mercoledì 22 ottobre 2008

L'OSSERVATORE ROMANO Edizione quotidiana 23 ottobre 2008

Gli estremisti si impossessano delle terre dei cristiani costretti a fuggire dall'Orissa

Aggressioni ed espropri

Violenze senza fine in India




Bhubaneshwar, 22. Continuano senza sosta le violenze in India nei confronti dei cristiani. Quattro novizi della Indian missionary society sono stati attaccati da alcuni attivisti appartenenti ad un partito indù, nel distretto di Karnataka. L'episodio di violenza è avvenuto domenica scorsa, ma la notizia è stata diffusa soltanto, mercoledì, dalla Conferenza episcopale dell'India.

I quattro novizi, come tutte le domeniche, stavano visitando alcune famiglie di agricoltori che coltivano caffè nel villaggio di Chennangoli. Ad un tratto, si è avvicinata una folla di attivisti indù, molti dei quali conosciuti come elementi pericolosi, e hanno iniziato a inveire sui quattro religiosi accusandoli di voler convertire gli abitanti del villaggio. Subito dopo le parole, gli attivisti sono passati ai fatti colpendo ripetutamente i quattro novizi e procurandogli serie ferite. Le vittime, subito ricoverate in ospedale, si chiamano Sandeep Masih, Lijo Kuruvilla, Kuldeep Beck e Vinod John.


Padre Snehanand della Indian missionary Society, maestro dei novizi, insieme ad altri due sacerdoti si è immediatamente recato sul luogo dell'aggressione per contattare gli attivisti e cercare una pacificazione ma alcuni facinorosi hanno cercato, per fortuna senza successo, di colpire al volto anche il sacerdote.


I responsabili della Indian missionary Society hanno sporto denuncia nei confronti degli attivisti indù, i quali a loro volta hanno presentato una controdenuncia accusando i novizi di aver violato i confini delle loro proprietà terriere.


Il vescovo di Mysore, monsignor Thomas Anthony Vazhapilly, è stato informato dell'accaduto e ha contattato le autorità civili e di polizia affinché facciano tutto il necessario per porre fine alle violenze. Di conseguenza, il sovrintendente di polizia ha convocato indù e cristiani per raggiungere un'intesa. Ma il risultato non è stato molto soddisfacente. I quattro novizi, ancora sotto shock per le violenze subite, sono dovuti rimanere per precauzione fino a tarda notte in caserma e successivamente scortati fino alla st. Joseph Ashram. Anche alcuni medici indù dell'ospedale dove sono stati ricoverati i quattro novizi sono intervenuti per fare da mediatori e stanno lavorando per organizzare un più vasto incontro per la pace nell'intera zona. Anche in considerazione del recente attacco alle chiese cristiane a Mangalore, le autorità politiche hanno pensato di inviare due poliziotti a presidiare ventiquattr'ore su ventiquattro la st. Joseph Ashram.


I membri della Indian missionary Society hanno il particolare carisma di operare per la pace, l'armonia e l'integrazione nazionale e anche per il benessere dei settori più deboli della popolazione a prescindere dalla loro fede.


Intanto, gli oltre cinquantamila profughi fuggiti dal distretto di Kandhamal e stanziatisi nelle foreste, o accampati da circa due mesi nei campi predisposti dal governo, stanno perdendo definitivamente la speranza di tornare nelle loro case e nelle loro terre; di riavere la loro vita. I gruppi radicali indù si stanno appropriando indebitamente delle terre rimaste abbandonate, coltivate con grano, mais, alberi da frutta e zenzero, privando per sempre i cristiani delle loro proprietà e dei mezzi di sostentamento.


"Si tratta per la maggior parte di dalit e tribali che subiscono la violenza dei gruppi radicali indù, ben organizzati e anche armati, senza poter opporre alcuna resistenza, soprattutto perché - denunciano i vescovi dell'Orissa - le autorità civili e la polizia non fanno nulla per fermare questa ingiusta confisca e flagrante violazione dei diritti individuali".


In tal modo subdolo, affermano i cristiani locali, si compie il disegno dei gruppi estremisti indù di eliminare la presenza cristiana dell'Orissa:  le famiglie e le piccole comunità dei villaggi, private di tutto e senza alcuna speranza di poter avere giustizia, sono costrette a spostarsi altrove.






(©L'Osservatore Romano - 23 ottobre 2008)


L'OSSERVATORE ROMANO Edizione quotidiana 23 ottobre 2008

Lettera di Alessio II a Benedetto XVI

Testimonianza comune
per proclamare il Vangelo all'uomo d'oggi




Il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo metropolita di Napoli, durante la recente visita compiuta a Mosca, è stato ricevuto mercoledì 1 ottobre da Alessio II, Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, e gli ha consegnato - come abbiamo riferito nell'edizione del 4 ottobre - un messaggio autografo di Benedetto XVI. Pubblichiamo ora, nell'originale russo e in una nostra traduzione italiana, la lettera di risposta che Sua Santità Alessio ii ha indirizzato al Papa per il tramite del cardinale Sepe. Nel testo il Patriarca sottolinea lo sviluppo positivo delle relazioni e della cooperazione tra la Chiesa cattolica e il Patriarcato di Mosca. Questo sviluppo, basato sulle radici comuni, è dovuto alla convergenza su numerose questioni di attualità e soprattutto alla consapevolezza di quanto sia urgente proclamare il messaggio evangelico e testimoniare i valori cristiani nel mondo contemporaneo.


Pubblichiamo di seguito una nostra traduzione italiana della lettera indirizzata dal Patriarca Alessio II a Papa Benedetto XVI.

 



Santità,

desidero ringraziarla cordialmente per la lettera che mi ha inviato tramite Sua Eminenza il Cardinale Crescenzio Sepe, Arcivescovo di Napoli, durante la sua visita a Mosca. In risposta alle affettuose parole del suo messaggio, anche io desidero esprimere i miei sentimenti di profondissima stima e sincera benevolenza.


Sono lieto per le crescenti prospettive di sviluppare buone relazioni e una positiva cooperazione fra le nostre due Chiese. La solida base di ciò sta nelle nostre radici comuni e nelle nostre posizioni convergenti su molte questioni che oggi affliggono il mondo.


Sono convinto del fatto che la più grande rivelazione del Vangelo:  "Dio è amore" (1 Gv 4,8) dovrebbe divenire un orientamento vitale per tutti coloro che si considerano seguaci di Cristo, perché soltanto attraverso la nostra testimonianza di questo mistero possiamo superare la discordia e l'alienazione di questo secolo, proclamando i valori eterni del cristianesimo al mondo moderno.


Santità, con tutto il cuore le auguro buona salute e auspico l'aiuto di Dio nel suo ministero.


Con amore fraterno nel Signore,


ALESSIO II


Patriarca di Mosca
e di tutte le Russie




(©L'Osservatore Romano - 23 ottobre 2008)


martedì 21 ottobre 2008

L'OSSERVATORE ROMANO Edizione quotidiana 22 ottobre 2008

Idee pesanti contro la leggerezza laicista


L'arduo confronto con l'indifferenza





di Gianfranco Ravasi


Il concetto di secolarizzazione o laicismo è una delle categorie più caratteristiche adottate per definire la società moderna. È necessario, però, evocare la distinzione che si deve operare tra "secolarità/laicità" e "secolarismo/laicismo". La prima coppia designa la corretta autonomia della sfera politica, economica e sociale per quanto è di sua competenza rispetto all'orizzonte religioso-sacrale, sulla scia del monito evangelico:  "Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio". Col "secolarismo/laicismo" (parallelo, anche se antitetico, alla teocrazia e al sacralismo integristico) si vuole, invece, cancellare ogni presenza "incarnata" della fede nella storia e nella società, impedendole qualsiasi giudizio morale sull'agire politico-sociale. Per questa via si elimina ogni segno pubblico religioso, si estirpa ogni rimando teologico nel confronto culturale, si accede a una sottile destabilizzazione dell'etica naturale in nome di un'autonomia assoluta della persona, si privilegia l'esasperazione libertaria che lascia briglia sciolta su ogni valore, si enfatizza la radicale indipendenza della scienza da qualsiasi remora morale, considerata come estrinseca e così via.

A questo fenomeno - che, peraltro, ora risente di una certa crisi non solo per l'attuale interventismo del fondamentalismo religioso sulla scena del mondo, ma anche per quella che Gilles Kepel in un suo saggio del 1991 ha chiamato la revanche de Dieu, cioè la rivincita di Dio e il ritorno del sacro - possiamo associare un soggetto tematico affine, quello della non credenza. È soprattutto su quest'ultima che ora vorremmo porre l'accento. Nell'Ottocento il poeta tedesco Heinrich Heine rappresentava paradossalmente così questo fenomeno, inconcepibile in altre ere e civiltà antiche:  "In ginocchio! Suona la campanella:  si stanno portando i sacramenti a un Dio che muore". In forma anche più drammatica il filosofo conterraneo e contemporaneo Friedrich Nietzsche sceneggiava l'avanzata della morte di Dio con la celebre descrizione della Gaia scienza (1882) in cui un uomo grida per le strade l'annunzio ferale:  "Dio è morto! Noi lo abbiamo ucciso e le nostre mani grondano del suo sangue", mentre il lezzo della sua putrefazione inquina le nostre città. Bisogna, però, riconoscere che questo ateismo fiero e inquietante (si pensi, ad esempio, anche allo scrittore Albert Camus) - che aveva sollecitato persino una "teologia della morte di Dio" - è ormai quasi estinto e ha lasciato spazio a una sorta di scimmiottatura, fatta di sberleffi sarcastici irreligiosi, come si può dimostrare attraverso i vari libelli alla Odifreddi, Onfray, Hitchens, Dawkins e così via.


È forse sorprendente, ma è ancor oggi la Bibbia a indicarci meglio le tre tipologie di non credenza che attualmente possiamo classificare a livello culturale. L'ateismo rigoroso sopra descritto è da ricercare nell'idolatria che genera pagine veementi nelle Scritture. È la tentazione di sostituire se stessi o un dato storico immanente alla trascendenza divina:  pensiamo al materialismo dialettico marxista, ma anche allo Spirito immanente all'essere e alla storia nella concezione idealistica hegeliana o all'umanesimo ateo che pone l'uomo come misura e senso esclusivo di tutto l'essere e l'esistere. San Paolo nel primo capitolo della Lettera ai Romani vede nella sostituzione della verità divina con un sistema su propria immagine e interesse la sorgente della degradazione morale.


C'è, però, un secondo modello biblico da considerare:  è l'incredulità. Non è la negazione teorica e programmatica di Dio quanto l'affermazione della sua distanza o irrilevanza nella storia. Sotto questo schema potremmo rubricare la vera forma dominante di non credenza, la cosiddetta indifferenza religiosa. La figura di Dio non deve interferire nelle vicende umane, non dev'essere principio di scelte esistenziali, deve rimanere nel limbo della sua remota trascendenza. Dio non lo si combatte, ma lo si ignora perché considerato una realtà inattuale e, comunque, disturbante.


È paradossale, ma a questa particolare tipologia di incredulità dev'essere associata anche una certa forma di religiosità contemporanea, fluida e sottile, che produce surrogati spirituali e cocktail religiosi che fondono sincretisticamente spezie di fedi diverse. Forse il modello più espressivo è quello della New Age, divenuta poi Next Age, un percorso che evita ogni discorso serio e severo, un itinerario consolatorio che esclude l'inquietudine agostiniana della ricerca - "finché si è inquieti, si può stare tranquilli", ammoniva Julien Green -, un'esaltazione della spiritualità eterea che ignora il peso del peccato e le insorgenze del reale drammatico e del tragico della storia.


La terza tipologia biblica è quella dell'assenza misteriosa di Dio. Essa, però, fa parte della stessa esperienza di fede e ruota attorno alla domanda che sale verso l'alto di fronte allo sconcerto degli scandali del male, del dolore, della morte:  "Dov'è Dio?". Questo interrogativo rivolto al Dio muto e apparentemente assente scandisce l'intero itinerario di Giobbe, che è in verità un vero credente anche quando le sue parole acquistano iridescenze blasfeme e quando ripete:  "Io grido a te e tu non rispondi!". È la situazione di Qohelet che si sente coinvolto e avvolto dal non-senso (habel, "vuoto, vanità") della storia e dell'essere e si trova di fronte a un cielo muto e a un Dio taciturno. È, allora, necessario - quando si affronta il fenomeno dell'ateismo - operare una serie di distinzioni, ricordando che il confronto anche culturalmente più arduo non è tanto con l'idolatria-ateismo autentico, che è vissuto con sincerità come una vera visione della vita, quanto piuttosto con l'indifferenza-incredulità, realtà sfuggente e ambigua.


Essa è simile a una nebbia difficile da diradare, non conosce ansietà e domande, si nutre di stereotipi e di banalità, si accontenta di vivere in superficie, sfiorando i problemi fondamentali, secondo l'ormai notissima immagine del Diario di Søren Kierkegaard:  "La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani". I mezzi di comunicazione di massa, infatti, ci insegnano tutto sulle mode e i modi di vivere, ma ignorano il significato ultimo dell'esistere, l'inquietudine della ricerca interiore, le interrogazioni radicali sull'oltre e sull'altro rispetto a noi e al nostro orizzonte. Un conto è avere a che fare con la notte dello spirito dell'ateo o del credente (alla Giovanni della Croce o alla Meister Eckhart o alla Angelo Silesio) e un conto è avere a che fare con quella che già il filosofo Martin Heidegger, nei Sentieri interrotti, chiamava "il tempo della notte del mondo, ossia il tempo della povertà del mondo, quella di non riconoscere più la mancanza di Dio come mancanza". Ed è purtroppo questa la dominante della non credenza nell'attuale mondo secolarizzato.


Quale strategia sia da adottare di fronte a una simile temperie culturale grigia è piuttosto difficile da programmare. Certo è che le Chiese non devono rassegnarsi a inseguire questa deriva, scegliendo la strada dell'adattamento, riducendo la religiosità a una spiritualità debole e inoffensiva, che si accontenti del minimo, sia pure con la continua consapevolezza che non si deve spegnere la fiammella vacillante. È, invece, da calibrare innanzitutto un linguaggio che sia percepibile a queste orecchie ostruite dai rumori di fondo della società, dal brusio informatico, dalla distrazione superficiale. Un linguaggio che sappia anche ricorrere alle categorie deboli di questa cultura, ma ne induca altre forti, quasi come una spina nel fianco, una provocazione nella mente. Fuor di metafora, è necessario procedere verso la proposta di alcuni contenuti radicali che riescano ad artigliare la coscienza intorpidita, anche se per un istante, aprendole una ferita.


Intendiamo riferirci ai cosiddetti temi ultimi, che inesorabilmente attraversano l'esistenza di tutti:  la vita e la morte, il dolore e il male, l'amore e il tradimento, il mistero e la trascendenza, la verità e il falso, la prevaricazione dell'ingiustizia e la solidarietà, il mondo con le sue bellezze, i suoi segreti e la sua tutela, e infine come apice lo Spirito, Dio, il Vangelo. È, quindi, necessario ritornare alle grandi narrazioni, ai simboli capitali, alle idee pesanti, espresse in modo incisivo e provocatorio, senza facili sconti, pur nella lievità e chiarezza della comunicazione contemporanea. Accanto a questo vero e proprio attacco, che "incida ferite nei campi dell'abitudine" tipica dell'"incredulo" - per usare un'espressione suggestiva della poetessa ebrea tedesca Nelly Sachs - occorre non abbandonare neanche l'orizzonte delle realtà "penultime".






(©L'Osservatore Romano - 22 ottobre 2008)


domenica 19 ottobre 2008

La mamma dei cretini è sempre incinta

Un’altra giornata di
manifestazioni nelle università
napoletane. Il cuore della rivolta,
come prevedibile, è la Federico
II, e precisamente la facoltà di
Lettere, a Porta di Massa: ieri
mattina è convogliato lì un corteo
di 300 studenti che si sono uniti
all’assemblea permanente nella
riunione - presidio del cortile, per
discutere dello smantellamento
del comparto pubblico
dell’Istruzione e della Cultura. La
seconda tappa è stata la riunione
del Senato accademico: durante
l’occupazione del Rettorato di
qualche giorno fa Trombetti ha
negato il suo aiuto alla causa
degli studenti, o meglio, di quella
parte che chiede il blocco
immediato della didattica e la
discussione di un nuovo piano
per le università. Così i
componenti della Rete degli
universitari in movimento,
affiancati dai dottorandi e
ricercatori e dagli studenti medi,
si sono rivolti direttamente al
Senato, chiedendo di poter
leggere e discutere un
documento. Permesso negato:
l’organo collegiale ha sciolto la
seduta, rifiutando di riunirsi alla
presenza dei giovani. Maggior
successo nell’assemblea di
facoltà di Lettere, dove i ragazzi
sono riusciti a leggere il
documento ricevendo l’appoggio
di qualche docente. I professori si
sono riservati di esprimersi, ma
per ora non vogliono il blocco
della didattica pur avendo
ascoltato le ragioni degli
studenti. La protesta, comunque,
non si limita alla Federico II, e
mentre in alcuni licei si inizia a
parlare di occupazione, il Senato
accademico dell’Orientale ha
convocato un’assemblea per il 22
mattina nel palazzo di via
Marina: per quel giorno tutte le
attività didattiche sono sospese.
«Con la riforma i lavoratori
precari dell’Università subiscono
un duro colpo - spiega Aldo, della
rete dei ricercatori - Rettore e
docenti non sembrano
interessati, ma forse è perché i
loro stipendi non vengono toccati
». E Diego, uno degli studenti in
assemblea permanente, fa
notare: «La Gelmini vuole
cancellare il ’68, ha iniziato con il
grembiule. Credo che scuola e
università debbano fermarsi per
ragionare». Ma c’è chi condanna
le proteste: «È inaccettabile che
una sparuta minoranza
impedisca al corpo studentesco di
esercitare il proprio diritto allo
studio - afferma Alessandro
Sansoni, responsabile provinciale
del dipartimento Cultura e
Università di An - la Sinistra si
ostina a difendere uno stato di
cose insostenibile, sobillando la
piazza e facendo
disinformazione».
Antonella Scutiero

sabato 18 ottobre 2008

Una Chiesa che ascolta sa anche predicare e celebrare

Il Sinodo tira le somme del dibattito in aula

L'impegno per una Chiesa "più ascoltatrice che missionaria", fatta di fedeli preparati oltre che di specialisti; l'attualizzazione della Dei Verbum nella pastorale ordinaria dei vescovi; la testimonianza data ai fratelli protestanti, che danno molto peso alla lettura delle Scritture, e l'apertura di nuove frontiere per il dialogo ecumenico e interreligioso. Sono questi i temi emersi dalla prima parte dell'assise sinodale.
Consegnata alla discussione dei circoli minori la Relazione dopo il dibattito, i padri sinodali cominciano a tirare le somme di questa dodicesima assemblea generale giunta a metà dell'opera. La conferenza di ieri, svoltasi nella Sala Stampa della Santa Sede, ha fatto il punto della situazione evidenziando gli argomenti al centro delle riflessioni "a porte chiuse" nei vari gruppi linguistici, chiamati a formulare le proposizioni che confluiranno nel messaggio conclusivo. Ed è per questo che alle domande dei giornalisti accreditati hanno risposto il presidente della Commissione per l'informazione, il cardinale ghanese Peter Kodwo Appiah Turkson; due dei presidenti delegati, il cardinale William Joseph Levada, successore di Ratzinger alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede, e il porporato brasiliano Odilo Pedro Scherer; e il vescovo filippino Luis Antonio G. Tagle, in rappresentanza della Chiesa asiatica molto attiva sul piano del contributo alla riflessione generale.
Punto di partenza per l'incontro con la stampa proprio la Relatio post disceptationem, definita dal cardinale Turkson un documento differente dall'Instrumentum laboris e dalla Relazione prima della discussione, perché ha un carattere più dialogico e una struttura più semplice con esposizione tematica. Essa si conclude inoltre con un elenco di diciannove domande, che costituiscono una sorta di guida per i padri sinodali.
Nel corso della conferenza tra i temi sono emersi soprattutto il risveglio dell'interesse della Chiesa cattolica per la Parola di Dio - che interpella non solo i vertici della gerarchia ma l'intero popolo di Dio - e la volontà dialogante di quanti sono stati invitati a parlare a questa dodicesima assemblea: con gli ebrei, prima di tutto, attraverso una lettura più approfondita dell'Antico testamento, troppo spesso dimenticato dai cattolici; con i musulmani, basandosi su principi comuni come la lotta alla secolarizzazione e l'affermazione dell'importanza sociale della religione; e con le grandi religioni asiatiche, a partire dal comune senso del sacro e dai valori condivisi presenti nei testi di riferimento.
Un dialogo che deve essere dunque anche interculturale, poiché al di là della regola d'oro del rispetto reciproco, la Bibbia può rappresentare un codice di lettura per superare le divisioni, anche nelle zone più remote dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina, in cui sono forti le tradizioni locali.
A maggior ragione i libri sacri hanno una valenza ecumenica, perché possono essere letti alla luce dell'incarnazione di Gesù: le Chiese cristiane, a differenza delle altre, condividono la fede in una persona, il Dio fattosi uomo. In questo campo c'è molta collaborazione e i padri hanno più volte sottolineato le esperienze di traduzioni fatte congiuntamente con le società bibliche di altre Chiese e confessioni, auspicando studi sereni in materia di unità, perché spesso le divisioni hanno origine proprio dall'interpretazione non concordante della Scrittura.
All'interno della Chiesa si ravvisa la necessità di una maggiore attenzione alla Parola di Dio e di un più approfondito dibattito riguardo alla "tensione" - così l'ha definita il cardinale Levada - tra esegesi e teologia, che può essere interpretata con le categorie della fede e della ragione: "Fides et ratio". La Parola di Dio - ha puntualizzato il porporato - va interpretata nel senso della fede della Chiesa: ecco allora che esegesi e teologia si integrano vicendevolmente. Quasi un invito a non mettere in contrapposizione Bibbia e tradizione, ma al contrario a chiarire le indicazioni di Benedetto XVI sul piano interpretativo. Ai padri sinodali - ha detto il cardinale prefetto - il Papa ha ricordato che "per leggere la Bibbia la scienza è fondamentale ma non sufficiente e che il metodo storico-critico va completato con la lettura della fede".
L'intervento del porporato statunitense conteneva anche un richiamo al discepolato, alla formazione di chi ascolta la Parola, che deve avvenire per mezzo di una maggiore diffusione dei testi biblici. Qualcuno - è intervenuto il cardinale Scherer - ha auspicato che la Bibbia diventi un testo di studio diffuso. Tuttavia - ha concluso monsignor Tagle - "non va mai imposta, soprattutto nelle scuole pubbliche; ma potrebbe essere proposta per quelle cattoliche".
La rinnovata attenzione ai sacri testi pare dunque il "marchio di fabbrica" di questo Sinodo, che ha però anche implicazioni di carattere sociale: "Gesù ascolta soprattutto quanti non hanno voce - ha spiegato il vescovo filippino -, per questo spero che dai lavori sinodali la Chiesa sappia farsi interprete dell'ascolto di tutti coloro che si trovano all'ultimo posto della società. Perché - ha aggiunto - una Chiesa che non sa ascoltare i poveri non sarà in grado di celebrare ciò che predica".
Infine un'annotazione: questo è il sinodo con la maggior presenza femminile: venticinque donne tra uditrici ed esperte. A chi faceva notare la mancanza di interventi delle bibliste è stato risposto che nessun esperto, nemmeno tra gli uomini, ha potuto prendere la parola in aula, mentre lo hanno fatto quindici uditrici; e che nei circoli minori le donne bibliste stanno dando il loro contributo attivo e determinante. (gianluca biccini)


(©L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2008)

Ricerca di verità è ricerca di una Persona


Anticipiamo la conclusione della relazione dell'arcivescovo rettore della Pontificia Università Lateranense, e presidente della Pontificia Accademia per la Vita, al convegno "Fiducia nella Ragione". Nella prima parte il relatore analizza le cause che, lungo lo sviluppo del pensiero umano, hanno portato allo smarrimento di una visione unitaria e, per contro, alla frammentarietà del sapere; soprattutto nelle scienze empiriche. Se da un lato la specializzazione ha favorito l'approfondimento di alcune conoscenze, la frammentazione che si è sostituita all'unità si traduce di fatto in una duplice sfiducia nei confronti della ragione nel cogliere la verità e nel credere che esista ancora una sola verità. La separazione creata tra filosofia e scienza, tra filosofia e religione, tra società e individuo, tra politica ed economia ha indebolito la cultura ingenerando una crisi d'identità frutto di un relativismo referenziale nei valori costitutivi della cultura stessa. Con la secolarizzazione viene meno la certezza della verità. Anzi l'idea di raggiungerla sarebbe solo illusione. Tolta ogni certezza veritativa l'uomo stesso viene disintegrato. Ridotto alla polvere primigenia ormai può solo sperare nel soffio rigenerante della Parola di Dio.

di Rino Fisichella

È importante una breve ermeneutica di Fides et ratio per verificare più direttamente il pensiero sottostante. Il numero che contiene il richiamo all'unità del sapere è inserito all'interno del settimo e ultimo capitolo dell'enciclica, "Esigenze e compiti attuali". Già il titolo lascia trasparire l'idea sottostante: al termine della sua riflessione, il Papa intende diventare propositivo circa il compito che spetta alla Chiesa nel dare risposta al rapporto tra fede e ragione. Il contesto immediato del nostro numero parte dall'evidenziare le "esigenze irrinunciabili della Parola di Dio". La Sacra Scrittura - sostiene Fides et ratio - presenta in sé una visione filosofica dell'uomo e del mondo che coniuga insieme rivelazione e intelligenza personale: "La convinzione fondamentale di questa "filosofia" racchiusa nella Bibbia è che la vita umana e il mondo hanno un senso e sono diretti verso il loro compimento, che si attua in Gesù Cristo" (80). La creazione, l'uomo all'interno di essa, il problema del male e della libertà pongono la questione del senso in maniera inevitabile e richiedono una risposta. Il cristianesimo, inoltre, pone il mistero dell'incarnazione come la chiave interpretativa dell'enigma umano e della storia. Per questo Fides et ratio può concludere: "In questo mistero le sfide per la filosofia si fanno estreme, perché la ragione è chiamata a far sua una logica che abbatte le barriere in cui essa stessa rischia di rinchiudersi. Solo qui, però, il senso dell'esistenza raggiunge il suo culmine. Si rende intelligibile, infatti, l'intima essenza di Dio e dell'uomo" (80). La logica dell'enciclica prosegue nel mostrare l'attuale "crisi di senso" e la conseguente "frammentarietà del sapere" per il moltiplicarsi delle risposte che giungono dal pluralismo delle conoscenze scientifiche. La presenza di un inevitabile acuirsi del relativismo, non solo nell'ambito gnoseologico, ma purtroppo anche in quello etico, spingono Giovanni Paolo II a identificare alcune "esigenze" che la filosofia dovrebbe fare proprie se vuole rimanere nell'orizzonte di una conoscenza coerente alla sua epistemologia. L'unità del sapere, pertanto, viene identificato da Fides et ratio nel recupero della "dimensione sapienziale" (81) da parte della filosofia: "È necessario, anzitutto, che la filosofia ritrovi la sua dimensione sapienziale di ricerca del senso ultimo e globale della vita. Questa prima esigenza, a ben guardare, costituisce per la filosofia uno stimolo utilissimo ad adeguarsi alla sua stessa natura. Ciò facendo, infatti, essa non sarà soltanto l'istanza critica decisiva, che indica alle varie parti del sapere scientifico la loro fondatezza e il loro limite, ma si porrà anche come istanza ultima di unificazione del sapere e dell'agire umano, inducendoli a convergere verso uno scopo e un senso definitivi. Questa dimensione sapienziale è oggi tanto più indispensabile in quanto l'immensa crescita del potere tecnico dell'umanità richiede una rinnovata e acuta coscienza dei valori ultimi" (81). Questo orizzonte sapienziale, di fatto, ruota attorno alla domanda di senso, al riconoscimento che la ragione è capace di conoscere la verità e alla dimensione metafisica del sapere. In altri termini, l'enciclica propone la via per il raggiungimento dell'unità del sapere nel superamento della conoscenza relegata alla sfera della sperimentazione o delle scienze empiriche: "Desidero solo affermare che la realtà e la verità trascendono il fattuale e l'empirico, e voglio rivendicare la capacità che l'uomo possiede di conoscere questa dimensione trascendente e metafisica in modo vero e certo, benché imperfetto e analogico" (83).
Prima di giungere al nostro testo, Fides et ratio compie un ultimo passo che ritengo essere determinante. In una battuta, si viene a identificare il percorso che nel versante filosofico e teologico di dovrebbe compiere: "Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l'interiorità dell'uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge. Un pensiero filosofico che rifiutasse ogni apertura metafisica, pertanto, sarebbe radicalmente inadeguato a svolgere una funzione mediatrice nella comprensione della Rivelazione" (83). Se si vuole, si è dinanzi solo a un cambiamento terminologico, ma il concetto permane identico. La sfida che si deve compiere è quella di ritrovare l'unità del sapere come condizione non solo per la filosofia e la teologia di poter dialogare tra di loro su contenuti autonomi e pur sempre reciproci, ma soprattutto per essere in grado di fornire al nostro contemporaneo la risposta di cui ha insaziabile bisogno: quella del senso. Privo di questo orizzonte di senso della propria esistenza, cade nei tentacoli della sola conoscenza empirica, sperimentale e diventa incapace di comprendere a pieno il suo mistero, la sua vocazione e il progetto della sua personale esistenza in questo mondo e in questa storia.
L'accenno conclusivo dell'enciclica al fatto che è necessaria una filosofia capace di svolgere un ruolo di mediazione con il peculiare sapere che proviene dalla rivelazione, permette di addentrarsi in un'ulteriore considerazione. L'unità del sapere ha un suo profondo richiamo e fondamento nell'istanza rivelativa perché il mistero dell'incarnazione fa emergere nello stesso tempo sia la verità offerta a ognuno nella storia che è chiamato a vivere sia la risposta ultima e definitiva alla domanda di senso. Il cristianesimo vive della rivelazione di Dio nella storia. Resta, inevitabilmente il grande problema ancora irrisolto per molti versi: come riuscire a individuare all'interno della Parola di Dio quanto è oggetto di rivelazione per la nostra salvezza. Qui subentra la tematica del rapporto verità rivelata e interpretazione della Scrittura. È innegabile che siamo dinanzi a un'istanza ermeneutica a cui nessuno può sottrarsi; questa, comunque, non può rifiutarsi di confrontarsi con l'istanza veritativa immessa nella rivelazione di Gesù Cristo. Quanto Gesù ha rivelato non può essere confinato nello spazio del suo tempo; proprio perché è "rivelazione" di Dio all'umanità nella storia, porta con sé l'istanza di universalità che non le può essere tolta. È evidente che siamo dinanzi alla pretesa cristiana di presentare un evento particolare che ha in sé le caratteristiche universali.
Se si accetta l'esigenza dell'unità del sapere è necessario, pertanto, ritornare alla questione di sempre: il senso dell'esistenza. Non tanto, quindi, perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla, ma perché io esisto in questo tempo e cosa sarà della mia vita dopo il tempo che mi è concesso di vivere. Diverse scappatoie sono già state trovate nella storia del pensiero; eppure non hanno esaurito la domanda. Al contrario, essa permane con la sua forza di provocazione che attende una risposta che soddisfi. L'identità personale, d'altronde, è intimamente legata con la risposta che ogni singola persona è in grado di addurre. Il fondamento su cui costruire non è unico; il problema è se esso sia realmente in grado di tenere insieme la persona nella pluralità delle sue manifestazioni e nella dinamica della sua esistenza in relazione agli eventi e alle esperienze che compie.
L'unità del sapere, alla fine, trova proprio nella possibilità di incontrarsi con la fede il suo termine ultimo. La fede non è un atto estraneo alla persona, ma è il suo esprimersi in pienezza di libertà. Non è un caso che la concezione cattolica della fede richieda che ogni atto sia carico di intelligibilità. L'assioma classico fides si non intelligitur nulla est, ha la sua valenza veritativa proprio in questa unità profonda che lega fede e conoscenza. Non una a scapito dell'altra né una in competizione con l'altra; entrambe vivono di un profondo equilibrio che consente di vedere attuato il desiderio di ogni persona di conoscere la verità e di poterla raggiungere. Il senso dell'esistenza, pertanto, si fonda su un'unità che abbraccia in sé ciò che è peculiare del cristianesimo: un'attenzione a tutta la persona, senza sminuirla in nulla, nella sua capacità di poter abbandonare se stesso in un atto di amore pieno e duraturo in colui che è la sorgente stessa dell'amore. Il senso di un percorso trova il suo fine nella realizzazione di ciò che aveva spinto il suo movimento iniziale: il senso alla luce dell'amore.
Con ragione, quindi, Fides et ratio può affermare: "L'uomo si trova in un cammino di ricerca, umanamente interminabile: ricerca di verità e ricerca di una persona a cui affidarsi. La fede cristiana gli viene incontro offrendogli la possibilità concreta di vedere realizzato lo scopo di questa ricerca. Superando lo stadio della semplice credenza, infatti, essa immette l'uomo in quell'ordine di grazia che gli consente di partecipare al mistero di Cristo, nel quale gli è offerta la conoscenza vera e coerente del Dio Uno e Trino. Così in Gesù Cristo, che è la Verità, la fede riconosce l'ultimo appello che viene rivolto all'umanità, perché possa dare compimento a ciò che sperimenta come desiderio e nostalgia" (33).



(©L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2008)

Una meravigliosa architettura

Il cardinale segretario di Stato e il rettore della Pontificia Università Lateranense rileggono la «Fides et ratio»

Pubblichiamo la prima parte dell'intervento del porporato al convegno "Fiducia nella Ragione" in corso alla Pontificia Università Lateranense in occasione del decimo anniversario dell'enciclica Fides et ratio.

di Tarcisio Bertone

Da Papa Benedetto XVI questa mattina avete avuto modo di ascoltare una parola di incoraggiamento e di stimolo a riflettere e difendere la "fiducia nella ragione", come recita il tema di questo vostro incontro. La verità della rivelazione - vi ha ricordato - non si sovrappone a quella raggiunta dalla ragione, ma la purifica e la innalza permettendo così di dilatare i propri spazi per inserirsi in un campo di ricerca insondabile come il mistero. Queste tematiche sono molto care al Papa e non tralascia occasione per affrontarle da angolature diverse e convergenti. Penso, tra l'altro, alla magistrale lezione di Ratisbona, al discorso non pronunciato per l'Università romana della Sapienza e a quello più recente pronunciato al Collège des Bernardins a Parigi, nell'incontro con il mondo della cultura. Tutto questo in continuità con ciò che ha caratterizzato il suo passato di teologo, di pastore e soprattutto di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. E precisamente in questa veste ha dato un contributo determinante all'elaborazione della Fides et ratio. Quale segretario di questo dicastero, ho avuto l'onore e il piacere di collaborare con il cardinale Ratzinger in tutto l'iter che ha portato alla pubblicazione di detta enciclica. E, proprio facendo appello a ricordi ed esperienze personali, cercherò di ricostruire questi interessanti momenti e fasi sviluppando brevemente il tema che mi è stato affidato: "Genesi dell'elaborazione dell'enciclica: testo e contesto".
Certo, ampio potrebbe essere il discorso, ma per esigenze di tempo riassumerò i vari passaggi, lasciando ad altre occasioni ulteriori approfondimenti. Inizierò con una sintetica analisi di quella che vorrei chiamare preistoria dell'enciclica.
Il tema del rapporto tra fede e religione e tra verità e libertà è sempre stato a cuore a Papa Giovanni Paolo II. Karol Wojtyla come professore di filosofia e antropologia, si era sempre interessato delle correnti filosofiche contemporanee e, da Papa, amava organizzare a Castel Gandolfo, durante il soggiorno estivo, dei meeting con professori ed esperti di varia estrazione. Pertanto già nel 1986, colpito da ciò che diverse mode culturali andavano sempre più diffondendo, la dimissione cioè della ragione dalla sua capacità di conoscere il vero, aveva stilato un progetto di documento esattamente sul nostro tema, di una decina di pagine.
Poi però, emergendo sul panorama mondiale tutta una serie di problemi morali di fondo - per esempio: l'esistenza del vero morale, la possibilità di definire il bene e il male oggettivo (l'intrinsece malum), e così via - come pure una catena di problemi morali specifici, particolari, o categoriali, come quelli concernenti la bioetica, egli preferì dare la precedenza a un'enciclica che affrontasse tali "emergenze dottrinali e morali" e pubblicò nel 1993, quindici anni or sono, la Veritatis splendor. Non volle tuttavia accantonare il tema precedente e il promemoria del Papa fu consegnato e spiegato a un illustre esperto, il belga professor André-Mutien Léonard, per una elaborazione organica di un progetto. Ma egli fu nominato vescovo di Namur nel 1991. Così il testo passò al gesuita padre Peter Henrici, della Gregoriana, perché stendesse una prima bozza di enciclica. Così fece, ma anch'egli nel 1993 fu nominato vescovo ausiliare di Coira in Svizzera, e quindi non potè proseguire nell'impresa.
A ogni modo, un primo testo organico poté essere presentato, nel 1995, alla plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, composta da cardinali e vescovi esponenti della cultura internazionale - come Ratzinger, Lehmann, Eyt, Biffi, Tettamanzi, Connell, Pell, Cañizares, e così via. Dalle osservazioni emerse in quella sede, grazie anche all'aiuto determinante di esperti consultori, fu articolata una nuova redazione consegnata al Santo Padre, il 18 giugno 1996, durante un incontro di studio. Il Papa portò con sé il testo durante le vacanze in Valle d'Aosta nel luglio 1996. Studiò la bozza con due amici polacchi, il professor Tadeusz Styczen e monsignor Józef Zycinski, e, di ritorno a Roma, inviò il testo alla Congregazione per la Dottrina della Fede con ben ottanta pagine di osservazioni. Nel frattempo l'enciclica, data in esame a una mezza dozzina di filosofi ecclesiastici e laici, che a loro volta stilarono i loro rilievi e suggerimenti, fu rielaborata e nuovamente messa nelle mani del Santo Padre e contestualmente, come è prassi, data in visione al teologo della Casa Pontificia, l'allora padre Georges Marie Martin Cottier. Giungiamo così all'estate del 1997, quando il Papa, durante le vacanze estive, si dedicò a rivedere l'editio typica del Catechismo della Chiesa Cattolica, ma non trascurò la rilettura dell'enciclica. Bisogna ancora notare che, nel frattempo, era pronto anche un altro documento, di carattere liturgico: la lettera apostolica Dies Domini. Si pose allora il dilemma: pubblicare prima la Fides et ratio oppure la Dies Domini? Vinse la Dies Domini che fu pubblicata il 31 maggio 1998. Nel frattempo il testo della Fides et ratio era tra le mani del Papa e costantemente sotto i suoi occhi; egli volle ancora arricchirla citando al n. 74, accanto agli antichi, alcuni autori più recenti: per l'ambito occidentale, personalità come John Henry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain, Étienne Gilson, Edith Stein e, per quello orientale, studiosi della statura di Vladimir S. Solov'ev, Pavel A. Florenskij, Petr J. Caadaev, Vladimir N. Lossky. Il Santo Padre apportò ulteriori ritocchi e integrazioni, in costante intesa con il cardinale Joseph Ratzinger, coadiuvato dai consultori impegnati in tale importante impresa. Fu finalmente con la data del 14 settembre 1998 che si giunse al termine di questo itinerario che, in fin dei conti, è durato ben dodici anni. Durante il pranzo con il Papa, il 6 ottobre 1998, fu concordata la presentazione dell'enciclica; furono poi indicati i titoli di ventisei articoli su "L'Osservatore Romano" e altre iniziative a carattere pubblico.
Queste successive fasi, che ho rapidamente percorso, hanno portato alla stesura definitiva di un'enciclica che va considerata - quanto al suo testo, e vengo qui al secondo punto della mia relazione - come una meravigliosa costruzione architettonica articolata in sette capitoli, che offre una visione precisa, a tratti sofferta, del rapporto tra fede e ragione. Una costruzione che dimostra la solidità dell'inscindibile rapporto tra fede e ragione e di conseguenza tra filosofia e teologia, rapporto poggiante sui tre fondamentali pilastri descritti nei primi tre capitoli intitolati: il primo, La rivelazione sapienza di Dio, il secondo, Credo ut intellegam, e il terzo, Intellego ut credam.
Con il quarto capitolo entriamo nel vivo del tema con un approccio prevalentemente storico e qui, non a caso ritroviamo nel titolo la tematica stessa dell'enciclica: Il rapporto tra la fede e la ragione. Come in un meraviglioso affresco murale ci appaiono quindi le tappe fondamentali dell'incontro tra fides e ratio, dal discorso di Paolo all'Areopago, agli interventi di alcuni padri della Chiesa, e al grande teologo Tommaso d'Aquino, per poi giungere ai tempi moderni, dove sembra prevalere in larghi strati del pensiero, una perniciosa separazione tra fede e ragione. Con i successivi tre capitoli, il Papa offre a queste problematiche antiche e moderne le risposte sempre valide che formano il patrimonio dottrinale della Chiesa: il capitolo quinto parla degli Interventi del magistero in materia filosofica, nel capitolo seguente sono descritti i problemi dell'Interazione tra teologia e filosofia, e nel capitolo settimo le Esigenze e compiti attuali, esplicitando le esigenze della parola di Dio e i compiti irrinunciabili della teologia.
E siamo giunti alla conclusione dell'enciclica, nella quale, richiamandosi all'enciclica Aeterni Patris di Leone xiii, il Papa sottolinea nuovamente il valore della filosofia nei confronti dell'intelligenza della fede, il rapporto tra fede e ragione, e rivolge un appello a tutti - filosofi, teologi, formatori, scienziati, ricercatori, pastori e fedeli - chiedendo "di guardare in profondità all'uomo, che Cristo ha salvato nel mistero del suo amore, e alla sua costante ricerca di verità e di senso". "Diversi sistemi filosofici - egli aggiunge - illudendolo, lo hanno convinto che egli è assoluto padrone di sé, che può decidere autonomamente del proprio destino e del proprio futuro confidando solo in se stesso e sulle proprie forze". Ma - egli continua - "la grandezza dell'uomo non potrà mai essere questa. Determinante per la sua realizzazione sarà soltanto la scelta di inserirsi nella verità, costruendo la propria abitazione all'ombra della sapienza e abitando in essa. Solo in questo orizzonte veritativo comprenderà il pieno esplicitarsi della sua libertà e la sua chiamata all'amore e alla conoscenza di Dio come attuazione suprema di sé".



(©L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2008)

Imparò a conoscere le persone vivendo con loro

A trent'anni dall'elezione di Giovanni Paolo II il suo amico Stanislaw Grygiel ricorda l'attenzione del giovane Wojtyla per i laici

di WLodzimierz REdzioch

Filosofo, giornalista, allievo di Karol Wojtyla all'Università Cattolica di Lublino, Stanislaw Grygiel torna a riflettere sulla figura di Giovanni Paolo II a trent'anni dalla sua elezione al soglio pontificio. Amico personale del Papa polacco, e docente di Antropologia Filosofica all'Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, Grygiel è uno fra i più acuti pensatori contemporanei. Dal 1981 vive a Roma dove ha fondato, assieme ad altri, la rivista "Il nuovo aeropago".

Per capire l'atteggiamento di Giovanni Paolo II verso i laici bisogna conoscere l'attività pastorale di Karol Wojtyla, sacerdote prima e poi vescovo a Cracovia. Lei, professore, è stato legato al futuro Pontefice da legami di amicizia. Che cosa bisogna conoscere circa il lavoro pastorale di Wojtyla con i laici in Polonia?

La vita e il lavoro dell'uomo dipendono non solo da lui ma anche dall'humus che è costituito dalla storia, dall'ambiente e dalla cultura. Molto già è stato detto della storia e della cultura polacche, senza le quali non è possibile comprendere né la persona di Giovanni Paolo II né la sua azione pastorale. Poco conosciuto è invece l'ambiente di Cracovia, le persone decisive nella sua vita. Prima di tutto occorre ricordare la figura di Jan Pietraszko, grande sacerdote e vescovo, oggi servo di Dio, che in qualche modo mostrò al giovane sacerdote Wojtyla la via che conduce ai giovani. Giovanni Paolo II stesso ne diede testimonianza nel telegramma inviato a Cracovia alla morte del vescovo: "Tu mi hai aperto la via che porta a loro". Ricordo una cena dal Papa con il vescovo Pietraszko, che gli aveva portato in dono l'ultimo suo libro. A un certo punto il Papa gli disse: "Vescovo Jan, io imparo la teologia da te". Monsignor Pietraszko rimase assai perplesso e uscendo dall'appartamento pontificio chiese a me e a mia moglie: "Ditemi, il Papa l'ha detto sul serio, oppure scherzava? I miei libri sono per i parroci!". Ma il Papa, parroco del mondo intero, non aveva scherzato. Pietraszko è stato uno dei più grandi maestri della fede che la Chiesa polacca abbia avuto nel secolo scorso.

In che cosa consisteva il metodo pastorale di monsignor Pietraszko?

Non aveva alcun metodo concettualmente elaborato. Semplicemente, era sempre presente a noi giovani, in chiesa e fuori. Pregava con noi, pranzava con noi, meditava con noi, si divertiva con noi. Guardandolo, vedevamo in lui un modo affascinante di essere nel mondo. Affascinati, cercavamo la sorgente dalla quale egli, in ginocchio, attingeva l'acqua. Dal sacerdote che non sta in ginocchio si può imparare a bere dalla bottiglia bevande elaborate, artificiali, mai a bere pura acqua sorgiva. Sono loro due, Giovanni Paolo II e il vescovo Pietraszko, che ci hanno fatto vedere come la cultura consista nel saper coltivare la terra sulla quale l'uomo cresce e matura "per risorgere", secondo l'espressione di un grande poeta polacco spesso da loro citato, Cyprian Kamil Norwid. La cultura, ci dicevano, non si riduce all'erudizione. Anzi, nulla vi è di più pericoloso per la società degli eruditi privi della cultura che è "per risorgere". La cultura è pasquale o non è cultura. Grazie al loro essere con noi nacque una profonda amicizia, oserei dire un'amicizia per sempre, non solo tra loro e noi ma anche tra noi stessi. In quest'amicizia l'aiuto o, se si preferisce, il lavoro pastorale era reciproco. Loro aiutavano i giovani e i giovani aiutavano loro a cercare Dio e a camminare verso di Lui. L'agricoltore cresce e matura insieme con le piante affidate alla sua cura. Questo i due nostri vescovi lo sapevano perfettamente. Tra gli amici non ci sono barriere. Loro erano sempre accessibili e disponibili per noi. Potevamo andare quando volevamo. Si poteva bussare alla loro porta anche di notte. Le pecore non chiedono udienza ai loro pastori, li seguono giorno e notte. Se non sono in condizioni di farlo, è segno che sono pecore senza pastori.

Lei parlava della pastorale dei giovani, ma il futuro Pontefice si occupava anche delle famiglie, degli studenti, degli intellettuali.

Ho detto che i due vescovi crescevano e maturavano insieme con i giovani. Ma i giovani si sposavano e di conseguenza loro dovettero imparare a stare con gli sposi, e poi con i loro figli, che consideravano come dei nipoti spirituali. Don Wojtyla iniziò la propria attività pastorale con i giovani che facevano i chierichetti nella parrocchia di San Floriano a Cracovia. Con il tempo, da studenti i giovani si trasformarono in professori, medici, avvocati. Come anche Pietraszko, egli si vide allora "costretto" a fare la pastorale dei professori, dei medici, degli avvocati, dei giudici e così via. In questo modo, estendendo la propria azione pastorale, questi nostri vescovi ebbero l'opportunità di comprendere in modo originario, dalla realtà viva piuttosto che dai libri, cosa significhi il termine "laicato". Soprattutto attinsero "alla sorgente" la verità del matrimonio, della famiglia.

Non è possibile insegnare queste cose in seminario?

A vivere si impara vivendo. A fare facendo. Il problema è se i superiori del seminario sappiano o meno essere insieme con i seminaristi. Se sappiano coltivare quella terra sulla quale loro stessi e i seminaristi abbiano la possibilità di crescere e maturare. La pastorale non è una teoria ma una convivenza. Le teorie sono da mandare a memoria. La pastorale esige la saggezza che nasce negli uomini presenti l'uno all'altro. La conoscenza delle teorie può anche ostacolare la presenza reciproca delle persone, cioè le teorie della pastorale possono distruggere la pastorale stessa. Sulla pastorale si può discutere, fare convegni, pubblicare tanti documenti, ma la vera pastorale è lo scambio dei doni tra il sacerdote e il fedele. Questo Wojtyla lo sapeva molto bene.

In che modo la mancanza della libertà religiosa nella Polonia comunista influiva sui metodi pastorali della Chiesa?

Negando alla Chiesa ogni forma di attività pubblica, il regime comunista l'aveva paradossalmente costretta a vivere nelle relazioni puramente personali. Il nostro "essere insieme" lo dovevamo nascondere, poiché la polizia cercava di ostacolarlo e addirittura di distruggerlo. Grazie anche a questo, nella semiclandestinità, i rapporti di amicizia, di reciproca fiducia, diventando sempre più forti, ci rivelavano la bellezza della Chiesa, bellezza che ci rendeva liberi da tutto quello che è solo da possedere. Dio si serve anche di coloro che Lo negano.

Lei apprese la notizia dell'elezione del "suo" arcivescovo alla cattedra di Pietro a Cracovia e seguì i primi mesi del pontificato in Polonia. Che impatto ebbe l'elezione di Karol Wojtyla sulla vita dei cattolici polacchi?

Posso soltanto ripetere cose già note. La prima reazione dei polacchi fu di gioia, ma gioendo si resero conto delle nuove possibilità che quella notte si erano aperte alla loro patria, alla loro Chiesa. Compresero che d'allora in poi la Chiesa non avrebbe più dovuto svolgere il proprio lavoro pastorale nella semiclandestinità. I cattolici diventarono più coraggiosi e audaci: ne furono segno eloquente le manifestazioni popolari per le strade del Paese che, senza che alcuno avesse chiesto il permesso, durarono tutta la notte del 16 ottobre del 1978. Mi ricordo le discussioni di quella notte con gli amici: eravamo convinti che le frontiere della Polonia verso l'Occidente si sarebbero aperte e che prima o poi anche politicamente la Polonia sarebbe uscita dal blocco comunista. Prima si pensava che il comunismo sarebbe durato ancora generazioni, visto come gli intellettuali e i politici occidentali si lasciavano sedurre dalle parole e dal denaro della polizia segreta sovietica: quante volte proprio loro avevano tentato di convincerci che dovevamo adeguarci al comunismo! Fu il primo pellegrinaggio del Papa in Polonia nel 1979 a risvegliare nei polacchi la speranza un po' assopita da oltre quarant'anni di comunismo. In breve, in questi primi anni del pontificato cominciò a intravedersi l'aurora dei tempi nuovi, e non solo per la Polonia.

Giovanni Paolo II portò con sé a Roma tutto il bagaglio delle esperienze pastorali. Potrebbe spiegarci come questo fatto influì sul suo grande impegno nel campo della pastorale della famiglia, dei giovani, degli ambienti intellettuali e politici?

A Roma il cardinale Karol Wojtyla continuò a essere con gli altri come a Cracovia. Non cambiò nulla nel proprio comportamento. Non imponeva se stesso ad alcuno e d'altra parte non si chiudeva in quello che io chiamerei "isolamento pontificale". Per questo poteva assorbire la fede, la speranza e l'amore di tutti quelli che Dio affidava al suo lavoro pastorale ed esprimere poi questi doni con la forza propria della fede, della speranza e dell'amore di Pietro. Non pronunciava condanne, semplicemente confessava la fede della Chiesa, attendendo che tutti arrivassero a maturare, e lui con loro. Per Giovanni Paolo II la libertà dell'uomo era res sacra, cosa che egli aveva vissuto e quindi visto nelle tenebre dell'occupazione della Polonia prima da parte dei tedeschi e poi dei russi. Guardando al futuro della Chiesa, approfittava d'ogni occasione per incontrare gli sposi e le loro famiglie. Quella di fondare il Pontificio Istituto per Studi su Matrimonio e Famiglia, fu una decisione profetica. Quelli che si erano ormai abituati all'isolamento dei Pontefici rimasero addirittura scandalizzati nell'assistere all'abbattimento delle barriere un tempo erette a simbolo della dignità petrina. Giovanni Paolo II scrisse testi in gran numero. Non era però la parola scritta che egli cercava di dare agli altri ma faceva ogni cosa in modo che la sua vita diventasse parola, come Dio stesso l'aveva pensato per gli altri. Credo che il lavoro pastorale sia spesso soffocato dalla troppa carta: fare il pastore vuol dire "pascolare", cioè stare con il gregge. Cristo non scrisse nemmeno una riga, Egli è lettera pastorale vivente inviataci dal Dio vivente. È Lui e non un qualche suo testo a rimanere con noi. Agli uomini viventi Dio manda uomini viventi. Egli non è Dio dei morti.

Come mai Giovanni Paolo II si è speso tanto nella promozione dei movimenti laicali?

Perché egli vedeva la Chiesa come un grande, primordiale movimento. Già in Polonia aveva avuto modo di conoscere alcuni movimenti. Venivano da noi, di nascosto dall'occidente, rappresentanti di vari movimenti, in particolare di Comunione e Liberazione, di Notre Dame de Vie e dei Focolari. Il Metropolita di Cracovia coltivava intense relazioni con loro. Ricordo in modo particolare la figura del padre Francesco Ricci da Forlì. Tre anni dopo la sua morte, Giovanni Paolo II mi disse: "Io prego per padre Francesco Ricci ogni giorno durante la messa".
Per il cardinale Wojtyla ogni parrocchia avrebbe dovuto essere un movimento. Altrimenti non era parrocchia viva. Per lui era movimento ecclesiale ogni gruppo di persone radunate nell'Eucaristia celebrata dal sacerdote. Senza la presenza dell'Eucaristia i movimenti non sarebbero che partiti politici.

Chi ha avuto la fortuna di essere ospite di Giovanni Paolo II notava che nell'appartamento del Papa si respirava l'aria di famiglia. Il Pontefice era circondato non soltanto da segretari, suore e collaboratori, ma anche da tanti vecchi amici che frequentavano l'appartamento pontificio spesso con i loro familiari. La sua famiglia era una di quelle che veniva ospitata dal Papa. Cosa ricorda di questi incontri?

La semplicità e la bontà del Papa. I dialoghi con lui erano scambi di doni: egli ci donava la presenza della sua persona e noi, ricevendola, avevamo la sensazione di avergli donato la nostra. Aspettava gli altri, li cercava. Era per gli altri. Ed era uomo fedele. È proprio grazie a questa fedeltà nei confronti degli altri che con il loro aiuto egli apprese la verità di quell'alleanza che nell'amore due persone saldano per sempre. Con lo stesso rispetto offriva il suo tempo agli adulti e ai bambini. Una volta durante una cena da lui, mio figlio, che aveva allora otto anni, mi calciava sotto la tavola per farmi capire che voleva tornare a casa. Il Santo Padre se ne accorse e gli chiese: "Cosa c'è che non va?". E mio figlio senza tanti complimenti rispose: "Mi sto annoiando. Vorrei andare a casa". E il Papa: "Hai ragione. Io ti ho invitato da me e io non mi occupo di te. Devi scusarmi". E da quel momento, fino alla fine della serata, si mise a giocare e scherzare con lui. Per me fu una lezione su ciò che significa vivere per gli altri ed essere loro pastore.

Cosa le manca di Giovanni Paolo II?

Nulla, tranne ogni tanto la sua presenza fisica. Tutto ciò che era essenziale e proprio della sua persona è presente. La sua morte non ha distrutto nulla. Il nostro dialogo continua. Nel cuore della Chiesa, cioè nell'Eucaristia, non ci sono morti.



(©L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2008)

In Orissa il progetto degli estremisti va avanti passo dopo passo

Gli indù ripuliscono i terreni dove sorgevano le chiese per costruire i loro templi

Bhubaneshwar, 17. L'azione violenta dei gruppi fondamentalisti indù in Orissa continua a delinearsi sempre più come un preciso piano per estirpare ogni traccia di cristianesimo nello Stato. Il bilancio ha assunto i contorni di una reale epurazione: centottanta chiese distrutte, 4.500 case bruciate e razziate, oltre cinquantamila persone in fuga.
Fonti locali parlano di un'aggressività crescente che si va organizzando per rendere sempre più ostile la terra ai cristiani. Si è giunti persino, racconta ad AsiaNews padre Ajay Singh, "a criminalizzare i cristiani che sono attualmente ospitati nei campi rifugio allestiti dal governo". Padre Singh dirige un centro di iniziativa sociale, il "Jan Vikas", situato nel territorio dell'arcidiocesi di Cuttack-Bhubaneswar e, dopo aver visitato tre campi, racconta: "La nostra gente è trattata come animali. Hanno distribuito solo una coperta per famiglia; l'igiene e la sanità sono inesistenti". E aggiunge: "Ma ciò che è più tragico è che ai cristiani è proibito pregare: le forze di sicurezza continuano a vigilare in modo puntiglioso, perché questo non avvenga e proibiscono anche ogni aiuto a consolazione dall'esterno. Le donne, soprattutto, sono colpite da una profonda depressione".
Tutto questo, mentre all'esterno dei campi, spesso senza che le forze dell'ordine intervengano, la brutalità degli indù appare inarrestabile: proibiscono ai cristiani di incontrarsi e pregare; cercano di uccidere i nuovi convertiti; occupano il terreno delle chiese distrutte e cancellano ogni traccia dei cristiani. Secondo quanto infatti denuncia il Global Council of Indian Christians (Gcic), il Sangh Parivar, un'organizzazione politica che riunisce gran parte dei gruppi fondamentalisti, ha anche iniziato una "pulizia" dei terreni dove prima esistevano case di cristiani e chiese. Gli estremisti indù svellono le pietre delle fondamenta degli edifici, riempiendo poi le buche con la terra. Successivamente rimuovono i confini tra i campi agricoli di proprietà dei cristiani e se li spartiscono tra loro. Il presidente del Gcic, Sajan George, dichiara che l'intenzione dei fondamentalisti "è di appropriarsi con mezzi fraudolenti delle proprietà dei cristiani per costruire templi indù sulle terre dove una volta c'erano chiese e case".
Sulla persecuzione dei cristiani si è espresso, tra gli altri, il reverendo Samuel Kobia, segretario generale del World Council of Churches (Wcc), in questi giorni in visita in India. Per Kobia "il fondamentalismo religioso rappresenta una delle più gravi minacce nel mondo".
Sempre in India, si è aperto un dibattito sul tema delle conversioni, promosso dall'All India Christian Council (Aicc), in occasione della celebrazione dell'anniversario del "Dhammadiksha", il giorno nel quale l'estensore della Costituzione indiana, Bhimrao Ramji Ambedkar, scelse in piena libertà una nuova religione, dimostrando - è sottolineato - "che la conversione non è un crimine".
La discussione si inserisce nella difficile situazione che vede i cristiani, tra l'altro, essere accusati di proselitismo. Il presidente dell'Aicc evidenzia che l'organismo supporta la libertà di religione e la libertà di coscienza che include anche la conversione.
Da più parti si ribadisce che l'India riconosce la libertà di religione: la nazione ha firmato la Dichiarazione universale dei diritti umani, al cui articolo 18, si afferma che le persone devono restare libere di scegliere la propria religione. Nella Costituzione indiana, inoltre, all'articolo 25, si parla della garanzia al diritto di propagare la religione, che include anche la conversione.
La comunità cristiana è fortemente impegnata sul piano del dialogo interreligioso, nonostante le continue e ingiuste accuse di proselitismo fatte dagli estremisti. Tra l'altro, recentemente, un'associazione di studenti la Kandhamal Chatra Sangharsa Samiti (Kcss) ha chiesto una moratoria sulle conversioni fatte da organizzazioni non governative cristiane, per onorare l'opera dello Swami Laxamananda Saraswati, un fondamentalista indù che per molti anni ha agito in Orissa per fermare le conversioni cristiane.
La sua uccisione, avvenuta lo scorso agosto, per la quale è stata mossa accusa alla comunità cristiana, ha causato una violenta ondata di violenze in Orissa che ancora continua.
Dall'All India Christian Council si evidenzia che "il vero dialogo è la pietra d'angolo del nostro essere testimoni cristiani nella vita di tutti i giorni". Dalla riflessione in atto sulle conversione emerge, tuttavia, la necessità di promuovere una piattaforma stabile di collaborazione tra tutte le parti interessate. Dall'Aicc si propone, in particolare, di organizzare dei forum bilaterali o multilaterali tra leader religiosi per discutere le questioni principali e individuare le soluzione per mantenere vivi gli alti valori che hanno reso da secoli l'India uno dei modelli di democrazia nel mondo.



(©L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2008)
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Gli Stati Uniti e la difettosa bussola morale

Uno studio dei Cavalieri di Colombo rivela che l'84% dei cittadini vuole restrizioni all'aborto

di Marco Bellizi

Trentacinque anni dopo la celebre sentenza Roe vs. Wade, emessa dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, il fronte pro aborto registra consistenti arretramenti. Lo dimostra un sondaggio nazionale realizzato dal 24 settembre al 3 ottobre scorsi dal Marist College Institute of Public Opinion per conto dei Cavalieri di Colombo. Secondo i risultati del sondaggio, la percentuale dei favorevoli all'aborto libero in qualsiasi momento della gravidanza è sceso fino all'8% della popolazione. Mentre addirittura l'84% dei cittadini ritiene che vadano posti limiti più restrittivi all'interruzione volontaria di gravidanza. Risultati che mostrano un certo fermento nell'opinione pubblica statunitense rispetto ai temi morali. Aspetti che nella percezione della popolazione sono stati lasciati da parte, tanto che, dallo stesso studio reso pubblico dai Cavalieri di Colombo, si apprende che il 71% della popolazione è convinta che la "bussola morale del Paese sta attualmente indicando una direzione sbagliata". Percentuale che sale al 73% fra i cattolici.
Che il tema dell'aborto sia un tema caldo, entrato in parte anche nella campagna elettorale per le prossime presidenziali, lo dimostrano recenti e ripetuti interventi della conferenza episcopale degli Stati Uniti e varie iniziative a livello diocesano. L'ultima in ordine di tempo, quella del vicario generale di Washington, il vescovo Martin David Holley, il quale ha diffuso una dichiarazione destinata alla comunità di colore della capitale a seguito della pubblicazione di un altro studio che mostra come fra i neri la percentuale di aborti sia cinque volte superiore a quella del resto della popolazione: "Come afroamericano - ha affermato il vescovo - sono rattristato dal vedere che la donne nere continuano a essere l'obbiettivo dell'industria dell'aborto. La perdita di ogni bambino è una tragedia, ma noi dobbiamo chiederci: perché i bambini delle minoranze vengono abortiti in percentuali così sproporzionate rispetto al resto della popolazione?". La questione dell'aborto, secondo il presule, deve stare al centro della questione della stessa sopravvivenza della comunità afroamericana. Non è chiaramente solo un tema etico. Il riferimento all'industria dell'aborto non è casuale. Il vescovo Holley ha illustrato anche qualche cifra: all'organizzazione non profit Planned Parenthood, che si occupa appunto di programmazione famigliare, il governo federale, afferma il presule, ha elargito ogni anno circa 300 milioni di dollari: "Per la prima volta, l'anno scorso, Planned Parenthood ha raccolto più di un miliardo e ha realizzato profitti per 51 milioni". Il vicario generale di Washington ha rivolto un appello agli afroamericani a "difendere la nostra comunità ridedicandoci alla vita familiare e al matrimonio, promuovendo il dono della castità e della fedeltà matrimoniale, impegnando noi stessi a pregare e a servire gli altri e difendendo la vita e la dignità di ogni essere umano. Possiamo accogliere ogni bambino come dono e sconfiggere l'aborto".
Il sondaggio commissionato dai Cavalieri di Colombo è stato concepito per consentire il confronto fra il punto di vista degli elettori cattolici e quello del resto degli elettori sui temi morali. Agli intervistati si è chiesto fra l'altro di scegliere fra diverse affermazioni quale è più vicina al loro personale punto di vista sull'aborto. Il 32% degli intervistati ha risposto che l'aborto dovrebbe essere consentito solo in caso di stupro, incesto o per salvare la vita della madre; il 24% ha invece risposto che deve essere consentito solo nei primi tre mesi di gravidanza; il 15% che dovrebbe essere consentito solo per salvare la vita della madre; il 13% che l'aborto non dovrebbe essere mai consentito in nessuna circostanza. Il sondaggio inoltre rileva che solo il 15% di quelli che descrivono se stessi come pro-choice, a favore cioè della libertà di scelta, sono favorevoli all'aborto libero in ogni momento della gravidanza. Il 71% dei pro-choice ha dichiarato inoltre che vorrebbe al contrario restrizioni alla libertà d'aborto. Fra questi, il 43% limiterebbe l'aborto al primo trimestre e il 23% limiterebbe l'aborto ai soli casi di stupro, incesto o per salvare la vita della madre.
Il Cavaliere Supremo dei Cavalieri di Colombo, Carl A. Anderson, ha descritto i risultati del sondaggio come "indicativi del fatto che il termine pro-choice - quando applicato estensivamente - polarizza la discussione sull'aborto e maschera il fatto che c'è un largo consenso fra gli americani sul fatto che l'aborto dovrebbe essere significativamente ristretto".
Per quanto riguarda l'obbiettivo originario del sondaggio, quello cioè di studiare le convinzioni degli elettori cattolici sui temi morali rispetto al resto dell'elettorato, il sondaggio mette in evidenza come il 65% dei cattolici praticanti differiscano dal 35% che non lo sono. Per alcune tematiche il sondaggio mostra similitudini fra le convinzioni dei cattolici e quelle degli altri elettori, come l'intervento pubblico a favore dei poveri, l'amnistia per gli immigrati irregolari, sul riscaldamento globale del pianeta, sulle unioni civili e fra persone dello stesso sesso e sulla convinzione che l'economia sia il problema numero uno della nazione. Il 70% di tutti i votanti registrati così come il 70% di tutti gli elettori cattolici praticanti registrati afferma che voterebbe per un candidato che crede che il matrimonio sia solo quello fra un uomo e una donna, con una maggioranza di elettori in entrambi i casi che "assolutamente voterebbe per un tale candidato". Cattolici e non, come si accennava, sono d'accordo sul fatto che l'America necessita di un riaggiustamento morale. Il 71% di tutti i residenti e il 73% dei cattolici degli Stati Uniti credono che "la bussola morale del Paese attualmente punta nella direzione sbagliata". Tuttavia, su altri temi, gli elettori cattolici differiscono dall'elettorato nel suo insieme. Sono meno disponibili a votare per un candidato favorevole alla pena di morte, e più disposti a favorire un candidato che è impegnato a vincere la guerra in Iraq. Alcune delle differenze più evidenti si registrano all'interno della comunità degli elettori cattolici. Il 59% dei praticanti cattolici è pro-life, mentre il 65% dei non praticanti è pro-choice. I cattolici non praticanti sono molto più vicini dall'essere pro-choice che la popolazione in generale (65% contro il 50%). Solo il 30% dei residenti degli Stati Uniti è favorevole al matrimonio omosessuale mentre lo è il 46% dei cattolici non praticanti. Il 75% dei cattolici praticanti si oppone al matrimonio omosessuale. L'autorizzazione dei genitori per una figlia minorenne (sotto i 18 anni) che ha intenzione di abortire è necessaria secondo il 77% dei residenti degli Stati Uniti e l'84% dei praticanti cattolici.



(©L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2008)

Psiche e celibato I luoghi comuni

Le risposte a chi afferma che la rinuncia alla sessualità è una scelta innaturale

di Manfred Lütz
Psichiatra, consultore della Congregazione per il Clero

Il celibato è una provocazione. In un mondo che non crede più a una vita dopo la morte questa forma di vita rappresenta la protesta permanente contro la superficialità collettiva. Il celibato è il messaggio vissuto che annuncia che il mondo terreno, con le sue gioie e i suoi dolori, non è tutto. Questo fa inquietare molti, perché mette in discussione la loro concezione di vita. E non soltanto attraverso un testo oppure attraverso un discorso buttato lì, bensì attraverso un'evidente scelta di vita. Senza ombra di dubbio, se con la morte si concludesse tutto, il celibato sarebbe un'idiozia. Perché rinunciare all'amore intimo di una donna, perché rinunciare al toccante incontro con i propri figli, perché rinunciare alla sessualità? Solo se la vita terrena è un frammento che troverà nell'eternità il suo compimento, allora il celibato, come forma di vita, può mettere in luce questa vita che è, di fatto, ancora da riscuotere. Solo così, questa forma di vita annunzia a gran voce una vita in pienezza, che fu già intuita dagli uomini di ogni epoca (quale oggetto della loro Sehnsucht), la cui realtà è divenuta però visibile a tutti gli uomini solo attraverso l'incarnazione di Dio in Gesù Cristo, e in particolare, attraverso la Sua morte e la Sua Resurrezione miracolosa.
Gli oppositori del celibato non di rado insinuano che il celibato per amore del regno dei cieli, vissuto in un monastero, lontano dal mondo, non è da biasimare; tuttavia all'interno della comunità parrocchiale, "nel mondo", si dovrebbe permettere il ministero pastorale a viri probati, ossia a uomini sposati veterani (dunque "provati"). Spesso sono le stesse persone a volersi sbarazzare delle differenze nette tra sacro e profano, tra clero e laici, e, ancora, tra temi mondani ed ecclesiastici. Certamente, la fede in un Dio che si è fatto uomo costituisce una massiccia irruzione della sacralità nella secolarità. I primi cristiani avvertivano chiaramente che i vecchi concetti pagani di sacro e profano non potevano essere semplicemente trasferiti al cristianesimo. Non esisteva più una brusca separazione. I cristiani percepirono che il cristianesimo era "una differenza che fa la differenza", come si direbbe oggi nella terapia sistemica.
Tale differenza, che faceva la differenza, tuttavia sembrò essere minacciata dopo la svolta costantiniana. Improvvisamente le posizioni direzionali nell'impero furono occupate da cristiani. L'essere cristiano, per dirla in modo laico, non era più uno svantaggio, bensì un vantaggio. Il cristianesimo sembrò correre il pericolo di arenarsi. E, proprio in quest'epoca, il celibato iniziò la sua marcia trionfale. Noi sappiamo oggi che il celibato aveva già radici apostoliche, tuttavia divenne ora l'ancora di salvataggio spirituale per una Chiesa promossa dall'imperatore e dall'impero. Come responsabili delle comunità si vollero ben presto dappertutto uomini celibi.
La grande stima verso questa forma di vita si protrae lungo tutta la storia della Chiesa. Già il Sinodo di Elvira (306-309), ma poi soprattutto la riforma gregoriana dell'xi secolo e le riforme successive al grande Concilio di Trento si sforzarono di dare luce e risalto al sacro celibato. Viceversa, nei tempi di debolezza per la Chiesa, anche il celibato entrò in crisi. All'inizio del xix secolo si sviluppò, nell'attuale arcivescovado di Friburgo, un "movimento anticelibato" sostenuto da 156 sacerdoti. Quando poi nel xix secolo si arrivò inaspettatamente alla nuova ascesa della Chiesa cattolica, la campagna anticelibato si dissolse da sé. Anche durante la crisi successiva al concilio Vaticano ii fu nuovamente il sacro celibato a finire sotto tiro. Eppure proprio nei movimenti spirituali, nuovamente rifioriti, il celibato godette di rinnovata grande considerazione.
Il padre della psicologia moderna, Sigmund Freud, in nessun modo simpatizzante per la Chiesa e il cristianesimo, ha saputo strappare in modo magistrale ai movimenti paleocristiani a favore del celibato alcuni aspetti positivi: "In epoche durante le quali la soddisfazione amorosa non incontrava difficoltà, come ad esempio durante il declino delle culture antiche, l'amore divenne privo di valore, la vita vuota e furono necessarie forti reazioni indotte al fine di ristabilire gli indispensabili valori affettivi, nonché i valori legati a passioni ed emozioni. In tale contesto si è ritenuto che la corrente ascetica del cristianesimo abbia creato valori psichici per l'amore, che l'antichità pagana mai avrebbe potuto conferirgli". D'altra parte, durante la discussione sul celibato dei secoli passati, vennero utilizzate quasi sempre forzate argomentazioni psicologiche erronee e senza cognizione di causa. Pertanto si udì da contemporanei poco illuminati che "rinunciare" alla sessualità non sarebbe naturale. Ma, considerando bene la questione, vale certamente il contrario: chi non riesce a rinunciare all'esercizio della sessualità non è in grado di unirsi in vincolo matrimoniale. Il serio dibattito relativo agli abusi sessuali all'interno del matrimonio, che in molti Paesi è stato portato alla ribalta da parte delle femministe, rende evidente che la sessualità umana non deve in alcun modo essere considerata come una pentola a pressione, per la quale il vapore sessuale possa essere semplicemente scaricato attraverso l'aiuto di una donna. Tali fraintendimenti della sessualità, che denotano una natura non matura e sprezzante dell'essere umano, e che vedono la donna solo come oggetto di soddisfazione di un impulso personale, hanno un ruolo chiave nella critica al celibato. Una sessualità matura non è solamente primitivamente naturale. La natura dell'essere umano è da sempre coltivata umanamente. In una coppia di sposi maturi entrambi i partner sono attenti ai bisogni dell'altro. Vi sono diversi motivi perché, per un periodo o in modo continuativo, anche in una coppia sposata non si possa vivere a pieno la sessualità genitale; per esempio a causa di una malattia temporanea, oppure a causa di un handicap permanente. Eppure, una relazione di coppia davvero profonda non viene certamente distrutta da questo, bensì talvolta ne viene addirittura arricchita. Allo stesso modo anche la questione del celibato non dovrebbe concentrarsi solo sulla questione della sessualità genitale, bensì si dovrebbe vedere nel celibato una forma di relazione determinata, che lega una relazione profonda con Dio a una feconda relazione con le persone affidate alle cure pastorali del sacerdote.
La psicoanalista Eva Jäggi, nel suo libro sulla vita da single, ha definito la persona consapevole che vive da single come particolarmente importante anche per tutte le persone che vivono in un rapporto di coppia, poiché il single rende consapevoli anche gli sposati del fatto che essi non sono solamente in funzione di un rapporto, bensì hanno un loro valore proprio.
Partendo dalla mia esperienza di terapeuta posso confermare che l'inaridimento della vita spirituale spesso precede la crisi del celibato. Quando un sacerdote non prega più regolarmente, quando egli stesso non si accosta più al sacramento della riconciliazione, in altre parole, quando egli non intrattiene più una relazione vitale con Dio, allora egli come sacerdote non è più fecondo. Infatti, le persone si rendono conto che da quest'uomo di Dio non emana più la forza dello spirito di Dio. Il solo realizzare questo porta il sacerdote in questione ad una condizione di frustrazione e di insoddisfazione verso il proprio ministero di sacerdote. Quando poi, in una tale situazione, si affaccia la possibilità di una relazione esterna, allora il sacerdote corre fortemente il rischio di abbattere gli argini di per sé già marci. Al contrario, un sacerdote che vive la propria fede con convinzione e ne dà testimonianza, è una guida spirituale feconda, in grado, in questo modo, di gustare la gioia che deriva dalla direzione spirituale delle anime. Per il sacerdote è importante anche confessare i fedeli, poiché questo stabilisce un contatto esistenziale con le persone. Il celibato rende il sacerdote libero per relazioni di direzione spirituale intense. Egli può dedicarsi, sia dal punto di vista del tempo che dal punto di vista esistenziale, in modo più ampio alla direzione spirituale, rispetto a quanto potrebbe fare se fosse sposato. Il fatto che i pastori evangelici in Germania presentino la più alta percentuale di separazioni è certamente legato al fatto che la direzione spirituale intensa e il matrimonio sono difficilmente conciliabili. Ma questa libertà a favore dei fedeli, ottenuta attraverso il celibato, deve essere utilizzata anche dal sacerdote. Un celibato consumato solo dietro la scrivania oppure una vita da funzionario sono difficilmente vivibili. Una guida spirituale zelante ha addirittura più esperienze di vita di non pochi sposati. Non è vero quanto si sente dire talvolta, ossia che una guida spirituale sposata sarebbe meglio in grado di accompagnare le coppie di sposi. Una guida spirituale sposata, così come un terapeuta, corre sempre il pericolo di rivivere inconsapevolmente nel caso che ha dinnanzi le esperienze del proprio matrimonio e di trasformare le proprie emozioni in azioni, senza riflettere, per un meccanismo psicologico. Perciò egli necessita solitamente di un monitoraggio, proprio per impedire che ciò avvenga. Al contrario, una buona guida spirituale ha considerevoli esperienze esistenziali con molte coppie sposate. E da ciò egli può attingere per taluni casi difficili. Questo spiega, per esempio, la sorprendente fecondità degli scritti sul matrimonio di quel grande pastore di anime che fu il servo di Dio Giovanni Paolo II.
Partendo da qui sono poi importanti anche le buone amicizie, per mantenere il contatto con la quotidianità e la normalità. Il celibato non deve cagionare una condizione di eremitaggio. Sant'Agostino riteneva consigliabile che i sacerdoti celibi vivessero insieme in una stessa casa. Una tale comunità che vive sotto lo stesso tetto e che è, nel contempo, anche comunità spirituale, favorisce, fra l'altro, la necessaria correctio fraterna, la critica costruttiva che anche in una coppia di sposi fa sì che non si devii dal cammino. In questo modo diviene evidente che il celibato non significa tanto solitudine, quanto piuttosto l'essere liberi per le persone e per un incarico particolare.
In particolare, il celibato non è per i narcisisti, che dal punto di vista psichico ruotano solo su se stessi e sono interessati solo a sé. Non sono eventuali anomalie sessuali il problema più diffuso nella selezione dei candidati agli ordini sacri, bensì il narcisismo, perché il tipo di ministero che esercita il sacerdote è per i narcisisti una tentazione quasi irresistibile. Il pronunciare una predica dinnanzi ai fedeli, che non gli verrà contestata da nessuno, vestito con abiti solenni, è per il narcisista la realizzazione di tutti i desideri più intimi. Eppure la vera soddisfazione non viene contemplata come accade per tutti i bisogni viziati. Il sacerdote deve però avere una mentalità addirittura contraria. Egli deve soprattutto interessarsi degli altri esseri umani e delle loro miserie, deve dimenticarsi di sé, e deve rendere visibile, dietro la lucentezza delle sue parole, lo splendore di Dio piuttosto che la propria misera luce.




(©L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2008)

giovedì 16 ottobre 2008

Suggerì ai vaticanisti come essere più giornalisti

Intervista a Gian Franco Svidercoschi

di Raffaele Alessandrini

Il 1978 fu un anno denso di fatti rilevanti per l'informazione: vaticana - la morte di Paolo VI, il pontificato brevissimo di Papa Luciani, l'elezione di Giovanni Paolo II - ma non solo vaticana. Basti pensare agli eventi che avevano agitato la stessa Italia - il caso Moro su tutti - e cioè il Paese per natura geografica e per storia, più prossimo alla sede apostolica. Testimone del clima di quei giorni è il giornalista vaticanista Gian Franco Svidercoschi, già vicedirettore del nostro giornale, al quale abbiamo rivolto alcune domande.

Come fu accolta dal mondo dell'informazione l'elezione del Papa polacco?

Fu una sorpresa per tutti. Una sorpresa positiva. Colpì anzitutto l'insospettata capacità reattiva e di autorinnovamento di una Chiesa - considerata in una posizione di progressiva emarginazione rispetto alla società del tempo - che di fronte all'impossibilità di esprimere un altro Papa italiano non esitò a proporre un nome tanto inatteso che, per di più, proveniva dal cuore stesso dell'impero sovietico. Nel rivedere le registrazioni televisive di quel 16 ottobre, è istruttivo osservare le reazioni della platea dopo l'Habemus Papam del cardinale protodiacono Pericle Felici. Prima l'applauso caloroso che saluta l'elezione del nuovo Pontefice; poi all'annuncio del nome, una pausa impercettibile di silenzio - è straniero, è africano? Quindi un rapidissimo passaparola che percorre la moltitudine - è polacco! è polacco! E si leva un nuovo prolungato applauso. Perfino taluni giornalisti laici commentando l'evento parlarono di una manifestazione della "creatività dello Spirito". Peraltro, trascorsi i primi giorni, non sarebbero mancati perplessità e timori da parte di un certo versante culturale. Faceva paura evidentemente la figura di un Papa in grado di conoscere a fondo, e dall'interno, il mondo sovietico. Ricordo personalmente come perfino uno spirito liberale e di raffinata erudizione quale Giovanni Spadolini, politico e giornalista - in visita al mio giornale di allora, tre giorni dopo l'elezione - paventasse il rischio di squilibri tra Occidente e Oriente. In realtà la novità del pontificato sarebbe stata proprio nel rigetto di tutte le "verità" e le sicurezze convenzionali vigenti; e cioè che l'Europa dovesse per forza rimanere divisa; che la Chiesa fosse ormai condannata a una posizione di emarginazione e di subalternità di fronte alla società secolarizzata; che un dialogo con i giovani da parte della Chiesa fosse impossibile.

Quali sono stati gli elementi principali che hanno fatto considerare Giovanni Paolo II un uomo mediatico a prescindere dal suo essere stato il primo Papa non italiano dai tempi di Adriano vi?

Giovanni Paolo II è stato sicuramente un grande comunicatore, ma non solo nel senso che di solito si accosta al termine. Che il giovane Karol Wojtyla fosse stato attore è cosa nota; egli stesso poi, nel libro Dono e mistero, tiene a sottolineare l'importanza degli studi sul personalismo. Ma il suo modo di fare comunicazione si traduce soprattutto in passione per l'uomo. Si tratta di una dimensione non riducibile in schemi rigidi. Ricordo un giorno particolare a Fatima: quando tutte le televisioni del mondo erano su di lui. Un altro forse non avrebbe perduto l'occasione di levare la voce di fronte a una platea così universale. Lui invece si mise in ginocchio a pregare. Fu l'atteggiamento più astruso e paradossale che si potesse concepire sul piano mediatico: venti minuti di silenzio. Ma il messaggio giunse al cuore dell'umanità. Del resto Papa Wojtyla sapeva essere grande comunicatore da missionario in tutti i Paesi del mondo e, soprattutto con i giovani, perché il suo stile era esplicito e diretto. Non faceva sconti. Chiamava i giovani all'impegno e alla responsabilità con un trasporto e con parole che essi non erano più abituati a sentire a scuola, né in famiglia, e talvolta, neppure in chiesa.

Il riferimento alla dimensione umana della comunicazione è presente fin dagli inizi del suo magistero a partire dalla Redemptor hominis...

Il rapporto stretto tra il mistero di Cristo e la verità dell'uomo è il grande tema della prima enciclica di Giovanni Paolo II e deriva direttamente dal concilio Vaticano ii. Quando il Papa definì l'uomo "via della Chiesa" taluni ambienti teologici paventarono una deriva antropocentrista. In realtà l'umanesimo della Redemptor hominis è tutto fondato sul rapporto di amore tra il Creatore e la sua creatura che si personifica in Cristo. Di qui si diparte il grande disegno del nuovo umanesimo di Giovanni Paolo II relativo a quei cinque grandi temi della vita quotidiana di cui tratta la seconda parte della Gaudium et spes, alla cui preparazione molto aveva, a suo tempo, contribuito da padre conciliare, Karol Wojtyla. Temi che rappresentano tutto un programma di magistero sociale: la vita e la famiglia; la giustizia e il lavoro; la cultura e la modernità; la libertà e la politica; la pace internazionale.

Il pontificato di Papa Wojtyla - è stato detto più volte e, forse, non sempre a proposito - si colloca come spartiacque storico rispetto al passato non solo per aver introdotto la Chiesa nel terzo millennio. In quali termini, alla luce di ciò, è cambiata anche l'informazione religiosa?

Il carattere missionario del pontificato di Giovanni Paolo II, a cominciare dalla sua stessa elezione è venuto a porsi come segno tangibile e concreto dell'universalità della Chiesa annunciata dal Vaticano ii. Lo stile missionario e itinerante, l'apertura a tutte le culture della terra hanno costretto l'informazione religiosa, prima tendente a soffermarsi troppo sugli aspetti interni della Chiesa istituzionale, a interessarsi di tutti i popoli. I giornalisti si sono così trovati costretti ad allargare a dismisura i loro interessi. Ai tempi del concilio i giornalisti solevano mettersi in caccia dei "segreti" delle stanze vaticane. Ora il messaggio, la notizia, andava colta là dove il Papa aveva deciso di andare. Giovanni Paolo II stesso - ricordo personalmente - nel corso di un'intervista, sottolineava l'accentuazione profondamente diversa di un discorso a favore della pace fatto a Hiroshima rispetto a un analogo discorso fatto in altri contesti. Una situazione che per essere raccontata richiede evidentemente una presenza diretta.

Si direbbe che Giovanni Paolo II abbia voluto richiamare i giornalisti a vivere in modo compiuto la loro professione.

È proprio così. Papa Wojtyla in un certo senso coinvolgeva tutti nella sua missione evangelizzatrice. Ricordo in occasione del Giubileo straordinario della redenzione 1983-1984 che, rivolgendosi ai giornalisti, egli li chiamava "compagni di viaggio" auspicando da un lato la necessità doverosa da parte della Chiesa di essere sempre trasparente come una "casa di vetro", e d'altra parte che quanto di essa si vede venga poi raccontato con veridicità e senza pregiudizi.



(©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2008)

Il mio amico Karol

A colloquio con Andrzej Maria Deskur, il porporato legatissimo a Wojtyla

di Wlodzimierz Redzioch

Subito dopo l'elezione di Giovanni Paolo II, successe un fatto inusuale: il nuovo Pontefice si recò privatamente, senza la grande pompa che di solito accompagna tali eventi, all'ospedale Gemelli per visitare il suo amico colpito da ictus. Fu il primo "viaggio" del Papa a Roma. In quell'occasione Egli pronunciò un breve discorso, in cui diceva tra l'altro: "Sono venuto qui per visitare il mio amico, il mio collega, il vescovo Andrzej Deskur, presidente della Pontificia Commissione delle Comunicazioni Sociali, da cui ho ricevuto tanto bene e tanta amicizia, e che da qualche giorno, dal giorno precedente il conclave, è finito in ospedale in gravi condizioni. Volevo fargli la visita, ma non soltanto a lui, anche a tutti gli altri ammalati". In questo modo il mondo ha scoperto l'amicizia di due grandi Polacchi: Karol Wojtyla e Andrzej Maria Deskur.
Il cardinale Andrzej Maria Deskur - un nobile polacco d'origine francese - è stato uno dei più importanti personaggi polacchi della Curia romana. Dal 1952 il suo nome è legato ai pontifici dicasteri che si occupano dei mass media (prima alla Pontificia Commissione per la Cinematografia, poi alla Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali e finalmente al Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali).
Deskur è stato teologo del concilio Vaticano ii e membro della commissione che preparò il Decreto conciliare Inter mirifica sugli strumenti della comunicazione sociale. È stato anche uno dei promotori della Sala Stampa della Santa Sede; grazie ai suoi sforzi si fece la prima trasmissione via satellite a carattere religioso ed è nata la stazione radio "Radio Veritas" che trasmetteva i programmi religiosi per Asia e Oceania. Ha visitato più di settanta Paesi per sensibilizzare i vescovi di tutto il mondo ai problemi della moderna comunicazione religiosa, insomma è stato uno di quegli ecclesiastici che hanno introdotto la Chiesa nel nuovo mondo delle comunicazioni di massa.
In tutti quegli anni è rimasto in contatto con il suo vecchio compagno di seminario Karol Wojtyla. Di questa amicizia abbiamo parlato con lui in occasione del trentesimo anniversario dell'elezione dell'arcivescovo di Cracovia che per il porporato coincide con il medesimo anniversario della malattia che lo tiene prigioniero sulla sedia a rotelle e a letto.

Eminenza, quando ha conosciuto Karol Wojtyla?

Conobbi Karol Wojtyla già nel lontano 1945 a Cracovia. Studiavamo insieme nel Seminario Metropolitano: io al primo anno, lui al quarto. Nel 1946 si sparse la notizia che Wojtyla sarebbe stato ordinato sacerdote entro l'anno e mandato a studiare all'estero. Fu un grande riconoscimento per lui ma nessuno lo invidiava perché tutti gli volevano bene e riconoscevano la sua grande intelligenza, la solida preparazione e la profonda spiritualità. Durante gli studi abitavamo insieme, quindi ci conoscevamo bene. Mi ricordo che tutti volevano uscire con lui durante le nostre passeggiate settimanali perché si tornava arricchiti. Un giorno qualcuno dei colleghi ha scritto sulla porta della sua stanza: "Karol Wojtyla: futuro santo". Sembrava uno scherzo, ma in verità rifletteva l'opinione che già allora avevamo del giovane Wojtyla e adesso, sessanta anni dopo e con il processo di beatificazione in corso, questo fatto diventa simbolico.
Alla vigilia della sua partenza, Karol venne da me per chiedermi se non era una cosa rischiosa mandare all'estero un giovane sacerdote, come lui. Gli risposi: "Dio non corre mai nessun rischio, perché tiene tutto nella Sua mano. Non ti preoccupare: nella Sua mano tiene anche te".

E così Wojtyla partì per Roma. Ma anche lei nel 1950 fu inviato prima a Friburgo per gli studi di teologia morale e dopo a Roma per studiare alla Pontificia Accademia Ecclesiastica. Wojtyla invece, finiti gli studi all'Angelicum, tornò a Cracovia. Vi siete persi di vista?

Non esattamente. Ci siamo incontrati durante i lavori del concilio Vaticano ii. Io ero teologo conciliare, lui, arcivescovo di Cracovia, padre conciliare. Andavo con lui a tutte le riunioni delle commissioni di cui era membro. Monsignor Wojtyla era ben visto dappertutto perché aveva un tratto di carattere molto apprezzabile: non era polemico. Con lui non si poteva litigare perché nelle discussioni contavano soltanto gli argomenti.

Quando morì Paolo VI e, subito dopo, Giovanni Paolo I, lei aveva già una grande esperienza curiale e conosceva bene i cardinali riuniti nel nuovo conclave. Si aspettava l'elezione di un cardinale non italiano?

Non soltanto mi aspettavo l'elezione di un cardinale non italiano, ma di un concreto porporato, il cardinale Karol Wojtyla. Vorrei spiegarmi meglio: si sa che il nuovo Pontefice viene eletto dai cardinali, ma, in un certo senso, il suo grande elettore è anche il suo predecessore che sceglie i membri del Collegio Cardinalizio, determinando il risultato del conclave. Paolo VI apprezzava molto il cardinale Wojtyla e, direi, che in qualche modo lo preparò per succedergli. Prima, lo volle predicatore degli esercizi spirituali in Vaticano per la Curia Romana per far conoscere il suo grande sapere e la profonda spiritualità. Poi lo nominò relatore del Sinodo sull'evangelizzazione. Era una sorpresa per tutti perché ci si aspettava un relatore da qualche Paese di missione. Ma in questo modo anche i cardinali del Terzo Mondo poterono conoscere l'arcivescovo di Cracovia e apprezzare il suo zelo pastorale e missionario. Non è di poco conto il fatto che Paolo VI incoraggiava Wojtyla a viaggiare per il mondo per conoscere meglio la realtà delle Chiese locali.

Quando Giovanni Paolo II apparve per la prima volta sulla loggia della basilica di San Pietro, lei si trovava nel letto dell'ospedale Gemelli: l'inizio del Pontificato del suo amico coincide con il suo dramma personale...

Devo ammettere che quando all'ospedale capì che sarei stato paralizzato per sempre, rimasi scioccato. Anche se, nel mio caso, non si può parlare delle sofferenze fisiche: il paralitico è una persona imprigionata dal corpo, priva di libertà. Soltanto la preghiera mi permise di superare quel momento difficile e accettare la mia invalidità.
Quando dopo le cure sono tornato a casa e sono andato in pensione, lasciando l'incarico della presidenza del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, ricevetti una lettera personale del Papa che cominciava con la frase: "Adesso sai qual è la tua missione nella Chiesa". Si trattava della missione della preghiera, la missione di tutti gli ammalati e i sofferenti. Il Papa mi aiutò tanto con quella lettera.

La sua malattia vi impediva di mantenere i vostri consueti stretti rapporti personali?

Per niente. Ogni domenica pranzavo con lui nel suo appartamento e ogni tanto veniva lui da me (la festa di sant'Andrea era il nostro appuntamento fisso a casa mia).

Giovanni Paolo II non la voleva disoccupato: la nominò presidente della Pontificia Accademia dell'Immacolata. Che compito le ha affidato?

La Pontificia Accademia dell'Immacolata si occupa degli studi dei dogmi e del culto mariano, ma anche del lavoro pastorale. Giovanni Paolo II ci teneva tanto al lavoro dell'Accademia perché volle ripristinare nella Chiesa la degna venerazione della Madre di Dio, il cui culto fu indebolito dell'erronea interpretazione degli insegnamenti del concilio Vaticano ii. Secondariamente, il Santo Padre era convinto che la nuova evangelizzazione passava anche attraverso i santuari mariani. L'Europa è da sempre la "terra della Madonna" disseminata dei suoi santuari, centri di spiritualità. Mi ricordo le parole di Karol Wojtyla, quando era ancora arcivescovo di Cracovia: "I santuari mariani sono un capitale della Chiesa perché sono i luoghi dove si proclama la Parola di Dio e si dispensano i sacramenti, sono centri di preghiera e di raduno dei fedeli nell'ambiente più ampio che la parrocchia; sono luoghi, dove le esperienze del pellegrino s'intrecciano con il mistero di Maria, e le esperienze della nazione, della patria, della regione incontrano l'amore della Chiesa e della Sua Madre".

Per nove anni lei è stato membro della Congregazione per le Cause dei Santi. Si accusava Giovanni Paolo II d'aver proclamato troppi santi e beati. Il Papa come rispondeva a tali critiche?

Quando gli parlavo di tali critiche, mi rispondeva tranquillamente che la Chiesa esisteva per far sì che ci fossero i santi. Non c'è mai abbastanza santità nella Chiesa!

Per tanta gente anche Giovanni Paolo II è già un santo...

La Chiesa ha le sue procedure per la canonizzazione ed è bene che ci siano, ma io ho sempre in mente la scritta sulla porta del giovane seminarista di Cracovia: "Karol Wojtyla: futuro santo".



(©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2008)