulla quanto ad antichità rispetto a quelle di qui, e a quel tempo le ceneri dei Santi sono state gettate ai quattro venti. È cosa così grande essere dove i "primordia", la culla, per così dire, del cristianesimo continuano ad esserci".
Per Newman dire il duomo è dire "il grande san Carlo", e di san Carlo egli parla diffusamente con i suoi corrispondenti, raccontando della sua vita e della sua morte, della sua estrema austerità, delle sue opere e del significato della sua azione nella Chiesa, che ben conosceva. Si intrattiene sulla "grandezza impressionante di san Carlo", che "fino ad oggi - dice - è proprio la vita" di Milano: "Nonostante ogni sorta di male, di genere politico o altri; nonostante la mancanza di fede e altri cattivi spiriti del giorno, c'è un'intensa devozione per san Carlo. E la disciplina del clero è sostenuta dalle sue norme in modo più esatto di quello che noi abbiamo trovato in Francia o di quanto lo sia a Roma"; "Tu vedi i suoi ricordi da ogni parte - il crocifisso che fece cessare la peste quando egli lo portò lungo le vie - la sua mitra, il suo anello - le sue lettere. Soprattutto le sue sacre reliquie: Ogni giorno si celebra la Messa presso la sua tomba. Egli fu suscitato per opporsi a quella terribile burrasca sotto la quale è caduta la povera Inghilterra, e come ai suoi giorni egli ha salvato il suo paese dal Protestantesimo e dai suoi mali collaterali, così noi stiamo tentando di fare qualche cosa per opporci a simili nemici della Chiesa in Inghilterra e quindi non posso che aver fiducia che egli farà qualche cosa per noi lassù, dove è potente, questo benché noi siamo da una parte delle Alpi e egli sia appartenuto all'altra. Così io confido, e la mia mente fu colma di lui, al punto che mi sono persino sognato di lui - e noi vi andiamo la maggior parte dei giorni e ci inginocchiamo presso le sue reliquie".
Ma a Milano Newman non visitò soltanto la chiesa di San Fedele, il duomo e Sant'Ambrogio. Abbiamo già ricordato l'accenno alla basilica di San Lorenzo. Ma egli parla anche della chiesa di San Satiro e di Sant'Eustorgio, dove assiste alla Messa solenne nella festa della Madonna del Rosario e che descrive come "un'ampia chiesa" che "contiene le reliquie di parecchi martiri, e piena di monumenti e cappelle.
Newman parla anche di "Monza, distante 12 miglia", dove "si trova la corona ferrea composta con uno dei chiodi che Costantino pose nel proprio diadema come uno dei chiodi della vera Croce, vi sono anche dei doni che papa Gregorio Magno inviò alla longobarda regina Teodolinda".
Nel soggiorno milanese Newman avrebbe desiderato incontrare Rosmini e Manzoni.
A proposito di Rosmini scrive nella sua prima lettera da Milano: "Ci siamo trovati in mezzo agli amici di Rosmini, e siamo sorpresi di trovare quanto facciano i Rosminiani in queste parti (...). Abbiamo una missiva per Rosmini, che è comunque assente". Di fatto l'incontro non avverrà, e la ragione sembra a Newman piuttosto esile: "Rosmini è passato da Milano - è detto in una lettera del 18 ottobre - mi ha inviato un cortese messaggio, spiegando che non ci ha chiamati perché lui non sa parlare latino e io italiano. Non è sufficiente per spiegare la sua non chiamata. Ghianda ha una grande ammirazione per lui, come anche Manzoni. Vorremmo avere molto di più da dire di lui, ma non riesco a cogliere l'essenza della sua filosofia. Mi piacerebbe credere che tutto sia giusto, benché si abbiano dei sospetti".
Anche l'incontro con Manzoni non poté avvenire. "Non abbiamo visto Manzoni e credo che per questo egli sia anche più spiacente di noi. Non che a noi non dispiaccia, ma è una cosa così grande essere nella città di sant'Ambrogio". Di Manzoni Newman già conosceva I Promessi Sposi. In una lettera alla sorella Jemina scriveva di averne fatto una lettura deliziosa e in un'altra dirà di fra' Cristoforo: "Il Cappuccino nei "Promessi Sposi" ha conficcato nel mio cuore come una freccia".

martedì 24 marzo 2009

Dai tempi di Paolo «fides» e «lògos» dialogano ininterrottamente - L'Osservatore Romano - 25 marzo 2009

Quel primo round
tra cristianesimo e filosofia


Nell'ambito del Giubileo paolino degli universitari, dal 12 al 15 marzo la Congregazione per l'Educazione Cattolica, il Pontificio Consiglio della Cultura e l'Ufficio per la pastorale universitaria del Vicariato di Roma hanno organizzato un Forum internazionale delle Università presso la sede dell'Università Europea di Roma. Pubblichiamo uno degli interventi.

di Enrico dal Covolo

Rivisiteremo anzitutto il celebre discorso di Paolo all'Areopago; svolgeremo poi alcune considerazioni sui rapporti tra la fede e la ragione nella successiva tradizione cristiana dei primi tre secoli; cercheremo infine di sviluppare qualche conclusione perennemente attuale riguardo alla missione evangelizzatrice della Chiesa.
Questo complesso itinerario storico-teologico è illuminato dall'Encliclica Fides et Ratio di Giovanni Paolo ii, in particolare dai numeri 36-42 del capitolo iv, nel quale vengono illustrate le tappe più significative dell'incontro tra la fede e la ragione.
Il discorso di Paolo all'Areopago - da cui Giovanni Paolo ii iniziava la sua rivisitazione storica - rappresenta per molti aspetti la prima "occasione ufficiale" dell'incontro tra fides e lògos, cioè tra il cristianesimo e le correnti filosofiche del tempo.
Si tratta, come è noto, di un discorso dotto, assai curato, infarcito di riferimenti alla cultura e alla filosofia contemporanea, in modo particolare alla tradizione eclettica platonica e stoica. Vi si rintraccia una citazione diretta di Arato di Soli, e - fra le altre reminiscenze classiche - appare evidente il riferimento all'Inno a Zeus di Cleante. Ma l'esito di questo discorso è deludente, per cui si parla di solito del "fallimento di Paolo all'Areopago": "Ti sentiremo un'altra volta", commentano ironici e scettici gli ateniesi, voltando le spalle all'oratore.
Da Atene - stando sempre al racconto degli Atti - Paolo raggiunge Corinto. Ma qui, rispetto ad Atene, il suo argomentare manifesta caratteristiche differenti. Nella comunità cristiana di Corinto, infatti, Paolo avverte un grave pericolo: quello che il Vangelo venga scambiato con la sapienza del mondo, con una delle tante filosofie dell'ambiente.
Secondo Paolo concepire il Vangelo come una delle tante filosofie significa anzitutto introdurre il germe della divisione nella comunità, perché il "lieto annuncio", una volta ridotto a sapienza umana, rimane agganciato alle argomentazioni più o meno controverse dei filosofi. Ma soprattutto il Vangelo non è più l'annuncio della salvezza che viene da Cristo, ma di una salvezza che viene dagli uomini. Così la croce di Cristo è svuotata. Per questo Paolo proclama con forza: "Poiché il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, stoltezza per i pagani, potenza di Dio e sapienza di Dio".
È urgente, a questo punto, chiarire un possibile equivoco. Le affermazioni di Paolo (l'enciclica cita in particolare la Lettera ai Colossesi 2, 8: "Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana") non si oppongono alla possibilità di una vera sapienza cristiana, di una fede e di una teologia matura. Ma questo lavoro teologico, secondo il pensiero dell'apostolo, non consiste nel tentativo più o meno larvato di sostituire il mistero di Dio con la sapienza del mondo, bensì nell'impegno di penetrare più a fondo il mistero di Dio. Questi sono i "perfetti", secondo Paolo: quelli che capiscono fino in fondo la stoltezza della croce, e ne fanno il criterio fondamentale della loro vita.
In ogni caso, già qui appare evidente che l'incontro del lògos con la fides "non fu immediato né facile". Così il discorso di Paolo all'Areopago rimane a prima vista un episodio isolato, almeno in quella fase di maturazione e di avvio della nuova religione. Ma poi, a partire soprattutto dagli apologisti del ii secolo, gli scrittori cristiani - seguendo l'illustre precedente di Paolo all'Areopago - non esitarono a utilizzare coraggiosamente le categorie e i metodi della filosofia greca.
Ma quale filosofia? Se infatti l'autodefinizione del cristianesimo come philosophía richiedeva necessariamente di entrare nella circolazione di idee del dibattito filosofico già da secoli in atto - quale, in ispecie, la dottrina del lògos - occorreva però esercitare un attento discernimento tra ciò che si poteva o meno accettare.
Esclusi gli indirizzi epicureo e peripatetico a causa della negazione della provvidenza, e a maggior ragione quelli scettico e cinico, non restavano che gli orientamenti "metafisici" del platonismo: come afferma Clemente Alessandrino, l'unica filosofia da accettare "è quella di cui parla Socrate presso Platone".
Scrive Raniero Cantalamessa in un lucido saggio su Cristianesimo primitivo e cultura greca: "I primi tre secoli vedono impegnati nel dialogo due mondi ancora entrambi vivi e autonomi, mentre più tardi, dopo la pace costantiniana, il paganesimo con la sua filosofia tenderà sempre più a diventare un fatto di sopravvivenza culturale". Questo giudizio complessivo - nonostante susciti, e lo stesso autore ne è consapevole, molti interrogativi e istanze di puntualizzazione ulteriore - individua un arco cronologico ben definito per riflettere sui numeri 38-39 dell'enciclica, cioè sul primo "incontro del cristianesimo con la filosofia". Di fatto i primi tre secoli segnano il tempo di costruzione faticosa di un'identità culturale complessa del cristianesimo, in cui la primaria istanza religiosa ed esistenziale viene progressivamente strutturata nelle categorie filosofiche e linguistiche della cultura ellenistica imperiale.
Inoltre la periodizzazione evocata da Cantalamessa ci esime da una valutazione globale del rapporto tra platonismo e cristianesimo, poiché solo nel iv secolo si manifesta appieno la facies platonica del cristianesimo: com'è noto, tale rapporto segnerebbe - o segna, a seconda delle diverse posizioni critiche assunte dagli storici - un'inculturazione permanente del cristianesimo nella forma platonica. Da parte sua, l'Enciclica affronta questo problema alcune pagine più avanti, nel numero 72 del capitolo vi. "Il fatto che la missione evangelizzatrice abbia incontrato sulla sua strada per prima la filosofia greca - ammette Giovanni Paolo ii - non costituisce indicazione in alcun modo preclusiva per altri approcci. Oggi, via via che il Vangelo entra in contatto con aree culturali rimaste finora al di fuori dell'ambito di irradiazione del cristianesimo, nuovi compiti si aprono all'inculturazione". Così "problemi analoghi a quelli che la Chiesa dovette affrontare nei primi secoli si pongono alla nostra generazione". D'altra parte, però, "quando la Chiesa entra in contatto con grandi culture precedentemente non ancora raggiunte, non può lasciarsi alle spalle ciò che ha acquisito dall'inculturazione nel pensiero greco-latino. Rifiutare una simile eredità" conclude decisamente il Papa, "sarebbe andare contro il disegno provvidenziale di Dio, che conduce la sua Chiesa lungo le strade del tempo e della storia". In qualche modo, perciò, la metodologia dell'incontro tra il cristianesimo e la filosofia - inaugurata da Paolo all'Areopago, e proseguita nei primi secoli cristiani - viene considerata "paradigmatica" per le forme successive di inculturazione del messaggio evangelico, lungo tutta la storia della Chiesa.
Ma - per tornare ai primi tre secoli - la questione fondamentale da risolvere, per consentire un "dialogo a tutto campo" tra cristianesimo e cultura classica, era quella di fondare e giustificare il ricorso alla filosofia pagana: e non era certo un problema facile. A prima vista, infatti, il dialogo tra la novitas cristiana e una filosofia, che comportava pur sempre l'ossequio alla religione olimpica, poteva sembrare improponibile. Così, fin dai primi tempi, si riscontrarono, in seno al cristianesimo, due atteggiamenti diversi: quello dell'accettazione, ma anche quello del rifiuto.
Quello di un totale rifiuto, almeno apparente, ha la sua espressione più evidente in alcuni rappresentanti del cristianesimo africano e siriaco - come Tertulliano, almeno per alcuni suoi scritti, e Taziano - cioè di due aree estreme del mondo ellenizzato. Tertulliano, in particolare, prorompe in interrogativi sdegnati, di cui si fa cenno nell'enciclica stessa al numero 41: "Che cosa c'è di simile tra un filosofo e un cristiano, tra un discepolo della Grecia e un discepolo del cielo?". E ancora: "Che cosa c'è in comune tra Atene e Gerusalemme? Che cosa tra l'Accademia e la Chiesa? (...) La nostra disciplina viene dal portico di Salomone, il quale aveva insegnato che si doveva cercare Dio in semplicità di cuore. Ci pensino coloro che hanno inventato un cristianesimo stoico e platonico e dialettico".
L'altro atteggiamento invece fu di grande apertura, di dialogo critico e costruttivo con la filosofia dei Greci. È l'atteggiamento iniziato da Giustino e sviluppato dagli Alessandrini, soprattutto da Clemente. Qui il lògos dei Greci non solo non è rifiutato, ma è visto come propedeutico alla fede.
In conclusione, al di là del "fallimento dell'Areopago", la filosofia rimane pur sempre - da Paolo in poi - l'area privilegiata dell'incontro fra cristiani e pagani. Fra l'altro, optando per la filosofia e rinnegando la falsa religio - identificata con irreligiositas e superstitio - i cristiani intendevano rassicurare i pagani del loro lealismo verso le istituzioni civili, e si difendevano, ritorcendole contro i pagani, dalle accuse di ateismo e di empietà.
È illuminante, a questo punto, una riflessione di Joseph Ratzinger, all'epoca professore di Teologia dogmatica nell'Università di Tubinga, quando - all'indomani del Concilio Vaticano ii - l'Europa era percorsa dai venti scomposti della contestazione, che sembravano scuotere le fondamenta stesse della verità. "Il paradosso della filosofia antica - scriveva nel 1968 il futuro Pontefice in Introduzione al cristianesimo, un libro oggi più che mai attuale - consiste, dal punto di vista della storia delle religioni, nel fatto che essa con il pensiero ha distrutto il mito", senza peraltro accantonare del tutto la forma religiosa di venerazione degli dèi. Di fatto la religione tradizionale non batteva la via del lògos, ma si ostinava su quella del mito, pur riconosciuto dalla filosofia come privo di consistenza reale. "L'opzione cristiana originaria - conclude Ratzinger - è invece completamente diversa. La fede cristiana ha fatto sua la scelta netta contro gli dèi della religione per il Dio dei filosofi, vale a dire contro il mito della consuetudine per la verità dell'essere".
Occorre riconoscere in definitiva che la lezione di Paolo - dall'Areopago a Corinto - trascorre nella predicazione dei Padri, e rimane valida per sempre. Non una sapienza che pretende di sostituire la follia della croce, ma una sapienza che aderisce progressivamente alla verità dell'essere, cioè una ragione disponibile al mistero e capace, in qualche misura, di "dilatarsi" di fronte ad esso: questa rimane la via maestra della tradizione cristiana nel dialogo tra fides e lògos.

Carlo Cardia su Avvenire: I critici sul preservativo di colpo zitti sui problemi

24 Marzo 2009
DOPO LE PAROLE DEL PAPA

Il Vangelo cammina e si diffonde nelle strade dell’Africa insieme al Papa. A popolazioni che mancano quasi di ogni cosa Benedetto XVI si è rivolto con le stesse parole ed immagini che Gesù ha usato quando ha iniziato la sua missione facendosi carico dei mali del mondo e dando a ciascun uomo una speranza per il futuro. Sono parole dolci perché rassicurano, ma anche aspre perché denunciano le colpe degli uomini. Sono parole sagge quando indicano la strada per superare le difficoltà, ma anche piene di forza quando propongono una fede e una felicità che non appassiscono. Il Papa ha parlato della sofferenza di Dio di fronte ai patimenti degli uomini affermando che «davanti a sofferenze atroci noi ci sentiamo sprovveduti e non troviamo le parole giuste».

Si è rivolto alle popolazioni africane dicendo cose che altri tacciono, ed ha denunciato che se un tempo esse conoscevano l’emarginazione e il silenzio della storia, oggi vivono i mali della modernità, guerre, malattie, abbandono. Nascono tanti bambini in Africa ma molti vengono uccisi o mutilati, altri si ammalano presto, altri non vedono la luce perché così hanno deciso coloro che incentivano l’aborto, decidendo ancora una volta in modo atroce il destino degli altri. Molti bambini, prima dell’età adulta, sono violentati anche nei poveri vestiti perché si ritrovano in assurde divise militari che portano morte o mutilazioni. Lo scandalo dei bambini-soldato si aggiunge agli altri scandali che l’Africa subisce nel silenzio generale, nell’apatia di governi e potentati economici e militari.

Nei giorni scorsi, mentre tanti critici non sapevano che dire, la voce del Vangelo è stata pronunciata in un continente ignorato dai potenti del pianeta, ed ha declinato le parole più semplici che esistano, sofferenza e amore, paura e speranza, egoismo e carità, pronunciando la condanna più aspra che si sia sentita in queste terre: alla sofferenza non ci si arrende e la si combatte con la dedizione che nulla chiede in cambio, ai tanti egoismi si deve contrapporre una logica di giustizia e di distribuzione dei beni, alla guerra si oppone il rifiuto della violenza e il disarmo dei mercanti di morte. Queste parole sono coerenti con una analisi razionale della condizione dell’Africa e con i diritti umani tante volte declamati, eppure nessuno statista le dice, nessuna cancelleria le mette al centro dei propri programmi. Sono, invece, le parole della speranza cristiana, e sono dette dal Papa a milioni di uomini, di donne e di bambini, che nella speranza vedono la possibilità per dare un senso alla vita.

Mentre Benedetto XVI diceva e predicava queste cose si è verificato un fatto che fa riflettere. Chi aveva criticato Benedetto XVI perché sostiene l’umanizzazione della sessualità si è visto praticamente ridotto al silenzio, non è riuscito a dire più nulla quando il Papa si è rivolto ai popoli africani indicando i mali di cui soffrono e le loro cause. È rimasto in silenzio perché si è accorto che il vescovo di Roma non è solo, sa farsi capire dai semplici e da chi ha retta coscienza. Più di ieri, oggi sappiamo che il Papa non è solo in Vaticano, da dove si irradia il messaggio cristiano, non è solo in Africa dove accorrono per vederlo, ascoltarlo, anche solo sfiorarlo, popolazioni tra le più povere al mondo, che vedono in lui il simbolo e la garanzia di una strada diversa che prospetta una scelta per l’amore anziché per l’odio, per una vita degna in luogo dello sfruttamento degli altri, per una fede forte al posto di illusioni e ombre vaghe. I critici di ieri sono rimasti silenziosi perché nessuno li avrebbe ascoltati. Il Papa ha parlato in Africa contro la superstizione che prende di mira i bambini abbandonati e li indica come oggetti maligni da colpire, suggerendo di far loro del male, addirittura di ucciderli.

Il Vangelo offre una fede luminosa, che cancella il buio della superstizione, e apre la mente alla ragione e al Dio della fiducia, mentre altri tacciono perché la loro ragione non conosce la fede e non sa reagire alla superstizione. Chi ha seguito il viaggio di Benedetto XVI è rimasto colpito da quanti gli correvano incontro, e da quanti cristiani, cattolici, vescovi, preti, suore, laici, sono impegnati nell’aiutare gli altri, nel trasformare un tempo che sembra fuori della storia in una storia nuova, positiva, cristiana. Si può sperare che siano rimasti colpiti tanti sapienti che non hanno potuto dire più nulla, perché hanno visto con i loro occhi che Benedetto XVI sa farsi capire da chiunque nel mondo cerchi con ansia verità anziché inganni, cose vere e umane invece di astrattezze o materialità.
Carlo Cardia

domenica 22 marzo 2009

Un non cattolico difende il Papa - Gianni Pardo (19.03.2009)

Benedetto XVI ha detto, che il problema dell’AIDS «non si può superare con la distribuzione dei preservativi che anzi aumentano i problemi». E per questo è stato pressoché universalmente criticato, perfino al livello di governi (Germania, Francia). Ma dal punto di vista religioso egli ha ragione. La Chiesa Cattolica ha una dottrina che reputa invariabile nel tempo. Questo non è un atteggiamento presuntuoso: è una convinzione che discende dalla sua sistemazione teorica. Gran parte della religione si è organizzata nel corso dei secoli, sulla base di discussioni teologiche, concili ecc., e dunque qualcuno potrebbe sostenere che, se si è adottata un’opinione, nulla impedisce che la verità corrispondesse all’opinione opposta. In realtà, questa obiezione non vale per la Chiesa. Essa crede che, nelle decisioni importanti, gode dell’assistenza dello Spirito Santo, garanzia di eterna verità: in fin dei conti, la Chiesa è infallibile.
Un esempio chiarirà questo dato. Nei primi tempi del Cristianesimo si discusse della natura di Gesù. Grande profeta ma solo uomo? Solo Dio con aspetto umano? Oppure vero uomo e vero Dio? Prevalse quest’ultima determinazione e l’ipotesi di una sola natura divenne un’eresia: l’eresia monofisita.
Ciò posto, se l’opportunità politica (il divorzio chiesto da Enrico VIII), il buon senso, la carità cristiana o qualunque altro motivo si trovano in contrasto con la dottrina, è la dottrina che deve prevalere. Diversamente sarebbe come dire che Dio ha torto ed Enrico VIII ha ragione.
C’è un esempio ripetuto infinite volte ma non per questo meno valido che prova come la dottrina valga più della stessa morale. Se Dio ordina ad Abramo di uccidere un innocente, che per giunta è suo figlio, il fatto che l’ordine sia profondamente immorale, ed anzi criminale, non permette che esso sia disobbedito. E se Abramo è un patriarca, è perché la sua fede è stata più forte della sua moralità e del suo amore paterno.
Tutto ciò posto, se la Chiesa reputa il sesso un male; se lo ammette solo nel matrimonio (remedium concupiscientiae) e solo per i fini della procreazione, ne deriva che il preservativo è inammissibile. Autorizzare il suo uso corrisponderebbe ad autorizzare il sesso per il piacere che può dare, non per la vita che può creare. E questo è peccato.
Il Papa non fa che proclamare ad alta voce la fede consolidata e nessuno può fargliene una colpa. I cattolici devono chinare la testa oppure affermare che quella dottrina è demenziale: ma poi dovrebbero abbandonare la Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Nessuno li ha autorizzati a modificare i principi della religione o ad insegnare al teologo Ratzinger qual è la verità ispirata dallo Spirito Santo.
Un’ultima nota è di valore storico. È vero che, nel corso di due millenni, la religione si è modificata e nulla le impedirebbe, soprattutto nei tempi lunghi, di cambiare ciò che, per qualsivoglia motivo, dovesse reputare inopportuno. Ma mentre teologicamente sarebbe difficile giustificare il cambiamento – e infatti in questo caso si conta sull’oblio del passato – è facilissimo giustificare la propria fedeltà al passato con i sacri testi.
Per decenni la Chiesa negò la teoria di Darwin sostenendo, sulla base del racconto biblico, che Dio aveva creato Adamo direttamente dalla creta. L’uomo non discendeva dunque dalla scimmia e chi l’avesse sostenuto andava contro la dottrina della Chiesa. Quando poi la scienza rese la cosa talmente evidente da non poter essere ragionevolmente negata, la Chiesa sostenne che la Bibbia, parlando di creta, parlava metaforicamente di “materia inferiore”. E nulla impediva che questa “materia inferiore” fosse una scimmia. Metafora che però era stata eretica per oltre un secolo.
Se dunque un giorno un Papa ammettesse il preservativo, con qualche escamotage dialettico, la dottrina della Chiesa sarebbe sostanzialmente cambiata: ma non per questo si può pretendere che essa cambi oggi perché così oggi vogliono gli opinionisti dei giornali e i cattolici approssimativi.

giovedì 5 marzo 2009

It's the Europhiles versus reality, and reality is going to win

Jeffrey Coolidge/Getty Images

During the current crisis we have several times heard invoked the wisdom of Milton Friedman about the unfeasibility of the euro as a currency surviving a recession. In an interview not long before his death three years ago, Friedman said: "The euro is going to be a big source of problems, not a source of help. The euro has no precedent. To the best of my knowledge, there has never been a monetary union, putting out a fiat currency, composed of independent states. There have been unions based on gold or silver, but not on fiat money - money tempted to inflate - put out by politically independent entities." It is what lies below the surface of this observation that is putting not just the euro, but the entire confection of the European Union, under such intense pressure. Any recession would bring into play tensions between idealism and nationalism: the desire by those who pilot the European project to maintain the confection for as long as possible and as intact as possible, that it might come out on the other side of this economic horror bloodied but unbowed; and the inevitable identification of hundreds of millions who stand outside the fantasy world of the political class with their own nation state, their own nationals and their own national interest. Without a degree of coercion beyond what even this undemocratic, Sovietized swindle has attempted in the recent past, the national interest will in the end prevail. - UK Telegraph

Dominant Social Theme: The EU was never meant to be.

Free-Market Analysis: The Telegraph is perhaps the only major newspaper in Europe/Britain to take a regular and determined stand against the European Union. It's articles and opinions are provocative because they bring up points that you do not ordinarily find elsewhere except in Europhobic blogs. And those blogs often don't deal with currency or business matters, preferring to focus on regulations and other issues that are slightly easier targets.

But ultimately it is the euro itself - the experimental trans-national currency - and its performance that is going to make or break the EU. And the time when the euro will be tested is not hypothetical anymore. The time is now. The euro as a trans-national currency considerably stresses numerous countries that utilize it. Since it is a fiat currency, not backed by any asset, its value is inevitably arbitrary. This means that for some nations, the interest rates associated with the euro are too high and for others possibly too low. During the good times this doesn't matter. But in the bad times, fiat money demands stimulation - or the value potentially drops all the way to zero. It is most difficult for those behind the single currency to provide the levels of stimulation demanded during a genuine economic crisis such as the one that is going on now.

Not only that, but a crisis such as this has exposed massive debt taken on by certain euro-nations, especially in Eastern Europe. A repudiation of debt - such as what occurred in Iceland - could blow the EU apart, so ways must be found to provide additional capital to these nations. The International Monetary Fund can play a role but the amount of capital necessary may call for more dramatic infusions. Where these will come from is most questionable. The EU leaders do not want Germany to pony up - they claim the union should handle the issue. How they will do remains to be seen.

Finally, there is the issue of protectionism. Protesting loudly that all of its actions are for the good of the union, France has already started down a protectionist path, demanding certain advantages for its troubled automobile industry. This is not surprising as, for the leaders of France, the EU was always a way to leverage France's influence on the world stage. To the degree that the EU does not advantage France, the EU's various regulatory postures will likely be either ignored or circumvented. But in doing so, France risks a considerable backlash from other EU countries - and were the backlash to grow too intense, the union itself could certainly be jeopardized, or at least put under further pressure. 

Conclusion: It is too early to predict the demise of the EU. Certainly its leaders are not naive and apparently the bet has been all along that a significant crisis will force the union closer together rather than pull it apart. Already, the idea of offering trans-national bonds has been floated in certain euro circles, an instrumentality that is currently not allowed. The idea, in this case, then, is that the crisis will push euro-nations into creating various kinds of financial arrangements that they would not easily tolerate in times of lesser stress. From the point of view of free-market thinkers, the twistings and turnings of Europe's monetary policies are likely unnecessary - and smack of ulterior motives having to do with empire building more than monetary rationalization. For free-market thinkers it is all fairly unnecessary. A little over a century ago, Europe had a valid, international monetary union. It was called the gold standard.