giovedì 31 dicembre 2009

La forza della musica sacra secondo Chateaubriand


E i Guaraní si commuovevano
all'ascolto dei cantici


di Michael John Zielinski

Guardami e ti dirò chi seiBenedetto XVI, in occasione della benedizione del nuovo organo della Alte Kapelle di Ratisbona, avvenuta il 13 settembre 2006, ha autorevolmente promosso il ruolo dell'organo e più in generale della musica sacra. Egli ha tra l'altro affermato: "Inoltre [la musica organistica], trascendendo, come ogni musica di qualità, la sfera semplicemente umana, rimanda al divino". Ancora una volta il Papa addita la musica sacra come elevazione spirituale dell'animo umano, e quindi facente parte integrante della visione programmatica della missione evangelizzatrice della Chiesa.
In ogni tempo, e fin dalle origini, i pastori più consapevoli si sono fatti carico di educare il popolo cristiano con l'apporto delle arti sonore. "Ambrogio, Damaso, Leone, Gregorio lavoravano essi stessi per il ristabilimento dell'arte musicale". E con questa considerazione, introduciamo l'opera di François-René de Chateaubriand.
Lo scrittore nel suo Génie du Christianisme, ci presenta la propria personalissima ed appassionata visione dei meriti del cristianesimo. Egli di proposito rinuncia ai mezzi dialettici tipici del razionalismo di matrice illuministica, per fare appello a quella poetica dei sentimenti che noi abbiamo classificato come romanticismo, ma che qui ammiriamo in tutta la sua freschezza primigenia. La recente riedizione del libro con testo originale e a fronte la traduzione italiana (Bompiani, 2008), ci offre un'occasione per usufruire con facilità dell'opera dell'autore che, per certi versi, oggi ci sembra ancora così attuale.
Attraverso le parole di Chateaubriand i concetti sulla musica sacra quale mezzo di apostolato scaturiscono così spontaneamente e semplicemente da parere ovvi, poiché essa fa appello ai recessi più profondi dell'animo umano.
Come dunque non seguire quasi con trepidazione ciò che ci evoca il suono delle campane? "Lasciamo dunque che le campane riuniscano i fedeli, perché la voce dell'uomo non è abbastanza pura per convocare ai piedi dell'altare il pentimento, l'innocenza, la sventura; se mai le campane ci fossero vietate, bisognerebbe scegliere un fanciullo per chiamare alla Casa del Signore".
In cosa consiste l'atmosfera natalizia? Anche in questo caso la musica è tra i protagonisti: "Nella notte della nascita del Messia, la schiera dei fanciulli che adoravano il presepio, le chiese illuminate ed addobbate con i fiori, (...) gli alleluja gioiosi, il suono dell'organo e delle campane, offrivano una festa piena di innocenza e di maestà". Con quale delicatezza egli ha introdotto questi concetti di innocenza e maestà, originari presìdi spirituali delle celebrazioni natalizie.
Rimarchevole è poi l'evocazione del clima fascinoso delle cattedrali gotiche, in cui l'architetto e il musicista trasfondono le atmosfere della natura sublimandole nella sfera sacrale. "L'architetto cristiano, non contento di costruire foreste, ha voluto per così dire imitarne i mormorii; e per mezzo dell'organo e del bronzo sospeso, ha trasportato nel tempio gotico perfino il rumore dei venti e dei tuoni, che rotolano nelle profondità dei boschi. I secoli, evocati da questi suoni religiosi, fanno uscire le loro antiche voci dal seno delle pietre e sospirano nella vasta basilica".
Nelle cattedrali gotiche gli organi suonavano a volte con tanti registri uniti; comprendiamo dunque il significato della pagina di Chateaubriand, in cui lo strumento è descritto come se imitasse da vicino una forza prodigiosa della natura.
Il lettore è quasi trascinato dal vigore espressivo della descrizione dell'esecuzione solenne di un inno sacro: "È l'entusiasmo che ispira il Te Deum: quando tra lampade, masse d'oro, fiaccole, profumi, ai sospiri dell'organo, all'ondeggiare delle campane, ai fremiti dei serpentoni e dei bassi, quest'inno faceva risuonare le vetrate, i sotterranei e le cupole di una basilica". Qui è ricordato il serpentone: questo strumento era il basso della famiglia dei cornetti, caratteristico del servizio sacro. Serviva per l'accompagnamento del canto gregoriano, al fine di conferirgli maggiore gravità. Poteva essere suonato anche assieme ad altri strumenti ad arco e a fiato, e naturalmente all'organo.
Ma dove Chateaubriand dà una particolare risonanza alla musica sacra è nella capacità da essa dimostrata nell'attività missionaria della Chiesa. Egli ci esibisce una toccante descrizione di come furono evangelizzati gli indigeni del Paraguay.
Il termine che egli adopera di "selvaggi" non ha significato dispregiativo, ma è usato in senso etimologico di "abitante delle selve", similmente a come ancora oggi noi usiamo il termine "pagani" da pagus, che significa piccolo centro extraurbano.
"I gesuiti avevano notato che i selvaggi di quei luoghi erano molto sensibili alla musica. I missionari si imbarcarono dunque su delle piroghe con i nuovi catecumeni; risalirono i fiumi cantando dei cantici (...) Gli indiani discendevano dalle montagne e accorrevano al bordo dei fiumi, per ascoltare meglio queste melodie; molti fra loro si gettavano nelle onde, e seguivano a nuoto la navicella incantata. L'arco e la freccia sfuggivano di mano al selvaggio; vedeva sua moglie e suo figlio piangere di una gioia sconosciuta, soggiogato da una irresistibile attrazione, cadeva ai piedi della Croce, e mescolava torrenti di lacrime alle acque rigeneratrici che colavano sul loro capo.
In ogni riduzione c'erano due scuole: una per i primi insegnamenti delle lettere, l'altra per la danza e la musica. Quest'ultima arte era particolarmente coltivata dai Guaraní; sapevano costruire essi stessi organi, arpe, flauti, chitarre (...) al calar del sole, la campana chiamava i nuovi cittadini all'altare e si cantava la preghiera della sera in due parti e con grande accompagnamento musicale".
In tempi più recenti, attori famosi hanno reinterpretato queste atmosfere attraverso la finzione filmica dell'universalmente noto lungometraggio di Roland Joffé, Mission (1986).
A coronamento di questo argomento l'autore ha poeticamente sintetizzato che il cristianesimo: "quando ha civilizzato i selvaggi, è stato solo con dei cantici; e l'Irochese che non aveva ceduto ai suoi dogmi, ha ceduto ai suoi concerti. Religione di pace! Voi non avete, come negli altri culti, dettato agli umani dei precetti di odio e di discordia, avete solamente insegnato l'amore e l'armonia".
Anche oggi la forza della musica sacra è mirabile agente di evangelizzazione presso tanti popoli.
In Africa i fedeli affollano le messe in canto gregoriano; quelli che sono giunti nel nostro paese sono grandemente colpiti dal suono dell'organo e bramano sentire la musica sacra patrimonio di questo straordinario strumento. Non è infrequente osservare dopo la messa, quando la chiesa è già semideserta e le luci basse, mentre l'organista si attarda ancora nell'esercizio musicale, delle persone semplici che pregano insieme all'organo, trasportate "in più spirabil aere" dall'eloquenza della musica.
Ci piace concludere con le parole, sempre verissime, di Chateaubriand, che sono un'epitome sul valore del cristianesimo. Esso esorbita dal piano meramente religioso e più in generale spirituale; Chateaubriand ha il merito di far convergere anche gli altri valori scaturenti dalla civilizzazione cristiana, ritenuti ovvi a cui non si dà generalmente la giusta importanza a livello pratico, estetico, morale e civile. "Quella cristiana è la più poetica, la più umana, la più favorevole alla libertà, alle arti e alle lettere; il mondo moderno le deve tutto, dall'agricoltura fino alle scienze astratte, dai ricoveri per i bisognosi, fino ai templi progettati da Michelangelo e decorati da Raffaello (...) Essa favorisce il genio, affina il gusto, le passioni virtuose, dona vigore al pensiero, offre forme nobili allo scrittore e stampi perfetti all'artista".


(©L'Osservatore Romano - 31 dicembre 2009)

sabato 19 dicembre 2009

Babbo Natale

Se mi porta un regalo equo e solidale non gli dò il latte. Quelle cose affamano gli africani, fabbriche di coca-cola! Vorrebbe lavorare ed avere un salario anche loro!!

mercoledì 16 dicembre 2009

Newman sull'onda dei ricordi - Un silenzioso e gentile compagno di viaggio

È appena uscito il volume Newman, ossia: "i Padri mi fecero cattolico". Un profilo (Milano, Jaca Book, 2009, pagine 111, euro 12). Ne pubblichiamo l'inizio.

di Inos Biffi

Ora che si è fatto sera ed è giunto il tempo di sciogliere le vele, mi ritrovo, tra i più cari e assidui compagni di viaggio, prima di passare all'altra riva, il cardinale John Henry Newman, soprattutto con i suoi Parochial and Plain Sermons, i suoi Sketches, con i mirabili profili dei Padri, e le Prayers, Verses and Devotions.
Risalendo l'onda dei ricordi, rintraccio il mio primo incontro con lui negli anni del liceo nel seminario di Venegono, credo nella primavera del 1952. A presentare a noi studenti, poco più che quindicenni, la figura del prestigioso iniziatore del movimento di Oxford fu il rettore Giovanni Colombo, durante le impareggiabili conferenze, che egli ci teneva il tardo pomeriggio delle domeniche, prima di cena, e che noi studenti aspettavamo con impazienza.
Erano incontri informativi e soprattutto formativi: una meraviglia di intuito e di finezza educativa, teorica e pratica. Ci insegnava come redigere una lettera, come stare a tavola, come usare le posate e i tovaglioli, come mangiare le ciliegie e i kaki, che egli però chiamava "globi d'oro", e noi pensavamo che la suggestiva immagine fosse sua; in realtà più tardi venni a scoprire che essa si trovava in una poesia di Ada Negri.
Per quegli incontri il rettore leggeva e commentava degli appunti scritti su quaderni di scuola, dalla copertina nera. Quanto avrei desiderato allora di poterli avere tra mano e leggerli direttamente! Ne immaginavo il valore inestimabile. Mi sembravano scrigni preziosi, in cui erano custodite le cose meravigliose che ci veniva dicendo.
Quel desiderio si compì molti anni dopo, quando potei disporre di quei quaderni, riguardo ai quali credo di aver concorso alla loro conservazione. Ne parlai rispettosamente con il cardinale, riuscendo in qualche misura a convincerlo di non distruggerli, ma di lasciarne erede il suo segretario monsignor Francantonio Bernasconi. Dopo averli esaminati, sono persuaso che quei quaderni, diligentemente trascritti e studiati con attenzione, sarebbero una fonte incomparabile per la conoscenza e l'interpretazione della singolare figura di Giovanni Colombo, dell'altezza del suo ingegno e della profondità della sua esperienza spirituale e della laboriosità della sua vita intellettuale.
Con l'incanto della sua parola egli ci leggeva e commentava in particolare la poesia Lead, kindly Light (Guidami, Luce benigna), composta da Newman alle Bocche di Bonifacio, di ritorno dal viaggio nel Mediterraneo, dove ricorre il verso, sul quale Colombo amava soffermarsi: "Non chiedo di vedere l'orizzonte lontano, un solo passo basta per me".
Ci richiamava allora l'enigmatica affermazione che Newman ripeteva durante la malattia in Sicilia: "Io non ho peccato contro la Luce", intrattenendosi a spiegarci il significato del peccato "contro la Luce". Mi dilettavo particolarmente in quegli anni del delizioso saggio di Newman, edito nel 1950 nella collana "I Fuochi" della Morcelliana, dal titolo Malato in Sicilia, a cura di Giuseppe De Luca, del quale avrei in seguito gustato i bellissimi articoli e le brillanti versioni di testi di Newman pubblicati in un denso volume del 1975.
E sempre durante i corsi liceali il rettore Colombo non si lasciava, poi, sfuggire occasione per comunicarci alcuni pensieri di Newman, che gli erano specialmente cari, come quello sul gentiluomo - colui che non crea mai disagio al prossimo - o sulle mille difficoltà che non fanno un dubbio, o sulle certezze concrete ferme e inconfutabili, simili a funi resistentissime, che, formate dall'intreccio di singoli fili in sé estremamente fragili, non si lasciano spezzare.


(©L'Osservatore Romano - 17 dicembre 2009)

Buona Novena di Natale a Tutti!!

mercoledì 25 novembre 2009

Il disprezzo



Stampa E-mail


di Gianandrea BorderoBordero- (Ragionpolitica) - 24 .09.09
Passano gli an

ni, passano i governi, passano le legislature. Ma la sinistra italiana è ancora ferma lì, a quel 23 novembre del 1993, giorno nel quale - come ha ricordato Paolo Del Debbio dalle colonne de Il Giornale - Silvio Berlusconi, durante l'inaugurazione di un nuovo supermercato a Casalecchio di Reno, creò con un geniale colpo di magia il centrodestra in Italia sol dichiarando che, se egli avesse dovuto votare al ballottaggio per l'elezione del sindaco di Roma, avrebbe senz'altro sostenuto Gianfranco Fini, e non Francesco Rutelli. Apriti cielo! Nel giro di ventiquattr'ore la sdegnata intellighenzia gauchista, custode e detentrice della sacra ed inviolabile legittimità politica nel nostro paese, segnò col marchio dell'infamia l'uomo di Arcore. Che da quel giorno cessò di essere l'imprenditore Berlusconi e divenne il Cavaliere nero, il distruttore dell'arco costituzionale, il pericoloso parvenu della politica che rischiava di mettere a repentaglio gli equilibri istituzionali della Repubblica.

Una raffigurazione di Berlusconi che si consolidò nei mesi immediatamente successivi, prima con la nascita di Forza Italia e poi con la clamorosa vittoria dell'alleanza di centrodestra alle elezioni del 27 marzo 1994. Una rappresentazione che da allora, nella sostanza, non è mai mutata nella mente della sinistra italiana e dei suoi guru politico-culturali. I quali, incapaci di comprendere i veri motivi per cui Berlusconi andava riscuotendo tanto successo presso l'elettorato e, contestualmente, di analizzare le ragioni del progressivo crollo di consensi degli eredi del Pci, preferirono sbrigarsela rispolverando la cara, vecchia dottrina del «popolo bue», ammaliato dalle sirene della televisione commerciale e dalla spettacolarizzazione della politica. Cioè dai due strumenti che, secondo i dotti e sapienti della gauche caviar, il diabolico Berlusconi utilizzava per mandare i cervelli all'ammasso e addomesticare la mano che avrebbe poi dovuto tracciare la croce sulla scheda elettorale.

Così, mentre Berlusconi, giorno dopo giorno, continuava a strappare consensi alla coalizione a lui avversa e conquistava palmo a palmo sempre maggiori porzioni di paese reale, la sinistra e i suoi (cattivi) maestri si rinchiudevano nei loro salotti non per un salutare ripensamento culturale e politico, bensì per vomitare tutta la loro rabbia acida contro il «Caimano», il «partito di plastica», i «nani e le ballerine», e per lanciare infuocati anatemi contro il «pericolo per la democrazia». I risultati di questa - chiamiamola così - strategia sono ora sotto gli occhi tutti: partiti ex, post e neo comunisti alla canna del gas; classi dirigenti in perenne stato confusionale, vagolanti nel buio politico più fitto; elettori della sinistra storica delusi, sconfortati, annoiati.

Di fronte all'evidenza di tale disastro, oggi sarebbe lecito attendersi, da parte di chi ne è stato all'origine, o un sincero mea culpa o un dignitoso silenzio. Pie illusioni. Speranze malriposte in chi ancora è convinto di essere circondato da una patina di superiorità morale, ontologica ed intellettuale che gli dà titolo ad ergersi a giudice di tutto e di tutti. Come Eugenio Scalfari, che, dopo 16 anni di fallimentari elucubrazioni politiche antiberlusconiane, incapace di accettare il fatto che il paese reale non risponda e non corrisponda ai desiderata suoi e della sua Repubblica, si lancia in una scomunica a tutto tondo non soltanto - com'è ovvio - di Berlusconi e dei dirigenti del suo partito, ma della realtà stessa, dell'Italia e degli italiani. Colpevoli, come un personaggio di Diderot, di essere diventati «amorali» e di aver smarrito, votando per il Cavaliere nero, il «senso del bene e del male». «Il mondo degli uomini senza qualità»: così Scalfari ha titolato la sua reprimenda domenicale. Ma il titolo giusto sarebbe stato «Il disprezzo»: disprezzo di tutto ciò che non va per il verso auspicato dall'intelligentissima cervice scalfariana. Un articolo da tramandare ai posteri non soltanto per spiegare il significato della parola «antiberlusconismo», ma anche per far loro comprendere in tutta la sua terribile profondità la crisi della sinistra italiana dopo quel 23 novembre 1993.

venerdì 20 novembre 2009

OR - Non si può abbandonare la musica sacra all'improvvisazione

A colloquio con Bruno Cagli, tra gli invitati all'incontro del Papa con gli artisti
di Marcello Filotei (21 - nov. -2009)

Certe volte le cose entrano nel mito per una dimenticanza. È il caso del convegno che si tenne nel 1985 all'abbazia di Fossanova sul tema "Musica sacra nella società attuale", uno di quegli eventi che chiunque si occupi dell'argomento si sente continuamente citare da quanti hanno avuto la fortuna di assistervi. Purtroppo non esistono gli atti, e questa è la dimenticanza, ma la lista dei partecipanti è di un livello talmente alto che non si fa fatica a credere che le mirabolanti ricostruzioni siano veritiere. Tra i promotori di quell'iniziativa c'era anche Bruno Cagli, musicologo, scrittore e attuale presidente dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, tra gli invitati il 21 novembre all'incontro del Papa con gli artisti.

Come era 35 anni fa il rapporto tra sacro e musica?

Molto dinamico, ma in un clima di disattenzione da parte delle autorità ecclesiastiche, nel senso che si era aperti a molti esperimenti, ma la riflessione sul sacro in musica era abbastanza limitata. Ad esempio quando organizzavo in quegli anni la messa per la festa di santa Cecilia ci tenevo che fosse cantata in latino. A chi mi chiedeva di scegliere una versione in italiano rispondevo che in repertorio si trovano centinaia di capolavori in latino, mentre ben poco di quel livello è reperibile in volgare. La sproporzione deriva dal fatto che nel passato scrivere musica sacra era un obbligo sociale. Ora non è più così, e questo è un grande vantaggio perché chi oggi affronta la musica sacra lo fa con consapevolezza e per libera scelta. Questo può migliorare sensibilmente il rapporto tra il compositore e il sacro.

In primo luogo, dunque, comprendere a pieno la tradizione.

La discussione aperta nel 1985 si basava su differenti interpretazione dei capolavori del passato. Alcuni consideravano troppo teatrali alcune opere come la Messa da Requiem di Verdi o lo Stabat Mater di Rossini, perché avrebbero utilizzato delle tecniche provenienti dalla lirica. Uno degli atteggiamenti compositivi più avversati era l'uso dei melismi, volute melodiche che secondo alcuni sarebbero state di derivazione pagana. Io ho combattuto questo equivoco perché penso che la visione vada ribaltata. Sono stati i canti alleluiatici a introdurre i melismi nella musica occidentale, solo dopo sono stati ripresi dall'opera. Quindi così come il rapporto del compositore con il sacro è oggi una scelta molto più avvertita che nei secoli scorsi, il rapporto con il repertorio sacro deve essere più consapevole e va rivisto.

In che modo?

Con un'ampiezza di vedute che restituisca la possibilità di eseguire le composizioni del passato con le particolarità stilistiche che qualche falso purista ha cercato di obliare. Per esempio Rossini viene accusato di portare in chiesa atteggiamenti teatrali, quando invece fa esattamente il contrario. Per esempio utilizza nelle opere buffe lo stile "a cappella", proveniente dalla musica sacra.

Insomma, chi ha influenzato chi?

L'influenza autentica è quella della tradizione sacra su quella profana, il contrario non è mai accaduto. La tradizione sacra è all'origine della musica occidentale, anche di quella teatrale che è nata molto tempo dopo e non poteva che fare riferimento a quella storia. Su questi argomenti, per migliorare la qualità delle esecuzioni di oggi, sarebbe utile una apertura da parte dei musicologi.

Quindi un malinteso purismo piuttosto che rinverdire gli stili esecutivi del passato ha finito per appiattire il livello delle esecuzioni?

L'approccio filologico deve essere avvertito e intellettualmente aperto se non vuole rischiare di diventare controproducente. Allo stesso tempo non si può abbandonare il sacro all'approssimazione. Mi è capitato qualche anno fa di entrare il giorno di san Francesco nella basilica dei Frari a Venezia e di uscirne perplesso. In una chiesa dove ci sono capolavori figurativi immortali ascoltare musica di basso livello, inadatta al luogo e al testo intonato, era fastidioso.

Accertato che portare il rock in chiesa non corrisponde a un atteggiamento attento alla modernità, cosa significa andare avanti in questo ambito musicale?

Affrontare un rapporto con il testo che sia dinamico, aperto dal punto di vista stilistico, ma rigoroso. Nessuno può immaginare che Verdi o Rossini affrontassero il sacro senza rigore stilistico pur utilizzando le novità del linguaggio del loro tempo.

Quali compositori si stanno misurando oggi in questo modo con il sacro?

Ce ne sono diversi e Arvo Pärt è uno di questi. Nel 2000 sono stato io a proporre di commissionare proprio a lui un lavoro su Santa Cecilia. L'idea è stata poi accolta dal Comitato per il Giubileo e ne è nato un lavoro molto interessante che ha fatto il giro del mondo. Pärt è attentissimo al recupero della tradizione, la fa con rigore ma in maniera personale e a un livello intellettuale alto. La musica sacra deve essere necessariamente dotta, perché elevato è il testo che utilizza. Questo non significa che non può essere divulgata e divulgativa, ma che deve essere affrontata con rigore. Raffaello nel dipingere l'Estasi di santa Cecilia ha indicato tre gradi di comunicazione: in alto il canto con gli angeli, al centro l'organo nelle mani della santa, ai piedi di Cecilia la musica profana. Tutto qui.


(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2009)

lunedì 9 novembre 2009

COSTITUZIONE APOSTOLICA ANGLICANORUM COETIBUS CIRCA L’ISTITUZIONE DI ORDINARIATI PERSONALI PER ANGLICANI CHE ENTRANO NELLA PIENA COMUNIONE CON LA CHIE

  • COMUNICATO STAMPA

    Il 20 ottobre 2009, il Cardinale William Levada, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha annunciato un nuovo documento per rispondere alle numerose richieste pervenute alla Santa Sede da gruppi di ministri e fedeli anglicani di diverse parti del mondo, i quali desiderano entrare nella piena e visibile comunione con la Chiesa Cattolica.

    La Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus che oggi viene pubblicata introduce una struttura canonica che provvede ad una tale riunione corporativa tramite l’istituzione di Ordinariati Personali, che permetteranno ai suddetti gruppi di entrare nella piena comunione con la Chiesa Cattolica, conservando nel contempo elementi dello specifico patrimonio spirituale e liturgico anglicano. Contemporaneamente la Congregazione per la Dottrina della Fede ha emanato Norme Complementari, che serviranno alla retta attuazione del provvedimento.

    Questa Costituzione Apostolica apre una nuova strada per la promozione dell’unità dei cristiani, riconoscendo nel contempo la legittima diversità nell’espressione della nostra fede comune. Non si tratta di un’iniziativa che abbia avuto origine nella Santa Sede, ma di una risposta generosa da parte del Santo Padre alla legittima aspirazione di tali gruppi anglicani. L’istituzione di questa nuova struttura si colloca in piena armonia con l’impegno per il dialogo ecumenico, che continua ad essere una priorità per la Chiesa Cattolica.

    La possibilità prevista dalla Costituzione Apostolica della presenza di alcuni chierici sposati negli Ordinariati Personali non significa in alcun modo un cambiamento nella disciplina della Chiesa per quanto riguarda il celibato sacerdotale. Esso, come dice il Concilio Vaticano Secondo, è segno e allo stesso tempo stimolo della carità pastorale e annuncia in modo radioso il regno di Dio (Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1579).

    [01642-01.01] [Testo originale: Italiano]

  • COSTITUZIONE APOSTOLICA ANGLICANORUM COETIBUS

    In questi ultimi tempi lo Spirito Santo ha spinto gruppi anglicani a chiedere più volte e insistentemente di essere ricevuti, anche corporativamente, nella piena comunione cattolica e questa Sede Apostolica ha benevolmente accolto la loro richiesta. Il Successore di Pietro infatti, che dal Signore Gesù ha il mandato di garantire l’unità dell’episcopato e di presiedere e tutelare la comunione universale di tutte le Chiese,1 non può non predisporre i mezzi perché tale santo desiderio possa essere realizzato.

    La Chiesa, popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo,2 è stata infatti istituita da Nostro Signore Gesù Cristo come "il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano."3 Ogni divisione fra i battezzati in Gesù Cristo è una ferita a ciò che la Chiesa è e a ciò per cui la Chiesa esiste; infatti "non solo si oppone apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura".4 Proprio per questo, prima di spargere il suo sangue per la salvezza del mondo, il Signore Gesù ha pregato il Padre per l’unità dei suoi discepoli.5

    È lo Spirito Santo, principio di unità, che costituisce la Chiesa come comunione.6 Egli è il principio dell’unità dei fedeli nell’insegnamento degli Apostoli, nella frazione del pane e nella preghiera.7 Tuttavia la Chiesa, per analogia al mistero del Verbo incarnato, non è solo una comunione invisibile, spirituale, ma anche visibile;8 infatti, "la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l'assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino."9 La comunione dei battezzati nell’insegnamento degli Apostoli e nella frazione del pane eucaristico si manifesta visibilmente nei vincoli della professione dell’integrità della fede, della celebrazione di tutti i sacramenti istituiti da Cristo e del governo del Collegio dei Vescovi uniti con il proprio capo, il Romano Pontefice.10

    L’unica Chiesa di Cristo infatti, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica, "sussiste nella Chiesa Cattolica governata dal successore di Pietro, e dai Vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica."11

    Alla luce di tali principi ecclesiologici, con questa Costituzione Apostolica si provvede ad una normativa generale che regoli l’istituzione e la vita di Ordinariati Personali per quei fedeli anglicani che desiderano entrare corporativamente in piena comunione con la Chiesa Cattolica. Tale normativa è integrata da Norme Complementari emanate dalla Sede Apostolica.

    I. § 1. Gli Ordinariati Personali per Anglicani che entrano nella piena comunione con la Chiesa Cattolica vengono eretti dalla Congregazione per la Dottrina della Fede all’interno dei confini territoriali di una determinata Conferenza Episcopale, dopo aver consultato la Conferenza stessa.

    § 2. Nel territorio di una Conferenza dei Vescovi, uno o più Ordinariati possono essere eretti, a seconda delle necessità.

    § 3. Ciascun Ordinariato ipso iure gode di personalità giuridica pubblica; è giuridicamente assimilato ad una diocesi.12

    § 4. L’Ordinariato è formato da fedeli laici, chierici e membri d’Istituti di Vita Consacrata o di Società di Vita Apostolica, originariamente appartenenti alla Comunione Anglicana e ora in piena comunione con la Chiesa Cattolica, oppure che ricevono i Sacramenti dell’Iniziazione nella giurisdizione dell’Ordinariato stesso.

    § 5. Il Catechismo della Chiesa Cattolica è l’espressione autentica della fede cattolica professata dai membri dell’Ordinariato.

    II. L’Ordinariato Personale è retto dalle norme del diritto universale e dalla presente Costituzione Apostolica ed è soggetto alla Congregazione per la Dottrina della Fede e agli altri Dicasteri della Curia Romana secondo le loro competenze. Per esso valgono anche le suddette Norme Complementari ed altre eventuali Norme specifiche date per ciascun Ordinariato.

    III. Senza escludere le celebrazioni liturgiche secondo il Rito Romano, l’Ordinariato ha la facoltà di celebrare l’Eucaristia e gli altri Sacramenti, la Liturgia delle Ore e le altre azioni liturgiche secondo i libri liturgici propri della tradizione anglicana approvati dalla Santa Sede, in modo da mantenere vive all’interno della Chiesa Cattolica le tradizioni spirituali, liturgiche e pastorali della Comunione Anglicana, quale dono prezioso per alimentare la fede dei suoi membri e ricchezza da condividere.

    IV. Un Ordinariato Personale è affidato alla cura pastorale di un Ordinario nominato dal Romano Pontefice.

    V. La potestà (potestas) dell’Ordinario è:

    a. ordinaria: annessa per il diritto stesso all’ufficio conferitogli dal Romano Pontefice, per il foro interno e per il foro esterno;

    b. vicaria: esercitata in nome del Romano Pontefice;

    c. personale: esercitata su tutti coloro che appartengono all’Ordinariato.

    Essa è esercitata in modo congiunto con quella del Vescovo diocesano locale nei casi previsti dalle Norme Complementari.

    VI. § 1. Coloro che hanno esercitato il ministero di diaconi, presbiteri o vescovi anglicani, che rispondono ai requisiti stabiliti dal diritto canonico13 e non sono impediti da irregolarità o altri impedimenti,14 possono essere accettati dall’Ordinario come candidati ai Sacri Ordini nella Chiesa Cattolica. Per i ministri coniugati devono essere osservate le norme dell’Enciclica di Paolo VI Sacerdotalis coelibatus, n. 4215 e della Dichiarazione In June.16 I ministri non coniugati debbono sottostare alla norma del celibato clericale secondo il can. 277, §1.

    § 2. L’Ordinario, in piena osservanza della disciplina sul celibato clericale nella Chiesa Latina, pro regula ammetterà all’ordine del presbiterato solo uomini celibi. Potrà rivolgere petizione al Romano Pontefice, in deroga al can. 277, § 1, di ammettere caso per caso all’Ordine Sacro del presbiterato anche uomini coniugati, secondo i criteri oggettivi approvati dalla Santa Sede.

    § 3. L’incardinazione dei chierici sarà regolata secondo le norme del diritto canonico.

    § 4. I presbiteri incardinati in un Ordinariato, che costituiscono il suo presbiterio, debbono anche coltivare un vincolo di unità con il presbiterio della Diocesi nel cui territorio svolgono il loro ministero; essi dovranno favorire iniziative e attività pastorali e caritative congiunte, che potranno essere oggetto di convenzioni stipulate tra l’Ordinario e il Vescovo diocesano locale.

    § 5. I candidati agli Ordini Sacri in un Ordinariato saranno formati insieme agli altri seminaristi, specialmente negli ambiti dottrinale e pastorale. Per tener conto delle particolari necessità dei seminaristi dell’Ordinariato e della loro formazione nel patrimonio anglicano, l’Ordinario può stabilire programmi da svolgere nel seminario o anche erigere case di formazione, connesse con già esistenti facoltà di teologia cattoliche.

    VII. L’Ordinario, con l’approvazione della Santa Sede, può erigere nuovi Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica e promuoverne i membri agli Ordini Sacri, secondo le norme del diritto canonico. Istituti di Vita Consacrata provenienti dall’Anglicanesimo e ora in piena comunione con la Chiesa Cattolica per mutuo consenso possono essere sottoposti alla giurisdizione dell’Ordinario.

    VIII. § 1. L’Ordinario, a norma del diritto, dopo aver sentito il parere del Vescovo diocesano del luogo, può, con il consenso della Santa Sede, erigere parrocchie personali, per la cura pastorale dei fedeli appartenenti all’Ordinariato.

    § 2. I parroci dell’Ordinariato godono di tutti i diritti e sono tenuti a tutti gli obblighi previsti nel Codice di Diritto Canonico, che, nei casi stabiliti nelle Norme Complementari, sono esercitati in mutuo aiuto pastorale con i parroci della Diocesi nel cui territorio si trova la parrocchia personale dell’Ordinariato.

    IX. Sia i fedeli laici che gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, che provengono dall’Anglicanesimo e desiderano far parte dell’Ordinariato Personale, devono manifestare questa volontà per iscritto.

    X. § 1. L’Ordinario nel suo governo è assistito da un Consiglio di governo regolato da Statuti approvati dall’Ordinario e confermati dalla Santa Sede.17

    § 2. Il Consiglio di governo, presieduto dall’Ordinario, è composto di almeno sei sacerdoti ed esercita le funzioni stabilite nel Codice di Diritto Canonico per il Consiglio Presbiterale e il Collegio dei Consultori e quelle specificate nelle Norme Complementari.

    § 3. L’Ordinario deve costituire un Consiglio per gli affari economici a norma del Codice di Diritto Canonico e con i compiti da questo stabiliti.18

    § 4. Per favorire la consultazione dei fedeli nell’Ordinariato deve essere costituito un Consiglio Pastorale.19

    XI. L’Ordinario ogni cinque anni si deve recare a Roma per la visita ad limina Apostolorum e tramite la Congregazione per la Dottrina della Fede, in rapporto anche con la Congregazione per i Vescovi e la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, deve presentare al Romano Pontefice una relazione sullo stato dell’Ordinariato.

    XII. Per le cause giudiziali il tribunale competente è quello della Diocesi in cui una delle parti ha il domicilio, a meno che l’Ordinariato non abbia costituito un suo tribunale, nel qual caso il tribunale d’appello sarà quello designato dall’Ordinariato e approvato dalla Santa Sede.

    XIII. Il Decreto che erigerà un Ordinariato determinerà il luogo della sede dell’Ordinariato stesso e, se lo si ritiene opportuno, anche quale sarà la sua chiesa principale.

    Vogliamo che queste nostre disposizioni e norme siano valide ed efficaci ora e in futuro, nonostante, se fosse necessario, le Costituzioni e le Ordinanze apostoliche emanate dai nostri predecessori, e ogni altra prescrizione anche degna di particolare menzione o deroga.

    Dato a Roma, presso San Pietro, il 4 novembre 2009, Memoria di San Carlo Borromeo.

    BENEDICTUS PP XVI

    _________________

    1 Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. dogm. Lumen gentium, 23; Congregazione per la Dottrina della Fede, Lett. Communionis notio, 12; 13.

    2 Cf. Cost. dogm. Lumen gentium, 4; Decr. Unitatis redintegratio, 2.

    3 Cost. dogm. Lumen gentium 1.

    4 Decr. Unitatis redintegratio, 1.

    5 Cf. Gv 17,20-21; Decr. Unitatis redintegratio, 2.

    6 Cf. Cost. dogm. Lumen gentium, 13.

    7 Cf. Ibidem; At 2,42.

    8 Cf. Cost. dogm. Lumen gentium, 8; Lett. Communionis notio, 4.

    9 Cost. dogm. Lumen gentium, 8.

    10 Cf. CIC, can. 205; Cost. dogm. Lumen gentium, 13; 14; 21; 22; Decr. Unitatis redintegratio, 2; 3; 4; 15; 20; Decr. Christus Dominus, 4; Decr. Ad gentes, 22.

    11 Cost. dogm. Lumen gentium, 8; Decr. Unitatis redintegratio, 1; 3; 4; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Dominus Iesus, 16.

    12 Cf. Giovanni Paolo II, Cost. Ap. Spirituali militum curae, 21 aprile 1986, I § 1.

    13 Cf. CIC, cann. 1026-1032.

    14 Cf. CIC, cann. 1040-1049.

    15 Cf. AAS 59 (1967) 674.

    16 Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione del 1° aprile 1981, in Enchiridion Vaticanum 7, 1213.

    17 Cf. CIC, cann. 495-502.

    18 Cf. CIC, cann. 492-494.

    19 Cf. CIC, can. 511.

    [01640-01.01] [Testo originale: Italiano]

  • NORME COMPLEMENTARI ALLA COSTITUZIONE APOSTOLICA ANGLICANORUM COETIBUS

    Dipendenza dalla Santa Sede

    Articolo 1

    Ciascun Ordinariato dipende dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e mantiene stretti rapporti con gli altri Dicasteri Romani a seconda della loro competenza.

    Rapporti con le Conferenze Episcopali e i Vescovi diocesani

    Articolo 2

    § 1. L’Ordinario segue le direttive della Conferenza Episcopale nazionale in quanto compatibili con le norme contenute nella Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus.

    § 2. L’Ordinario è membro della rispettiva Conferenza Episcopale.

    Articolo 3

    L’Ordinario, nell’esercizio del suo ufficio, deve mantenere stretti legami di comunione con il Vescovo della Diocesi in cui l’Ordinariato è presente per coordinare la sua azione pastorale con il piano pastorale della Diocesi.

    L’Ordinario

    Articolo 4

    § 1. L’Ordinario può essere un vescovo o un presbitero nominato dal Romano Pontefice ad nutum Sanctae Sedis, in base ad una terna presentata dal Consiglio di governo. Per lui si applicano i cann. 383-388, 392-394 e 396-398 del Codice di Diritto Canonico.

    § 2. L’Ordinario ha la facoltà di incardinare nell’Ordinariato i ministri anglicani entrati nella piena comunione con la Chiesa Cattolica e i candidati appartenenti all’Ordinariato da lui promossi agli Ordini Sacri.

    § 3. Sentita la Conferenza Episcopale e ottenuto il consenso del Consiglio di governo e l’approvazione della Santa Sede, l’Ordinario, se ne vede la necessità, può erigere decanati territoriali, sotto la guida di un delegato dell’Ordinario e comprendenti i fedeli di più parrocchie personali.

    I fedeli dell’Ordinariato

    Articolo 5

    § 1. I fedeli laici provenienti dall’Anglicanesimo che desiderano appartenere all’Ordinariato, dopo aver fatto la Professione di fede e, tenuto conto del can. 845, aver ricevuto i Sacramenti dell’Iniziazione, debbono essere iscritti in un apposito registro dell’Ordinariato. Coloro che sono stati battezzati nel passato come cattolici fuori dall’Ordinariato non possono ordinariamente essere ammessi come membri, a meno che siano congiunti di una famiglia appartenente all’Ordinariato.

    § 2. I fedeli laici e i membri di Istituti di Vita Consacrata e di Società di Vita Apostolica, quando collaborano in attività pastorali o caritative, diocesane o parrocchiali, dipendono dal Vescovo diocesano o dal parroco del luogo, per cui in questo caso la potestà di questi ultimi è esercitata in modo congiunto con quella dell’Ordinario e del parroco dell’Ordinariato.

    Il clero

    Articolo 6

    § 1. L’Ordinario, per ammettere candidati agli Ordini Sacri deve ottenere il consenso del Consiglio di governo. In considerazione della tradizione ed esperienza ecclesiale anglicana, l’Ordinario può presentare al Santo Padre la richiesta di ammissione di uomini sposati all’ordinazione presbiterale nell’Ordinariato, dopo un processo di discernimento basato su criteri oggettivi e le necessità dell’Ordinariato. Tali criteri oggettivi sono determinati dall’Ordinario, dopo aver consultato la Conferenza Episcopale locale, e debbono essere approvati dalla Santa Sede.

    § 2. Coloro che erano stati ordinati nella Chiesa Cattolica e in seguito hanno aderito alla Comunione Anglicana, non possono essere ammessi all’esercizio del ministero sacro nell’Ordinariato. I chierici anglicani che si trovano in situazioni matrimoniali irregolari non possono essere ammessi agli Ordini Sacri nell’Ordinariato.

    § 3. I presbiteri incardinati nell’Ordinariato ricevono le necessarie facoltà dall’Ordinario.

    Articolo 7

    § 1. L’Ordinario deve assicurare un’adeguata remunerazione ai chierici incardinati nell’Ordinariato e provvedere alla previdenza sociale per sovvenire alle loro necessità in caso di malattia, di invalidità o vecchiaia.

    § 2. L’Ordinario potrà convenire con la Conferenza Episcopale eventuali risorse o fondi disponibili per il sostentamento del clero dell’Ordinariato.

    § 3. In caso di necessità, i presbiteri, con il permesso dell’Ordinario, potranno esercitare una professione secolare, compatibile con l’esercizio del ministero sacerdotale (cf. CIC, can. 286).

    Articolo 8

    § 1. I presbiteri, pur costituendo il presbiterio dell’Ordinariato, possono essere eletti membri del Consiglio Presbiterale della Diocesi nel cui territorio esercitano la cura pastorale dei fedeli dell’Ordinariato (cf. CIC, can. 498, § 2).

    § 2. I presbiteri e i diaconi incardinati nell’Ordinariato possono essere, secondo il modo determinato dal Vescovo diocesano, membri del Consiglio Pastorale della Diocesi nel cui territorio esercitano il loro ministero (cf. CIC, can. 512, § 1).

    Articolo 9

    § 1. I chierici incardinati nell’Ordinariato devono essere disponibili a prestare aiuto alla Diocesi in cui hanno il domicilio o il quasi-domicilio, dovunque sia ritenuto opportuno per la cura pastorale dei fedeli. In questo caso dipendono dal Vescovo diocesano per quello che riguarda l’incarico pastorale o l’ufficio che ricevono.

    § 2. Dove e quando sia ritenuto opportuno, i chierici incardinati in una Diocesi o in un Istituto di Vita Consacrata o in una Società di Vita Apostolica, col consenso scritto rispettivamente del loro Vescovo diocesano o del loro Superiore, possono collaborare alla cura pastorale dell’Ordinariato. In questo caso dipendono dall’Ordinario per quello che riguarda l’incarico pastorale o l’ufficio che ricevono.

    § 3. Nei casi previsti nei paragrafi precedenti deve intervenire una convenzione scritta tra l’Ordinario e il Vescovo diocesano o il Superiore dell’Istituto di Vita Consacrata o il Moderatore della Società di Vita Apostolica, in cui siano chiaramente stabiliti i termini della collaborazione e tutto ciò che riguarda il sostentamento.

    Articolo 10

    § 1. La formazione del clero dell’Ordinariato deve raggiungere due obiettivi: 1) una formazione congiunta con i seminaristi diocesani secondo le circostanze locali; 2) una formazione, in piena armonia con la tradizione cattolica, in quegli aspetti del patrimonio anglicano di particolare valore.

    § 2. I candidati al sacerdozio riceveranno la loro formazione teologica con gli altri seminaristi in un seminario o in una facoltà teologica, sulla base di un accordo intervenuto tra l’Ordinario e il Vescovo diocesano o i Vescovi interessati. I candidati possono ricevere una particolare formazione sacerdotale secondo un programma specifico nello stesso seminario o in una casa di formazione appositamente eretta, col consenso del Consiglio di governo, per la trasmissione del patrimonio anglicano.

    § 3. L’Ordinariato deve avere una sua Ratio institutionis sacerdotalis, approvata dalla Santa Sede; ogni casa di formazione dovrà redigere un proprio Regolamento, approvato dall’Ordinario (cf. CIC, can. 242, §1).

    § 4. L’Ordinario può accettare come seminaristi solo i fedeli che fanno parte di una parrocchia personale dell’Ordinariato o coloro che provengono dall’Anglicanesimo e hanno ristabilito la piena comunione con la Chiesa Cattolica.

    § 5. L’Ordinariato cura la formazione permanente dei suoi chierici, partecipando anche a quanto predispongono a questo scopo a livello locale la Conferenza Episcopale e il Vescovo diocesano.

    I Vescovi già anglicani

    Articolo 11

    § 1. Un Vescovo già anglicano e coniugato è eleggibile per essere nominato Ordinario. In tal caso è ordinato presbitero nella Chiesa cattolica ed esercita nell’Ordinariato il ministero pastorale e sacramentale con piena autorità giurisdizionale.

    § 2. Un Vescovo già anglicano che appartiene all’Ordinariato può essere chiamato ad assistere l’Ordinario nell’amministrazione dell’Ordinariato.

    § 3. Un Vescovo già anglicano che appartiene all’Ordinariato può essere invitato a partecipare agli incontri della Conferenza dei Vescovi del rispettivo territorio, nello stesso modo di un vescovo emerito.

    § 4. Un Vescovo già anglicano che appartiene all’Ordinariato e che non è stato ordinato vescovo nella Chiesa Cattolica, può chiedere alla Santa Sede il permesso di usare le insegne episcopali.

    Il Consiglio di governo

    Articolo 12

    § 1. Il Consiglio di governo, in accordo con gli Statuti approvati dall’Ordinario, ha i diritti e le competenze che secondo il Codice di Diritto Canonico sono propri del Consiglio Presbiterale e del Collegio dei Consultori.

    § 2. Oltre tali competenze, l’Ordinario ha bisogno del consenso del Consiglio di governo per:

    a. ammettere un candidato agli Ordini Sacri;

    b. erigere o sopprimere una parrocchia personale;

    c. erigere o sopprimere una casa di formazione;

    d. approvare un programma formativo.

    § 3. L’Ordinario deve inoltre sentire il parere del Consiglio di governo circa gli indirizzi pastorali dell’Ordinariato e i principi ispiratori della formazione dei chierici.

    § 4. Il Consiglio di governo ha voto deliberativo:

    a. per formare la terna di nomi da inviare alla Santa Sede per la nomina dell’Ordinario;

    b. nell’elaborare le proposte di cambiamento delle Norme Complementari dell’Ordinariato da presentare alla Santa Sede;

    c. nella redazione degli Statuti del Consiglio di governo, degli Statuti del Consiglio Pastorale e del Regolamento delle case di formazione.

    § 5. Il Consiglio di governo è composto secondo gli Statuti del Consiglio. La metà dei membri è eletta dai presbiteri dell’Ordinariato.

    Il Consiglio Pastorale

    Articolo 13

    § 1. Il Consiglio Pastorale, istituito dall’Ordinario, esprime il suo parere circa l’attività pastorale dell’Ordinariato.

    § 2. Il Consiglio Pastorale, presieduto dall’Ordinario, è retto dagli Statuti approvati dall’Ordinario.

    Le parrocchie personali

    Articolo 14

    § 1. Il parroco può essere assistito nella cura pastorale della parrocchia da un vicario parrocchiale, nominato dall’Ordinario; nella parrocchia dev’essere costituito un Consiglio pastorale e un Consiglio per gli affari economici.

    § 2. Se non c’è un vicario, in caso di assenza, d’impedimento o di morte del parroco, il parroco del territorio in cui si trova la chiesa della parrocchia personale, può esercitare, se necessario, le sue facoltà di parroco in modo suppletivo.

    § 3. Per la cura pastorale dei fedeli che si trovano nel territorio di Diocesi in cui non è stata eretta una parrocchia personale, sentito il parere del Vescovo diocesano, l’Ordinario può provvedere con una quasi-parrocchia (cf. CIC, can. 516, § 1).

    Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, nell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato le presenti Norme Complementari alla Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus, decise dalla Sessione Ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato le pubblicazione.

    Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 4 novembre 2009, Memoria di San Carlo Borromeo.

    William Card. Levada
    Prefetto

    + Luis. F. Ladaria, S.I.
    Arcivescovo tit. di Thibica
    Segretario

    [01641-01.01] [Testo originale: Italiano]

  • IL SIGNIFICATO DELLA COSTITUZIONE APOSTOLICA ANGLICANORUM COETIBUS (P. GIANFRANCO GHIRLANDA, S.I., RETTORE MAGNIFICO DELLA PONTIFICIA UNIVERSITÀ GREGORIANA)

    La Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus del 4 novembre 2009, offre una normativa essenziale che regola l’istituzione e la vita di Ordinariati Personali per quei fedeli anglicani che desiderino entrare corporativamente o singolarmente in piena comunione con la Chiesa Cattolica. Con essa, come viene espresso nel Proemio, il Santo Padre Benedetto XVI, come Pastore Supremo di tutta la Chiesa e garante, per mandato di Cristo, dell’unità dell’episcopato e della comunione universale di tutte le Chiese, manifesta la sua paterna sollecitudine verso quei fedeli anglicani, laici, chierici e membri di Istituti di vita consacrata e di Società di vita apostolica, che hanno ripetutamente chiesto alla Sede Apostolica di essere ricevuti nella piena comunione cattolica.

    Il Proemio ci dà la ratio legis, mettendo in risalto alcuni elementi che conviene richiamare:

    - la Chiesa, nella sua unità e diversità, ha come modello la Santissima Trinità, ed è stata istituita come "il sacramento, ossia il segno e lo strumento, dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano" (Lumen gentium, 1) per cui ogni divisione fra i battezzati è una ferita a ciò che la Chiesa è e a ciò per cui la Chiesa esiste ed è quindi uno scandalo, perché contraddice la preghiera di Gesù prima della Sua passione e morte (cf. Gv 17,20-21);

    - la comunione ecclesiale, costituita dallo Spirito Santo, che è il principio di unità della Chiesa, per analogia al mistero del Verbo incarnato è allo stesso tempo spirituale, invisibile e visibile, gerarchicamente organizzata; quindi la comunione fra i battezzati per essere piena non può che manifestarsi "visibilmente nei vincoli della professione dell’integrità della fede, della celebrazione di tutti i sacramenti istituiti da Cristo e del governo del Collegio dei Vescovi uniti con il proprio capo, il Romano Pontefice";

    - sebbene l’unica Chiesa di Cristo sussista nella Chiesa Cattolica governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui, tuttavia fuori del suo organismo visibile, quindi nelle Chiese e nelle Comunità cristiane separate, si trovano parecchi elementi di santificazione e di verità che, per il fatto di essere doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica.

    Quei fedeli anglicani che hanno chiesto di entrare in piena comunione con la Chiesa Cattolica, sotto l’azione dello Spirito Santo, sono stati spinti verso la ricostituzione dell’unità dagli elementi propri della Chiesa di Cristo che sono stati sempre presenti nella loro vita cristiana personale e comunitaria.

    Per questo la promulgazione della Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus da parte del Santo Padre e ciò che ne seguirà segnano un tempo di azione dello Spirito.

    Il mezzo giuridico che il Santo Padre ha preordinato per ricevere nella piena comunione cattolica dei fedeli anglicani è quello dell’erezione di Ordinariati Personali (I § 1).

    La competenza dell’erezione è data alla Congregazione per la Dottrina della Fede, per il fatto che quest’ultima lungo tutto l’iter che ha portato alla Costituzione Apostolica ha dovuto affrontare questioni di carattere dottrinale e questioni dello stesso carattere si presenteranno anche al momento dell’erezione dei singoli Ordinariati e della piena incorporazione di gruppi di fedeli anglicani nella piena comunione cattolica, attraverso gli Ordinariati che verranno eretti. Tuttavia, per singoli atti, ogni Ordinariato è soggetto non solo alla Congregazione per la Dottrina della Fede, ma anche agli altri Dicasteri della Curia Romana secondo le loro competenze (Cost. Ap. II), per esempio: per le associazioni di fedeli, al Pontificio Consiglio per i Laici; per la formazione dei chierici e la loro vita, alla Congregazione per il Clero; per le varie forme di vita consacrata, alla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, ecc. Solo per quello che riguarda la visita ad limina Apostolorum, a cui l’Ordinario è tenuto ogni cinque anni, oltre la Congregazione per la Dottrina della Fede, la Costituzione Apostolica menziona espressamente la Congregazione per i Vescovi e la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli (Cost. Ap. XI).

    Con la previsione dell’erezione di Ordinariati Personali per Anglicani che entrano nella piena comunione con la Chiesa Cattolica, la Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus non viene a creare una nuova figura nell’ordinamento canonico vigente, ma applica la figura dell’Ordinariato Personale, già prevista per la cura pastorale dei militari dalla Costituzione Apostolica Spirituali militum cura, data da Giovanni Paolo II il 21 aprile 1986. È evidente che essendo diversa la finalità degli Ordinariati Militari e quella degli Ordinariati Personali per i fedeli provenienti dall’Anglicanesimo, pur essendovi delle analogie tra i due tipi di Ordinariati Personali, tuttavia vi sono anche differenze significative. Ci muoviamo nell’ambito di figure che sono dalla Chiesa create per far fronte a varie situazioni particolari che eccedono dall’ordinarietà della vita e delle necessità dei fedeli. La sollecitudine pastorale della Chiesa e l’elasticità del suo ordinamento canonico permettono di configurare circoscrizioni che siano le più adatte a venire incontro a tali necessità per il bene spirituale dei fedeli, purché esse non contraddicano i principi che fondano l’ecclesiologia cattolica.

    Come gli Ordinariati Militari non sono previsti espressamente nel Codice di Diritto Canonico così non lo sono gli Ordinariati Personali per gli Anglicani che entrano nella piena comunione con la Chiesa Cattolica. Tuttavia, come gli Ordinariati Militari nella Costituzione Apostolica Spirituali militum curae sono considerati peculiari circoscrizioni ecclesiastiche e vengono giuridicamente assimilati alle diocesi (Cost. Ap. I § 1), così anche gli Ordinariati Personali per i fedeli provenienti dall’Anglicanesimo nella Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus sono giuridicamente assimilati alle diocesi (Cost. Ap. I § 3).

    Tali Ordinariati Personali non si possono considerare una Chiesa particolare rituale, in quanto la tradizione liturgica, spirituale e pastorale anglicana viene a configurarsi piuttosto come una particolarità all’interno della Chiesa Latina; inoltre scegliere la figura giuridica di una Chiesa rituale avrebbe potuto creare problemi ecumenici. Neppure possono essere considerati Prelature personali, in quanto, secondo il can. 294 le Prelature personali sono formate da presbiteri e diaconi del clero secolare, mentre i laici, secondo il can. 296, possono semplicemente dedicarsi alle opere apostoliche di esse mediante convenzioni; i membri di Istituti di vita consacrata o di Società di vita apostolica nei canoni riguardanti le Prelature personali non vengono neanche menzionati.

    Gli Ordinariati per i fedeli provenienti dall’Anglicanesimo sono, allora, circoscrizioni personali, in quanto la giurisdizione dell’Ordinario, e di conseguenza dei parroci, non è circoscritta da un territorio all’interno di una Conferenza Episcopale come una Chiesa particolare territoriale, ma è esercitata "su tutti coloro che appartengono all’Ordinariato" (Cost. Ap. V). Inoltre, nel territorio di una stessa Conferenza Episcopale, a seconda delle necessità, possono essere eretti anche più Ordinariati Personali (Cost. Ap. I § 2).

    Dalla lettura della Costituzione Apostolica e delle Norme Complementari emanate dalla Sede Apostolica si percepisce chiaramente l’intento, con la previsione di erezione di Ordinariati Personali, di comporre due esigenze: da una parte quella di "mantenere vive all’interno della Chiesa Cattolica le tradizioni spirituali, liturgiche e pastorali della Comunione Anglicana, quale dono prezioso per alimentare la fede dei suoi membri e ricchezza da condividere" (Cost. Ap. III); dall’altra quella di una piena integrazione di gruppi di fedeli o di singoli, già appartenenti all’Anglicanesimo, nella vita della Chiesa Cattolica.

    L’arricchimento è reciproco: i fedeli provenienti dall’Anglicanesimo, entrando nella piena comunione cattolica, ricevono la ricchezza della tradizione spirituale, liturgica e pastorale della Chiesa Latina Romana, per integrarla con la loro tradizione, di cui viene ad arricchirsi la stessa Chiesa Latina Romana. D’altra parte proprio tale tradizione anglicana, che viene ricevuta nella sua autenticità nella Chiesa Latina Romana, nell’Anglicanesimo ha costituito uno di quei doni della Chiesa di Cristo che hanno spinto tali fedeli verso l’unità cattolica.

    Si tratta, allora, di un provvedimento che va al di là della Pastoral Provision adottata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e approvata da Giovanni Paolo II il 20 giugno 1980. Infatti, mentre la Pastoral Provision prevedeva che i fedeli provenienti dall’Anglicanesimo appartenessero alla diocesi in cui avessero il domicilio, pur essendo oggetto di una particolare cura pastorale da parte del Vescovo diocesano, la Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus prevede che fanno parte dell’Ordinariato Personale, non della diocesi in cui stabiliscono il loro domicilio, fedeli di ogni stato di vita (laici, chierici, membri di Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica), provenienti, come singoli o in gruppi, dall’Anglicanesimo o che ricevono i sacramenti dell’iniziazione nell’Ordinariato stesso (Cost. Ap. I § 4).

    I chierici sono ascritti all’Ordinariato Personale tramite l’incardinazione, regolata secondo il Codice di Diritto Canonico (Cost. Ap. VI § 3), mentre i laici e gli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica, provenienti dall’Anglicanesimo, debbono manifestare per iscritto la volontà di entrare a far parte dell’Ordinariato (Cost. Ap. IX). Le Norme Complementari (= NC) prevedono che tali laici e Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica siano iscritti in un apposito registro dell’Ordinariato (Art. 5 § 1). Infatti, mentre si fa parte di una Chiesa particolare territoriale per il fatto del domicilio o quasi domicilio, si fa parte dell’Ordinariato Personale sulla base del fatto oggettivo della precedente appartenenza all’Anglicanesimo oppure perché si è venuti alla fede cattolica tramite l’Ordinariato. Possiamo dire che l’iscrizione nel registro sostituisce il fatto del domicilio o quasi domicilio che in relazione all’appartenenza ad una struttura di carattere personale è irrilevante.

    La Costituzione Apostolica in questo momento vuole innanzitutto provvedere al ristabilimento della piena comunione in un qualche modo "corporativa", da parte di gruppi che comprendono vari stati di vita. Gli Ordinariati Personali per tali gruppi sono sembrati le strutture canoniche più adatte a proteggere e alimentare la tradizione spirituale, liturgica e pastorale sviluppatasi nell’Anglicanesimo e che la Chiesa Cattolica riconosce come autentica. Ciò non esclude che possano far parte di un Ordinariato Personale anche singoli fedeli provenenti dall’Anglicanesimo o singoli fedeli che giungono alla fede cattolica attraverso l’attività pastorale e missionaria dell’Ordinariato Personale e che in esso ricevono i sacramenti dell’iniziazione. La Pastoral Provision non è sembrata un mezzo adatto per la nuova situazione cui la Sede Apostolica è stata sollecitata a rispondere.

    L’Ordinario che ha la cura pastorale dei fedeli che fanno parte dell’Ordinariato Personale, esercita infatti una potestà ordinaria vicaria in nome del Romano Pontefice (Cost. Ap. V.b), e quindi, godendo di una sua giusta autonomia rispetto alla giurisdizione dei Vescovi diocesani in cui i fedeli dell’Ordinariato hanno il domicilio, può meglio garantire che sia evitata un’assimilazione di tali fedeli nelle diocesi in un modo tale da perdere la ricchezza della loro tradizione anglicana, apportando un impoverimento a tutta la Chiesa. D’altra parte l’Ordinario, nell’esercizio della sua potestà vicaria, deve anche garantire l’integrazione piena dell’Ordinariato nella vita della Chiesa Cattolica, evitando che esso si trasformi in una "chiesuola" al suo interno.

    La tutela e l’alimento della tradizione anglicana sono assicurati:

    a) dalla concessione all’Ordinariato della facoltà di celebrare l’Eucaristia e gli altri Sacramenti, la Liturgia delle Ore e le altre azioni liturgiche secondo i libri liturgici propri della tradizione anglicana approvati dalla Santa Sede, senza però escludere che le celebrazioni liturgiche avvengano secondo il Rito Romano (Cost. Ap. III);

    b) dal fatto che l’Ordinario, per la formazione dei seminaristi dell’Ordinariato che vivono in un seminario diocesano, può stabilire programmi specifici oppure erigere una casa di formazione per loro (Cost. Ap. VI § 5; NC Art. 10 § 2); i seminaristi debbono provenire da una parrocchia personale dell’Ordinariato o comunque dall’Anglicanesimo (NC Art. 10 § 4);

    c) dalla concessione che coloro che erano ministri coniugati nell’Anglicanesimo, anche vescovi, possono essere ordinati nel grado del presbiterato, a norma dell’Enciclica di Paolo VI Sacerdotalis coelibatus, n. 42 e della Dichiarazione In June, cioè rimanendo nello stato matrimoniale (Cost. Ap. VI § 1);

    d) dalla possibilità, dopo un processo di discernimento basato su criteri oggettivi e le necessità dell’Ordinariato (NC Art. 6 § 1), di chiedere al Romano Pontefice di ammettere caso per caso all’Ordine Sacro del presbiterato anche uomini coniugati, in deroga al CIC can. 277, §1, sebbene la regola sia che vengono ammessi all’ordine del presbiterato solo uomini celibi (Cost. Ap. VI § 2);

    e) dall’erezione di parrocchie personali da parte dell’Ordinario, dopo aver sentito il parere del Vescovo diocesano del luogo e ottenuto il consenso della Santa Sede (Cost. Ap. VIII § 1);

    f) dalla possibilità di ricevere Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica provenienti dall’Anglicanesimo e di erigerne di nuovi (Cost. Ap. VII);

    g) dal fatto che, per il rispetto della tradizione sinodale dell’Anglicanesimo: 1) l’Ordinario è nominato dal Romano Pontefice, sulla base di una terna di nomi presentata dal Consiglio di Governo (NC Art. 4 § 1); 2) la costituzione del Consiglio Pastorale è prevista come obbligatoria (Cost. Ap. X § 2); 3) il Consiglio di Governo, composto di almeno sei sacerdoti, oltre le funzioni stabilite dal Codice di Diritto Canonico per il Consiglio Presbiterale e il Collegio dei Consultori, esercita anche quelle specificate nelle Norme Complementari, dovendo in alcuni casi dare il suo consenso o esprimere il suo voto deliberativo (Cost. Ap. X § 2; NC Art. 12).

    L’integrazione nella vita della Chiesa Cattolica è assicurata da quelle norme che disciplinano la professione di fede e le relazioni con le Conferenze Episcopali e con i singoli Vescovi diocesani, secondo le quali:

    a) il Catechismo della Chiesa Cattolica è considerato l’espressione autentica della fede dei membri dell’Ordinariato (Cost. Ap. I § 5);

    b) un Ordinariato personale viene eretto dalla Santa Sede all’interno dei confini territoriali di una Conferenza Episcopale, dopo che quest’ultima sia stata consultata (Cost. Ap. I § 1);

    c) l’Ordinario è membro della rispettiva Conferenza Episcopale, di cui è tenuto a seguire le direttive, a meno che non siano incompatibili con la Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus (NC Art. 2);

    d) l’ordinazione di ministri provenienti dall’Anglicanesimo è prevista come assoluta, nel rispetto dell’Epistola Apostolicae curae data da Leone XIII il 13 settembre 1896; in nessun modo viene previsto che siano ammessi all’ordine dell’episcopato uomini coniugati (NC Art 11 § 1), questo per rispetto a tutta la tradizione cattolica latina e delle Chiese orientali cattoliche, nonché della tradizione ortodossa;

    e) i presbiteri incardinati in un Ordinariato costituiscono il suo presbiterio, ma debbono coltivare un vincolo di unità con il presbiterio della diocesi nel cui territorio svolgono il loro ministero e favorire iniziative e attività pastorali e caritative congiunte, che potranno essere oggetto di convenzioni stipulate tra l’Ordinario e il Vescovo o i Vescovi diocesani interessati (Cost. Ap. VI § 4; NC Art. 3); è prevista la possibilità di mutuo aiuto pastorale tra i chierici incardinati nell’Ordinariato e quelli incardinati nella diocesi in cui si trovano fedeli dell’Ordinariato (NC Art. 9 §§ 1 e 2);

    f) i presbiteri dell’Ordinariato possono essere eletti membri del Consiglio Presbiterale della Diocesi nel cui territorio esercitano la cura pastorale dei fedeli dell’Ordinariato (NC Art. 8 § 1);

    g) i presbiteri e i diaconi dell’Ordinariato possono essere membri del Consiglio Pastorale della Diocesi nel cui territorio esercitano il loro ministero (NC Art. 8 § 2);

    h) la potestà dell’Ordinario è esercitata in modo congiunto con il Vescovo diocesano nei casi previsti dalle Norme Complementari (Cost. Ap. V; NC Art. 5 § 2);

    i) i candidati agli Ordini sacri debbono essere formati insieme agli altri seminaristi, specialmente per quello che riguarda gli ambiti dottrinale e pastorale, anche se può essere per loro previsto un programma particolare oppure può essere eretta una casa di formazione (Cost. Ap. VI § 5; NC Art. 10 § 2);

    j) per erigere una parrocchia personale l’Ordinario deve aver sentito il parere del Vescovo diocesano del luogo (Cost. Ap. VIII § 1);

    k) le Norme Complementari stabiliscono quando i diritti e i doveri propri del parroco dell’Ordinariato saranno esercitati in mutuo aiuto pastorale col parroco del territorio in cui è eretta la parrocchia personale (Cost. Ap. VIII § 2; NC 14 § 2);

    l) il tribunale competente per le cause giudiziali riguardanti i fedeli appartenenti all’Ordinariato è quello della diocesi in cui una delle parti ha il domicilio, a meno che l’Ordinariato non abbia costituito un suo tribunale (Cost. Ap. XII).

    Come si può vedere, la Costituzione Apostolica Anglicanorum coetibus predispone norme che stabiliscono la natura e regolano in modo generale la vita degli Ordinariati Personali appositamente eretti per Anglicani che entrano nella piena comunione con la Chiesa Cattolica. Viene così istituita una struttura canonica flessibile, in quanto si può prevedere che i Decreti di erezione dei singoli Ordinariati terranno conto della situazione particolare dei vari luoghi adattando ad essa quanto contenuto nella presente Costituzione Apostolica e nelle Norme Complementari. Come lo Spirito Santo ha guidato il lavoro preparatorio di questa Costituzione Apostolica, così assisterà nell’applicazione di essa.

    [01643-01.01] [Testo originale: Italiano]

  • venerdì 5 giugno 2009

    Perché negli Stati Uniti crolla la fiducia dei pazienti

    Dottore, non ti credo più


    di Giulia Galeotti

    In Un medico di campagna (1918), il personaggio di Kafka nota come le persone del suo distretto si attendano l'impossibile dal loro dottore: avendo ormai perso le antiche credenze, pretendono che il medico sia onnipotente. Se anche in Italia v'è oggi un atteggiamento che vede nella scienza e negli scienziati i nuovi profeti, è però indubbio - come attesta il grande fenomeno in crescita dei siti medici fai-da-te - che i pazienti tendono sempre più a farsi la diagnosi da soli, confidando più in se stessi che nella capacità degli esperti. Cogliendo nel segno, già nel 1977 la sociologa Marie R. Haug si chiedeva quali sarebbero state le conseguenze dell'accesso del pubblico alle informazioni e, in particolare, se il cambiamento avrebbe prodotto effetti in termini di autorità.
    Del complesso rapporto tra medico e paziente, Jonathan B. Imber, docente di etica e di sociologia al Wellesley College, ha cercato di dare una spiegazione per gli Stati Uniti nel suo recente volume Trusting Doctors. The decline of moral authority in American medicine (Princeton University Press, 2008).
    Il saggio - il cui merito è quello di offrire validi spunti di riflessione (spesso validi anche per l'Italia), sebbene alcuni passaggi non siano in toto condivisibili - inizia con un assunto decisamente controcorrente. Secondo Imber fidarsi dei medici è una necessità assoluta nella nostra vita di esseri umani, mentre (e specularmente) il farlo è legato a una parte essenziale della professione medica. Eppure, da tempo, le cose stanno andando in tutt'altra direzione.
    Le cause che Imber individua sono sostanzialmente tre. La prima è legata al declino dell'autorità religiosa nella vita quotidiana americana. Il fatto che in passato i pazienti vedessero nei medici i rappresentanti di una vocazione sacra era dovuto, secondo Imber, all'influenza degli ecclesiastici protestanti e cattolici durante il xix e la prima parte del xx secolo. Nel saggio egli ripercorre sia l'enfasi del clero protestante sulla vocazione dei medici (accentuandone la visione come persona integerrima, moralmente retta ed incorruttibile), sia quella dei moralisti cattolici sugli specifici dilemmi che gli operatori sanitari incontrano quotidianamente (il che ha attribuito e riconosciuto loro l'importante capacità di decidere non solo in termini scientifici, ma anche etici e morali). La fiducia dei pazienti nei medici è così venuta costantemente diminuendo man mano che si assottigliava l'influenza e l'autorità della religione, proprio perché a questa era da imputarsi la precedente ascesa della loro autorità. Riferendosi a protestanti e cattolici, Imber non intende richiamarsi alla composizione della categoria medica negli Stati Uniti; come noto, infatti, per decenni, almeno fino alla metà del ventesimo secolo, non solo i medici erano di tradizione protestante, ma esisteva una fortissima discriminazione verso cattolici ed ebrei.
    La seconda causa che secondo Imber spiegherebbe il declino dell'autorità morale dei medici, è, invece, da ricollegarsi alla direzione e al tipo di progressi che la medicina ha compiuto. Il fenomeno si sviluppa subito dopo la ii guerra mondiale, momento in cui i medici iniziano a non essere più considerati per la loro integrità personale, quanto piuttosto per le loro competenze tecniche, una sorta di meri esecutori del sapere scientifico. Man mano che è aumentata la fiducia nella tecnologia medica, la figura del singolo dottore ha subito dunque una revisione radicale. Ovviamente l'ottica dalla quale Imber descrive il complesso rapporto è quella del pubblico, dei pazienti, non certo quella dei medici: se gli operatori sanitari sanno perfettamente che un'ecografia non può mai essere oggettiva (nemmeno nel ventunesimo secolo!), tale consapevolezza manca completamente nel comune sentire.
    In questo passaggio verso la perdita di autorità della categoria, hanno ovviamente giocato anche altri elementi, come il fatto che la medicina moderna sia sempre più specializzata, che abbia compiuto enormi progressi in pochissimo tempo, guidata dall'industria del profitto e popolata da pazienti sempre più ansiosi (elementi che per Imber lasciano presagire nuove e non facili scommesse per i medici di domani). L'autore, del resto, inserisce questa crisi, nella crisi più ampia che ha investito tutte le professioni, per cui in generale si è avuto un crollo di fiducia nella capacità degli esperti di affrontare e risolvere i problemi legati alle loro specifiche competenze, siano essi economisti, politici o scienziati.
    La terza causa della perdita di autorità dei medici è legata all'aumento di attenzione per la salute delle donne, e alla fallimentare gestione che di questa ha compiuto la medicina americana. I gravi errori nell'introduzione di nuovi farmaci e nei trattamenti per le pazienti che, invece di migliorare, ne hanno spesso danneggiato la salute, hanno avuto un peso determinante (si pensi, tra le altre cose, alle conseguenze della scorretta sperimentazione della pillola, alla talidomide, alle mastectomie, al dietilbetrolo o all'impianto del silicone). Nell'introduzione del celeberrimo Noi e il nostro corpo, il Collettivo delle donne di Boston scriveva "noi tutte avevamo provato lo stesso senso di frustrazione e di rabbia nei confronti dei medici accomodanti e paternalistici che si limitavano a trinciare giudizi". Si tratta di una valutazione condivisa che, penetrando in radice, ha finito per erodere nel profondo fiducia e autorità verso la categoria medica.
    La domanda sottesa al saggio di Imber è, dunque, radicale: se oggi i medici pensano ai problemi in modo nuovo - organizzandosi il lavoro in forme completamente differenti rispetto al passato - mentre i pazienti nutrono scarsissima fiducia in loro come persone, ma enormi attese in loro come esecutori, perché si continua a chiamarli "dottori"? La conclusione dello studioso americano è chiara: ogni tentativo di definire la professione medica, non può non tenere conto del dato imprescindibile relativo al fatto che quanti la praticano sono persone. Che un medico è qualcosa di più della somma dei suoi titoli di studio e delle sue specializzazioni. E - aggiungeremmo noi - è qualcosa di più della somma delle volontà e delle pretese dei pazienti.


    (©L'Osservatore Romano - 6 giugno 2009)

    sabato 23 maggio 2009

    1968

    clipped from www.storialibera.it
    1968

    "At the beginning there was the sad Rousseau. But Hannah Arendt is that who understood everything: a nostalgic crowd is ready to totalitarism. «Melancholy memory the better instrument to forget one's own destiny completely. The premise is that the present is transformed already in a sentimental past. The power and the autonomy of the soul are guaranteed. At the cost of truth that without reality, reality shared with other men, looses every sense». When all senses are lost everything is possible" ("If you want, you can call them emotions", from "Tempi").
    blog it

    Rino Cammilleri, Il crocifisso del samurai, Rizzoli 2009

    L'intero primo capitolo del romanzo!

    lunedì 27 aprile 2009

    La direzione finale del cosmo

    Contrapposizioni superabili tra scienza e teologia

    Il 28 aprile presso l'istituto Veritatis Splendor si tiene una conferenza intitolata "La questione del finalismo nei processi della natura". Ne pubblichiamo alcuni stralci.

    di Marc Leclerc
    Pontificia Università Gregoriana

    Secondo la visione del mondo che regge da quasi due secoli la concezione dominante delle scienze positive, queste costituiscono l'unica conoscenza legittima e verificabile, pur essendosi formate tramite il rifiuto sistematico di ogni causalità finale. Per il Circolo di Vienna, il ruolo della filosofia si limita praticamente a "eliminare le scorie metafisiche e teologiche accumulate da millenni" - secondo l'espressione del Manifesto del 1929 - per purificarne e liberarne le scienze sperimentali e consentire loro di raggiungere la piena maturità, nella perfetta autosufficienza.
    Liberare l'uomo dall'illusione delle cause finali diviene un obiettivo essenziale dei neopositivisti. La natura è perfettamente obiettiva e può essere conosciuta a posteriori tramite esperimenti controllabili, con l'aiuto della logica e della matematica, prettamente analitiche e quindi "tautologiche", secondo questa epistemologia.
    I tre aspetti indissociabili che costituiscono il postulato fondamentale della "concezione scientifica del mondo" sono l'esclusione sistematica di ogni finalità naturale che accompagna la struttura puramente obiettiva del metodo scientifico e dalla riduzione di ogni conoscenza a ciò che esso può determinare.
    Di tale postulato, Jacques Monod offre un'espressione molto chiara e esplicitamente antifinalista, che chiamerà "il postulato d'obiettività": "La pietra angolare del metodo scientifico è il postulato dell'obiettività della natura. Cioè il rifiuto sistematico di considerare come capace di condurre a una conoscenza "vera" ogni interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di "proietti"". Esclusa dal metodo scientifico, unico capace di portare ad una vera conoscenza, la finalità nella natura si riduce ad una pura illusione antropomorfica. La "teleonomia" riconosciuta nel comportamento degli esseri viventi non può quindi che ridursi al risultato aleatorio di un meccanismo cieco.
    Come superare l'aporia del positivismo, rifuggendo allo stesso tempo un finalismo ingenuo? Su questa via il pensiero critico di Joseph Maréchal (1878-1944) sembra insostituibile. La finalità dell'intelligenza ha un ruolo fondamentale in questo pensiero, che supera l'agnosticismo kantiano tramite l'analisi rigorosa delle implicazioni del dinamismo intellettuale, fondamento immediato della conoscenza obiettiva. In un dialogo fecondo fra la critica filosofica e le scienze sperimentali, Maréchal riannoda i legami tra la "conoscenza d'oggetto" nel senso fenomenale della parola, e l'affermazione necessaria dell'essere, livello questo in cui si può ritrovare criticamente una vera finalità naturale. Secondo Maréchal "ogni movimento tende verso un fine ultimo, secondo una legge, o forma specificatrice, che imprime a ogni tappa del movimento il segno dinamico del fine ultimo". "Questa finalità interna del movimento - precisa - lungi dall'entrare in conflitto con il determinismo causale, ne è, al contrario, la prima condizione razionale". Nell'ambito dell'affermazione realista, che supera le scienze avvolgendole per intero, lo studioso sostiene che "ogni divenire, ogni movimento che non sia un semplice spostamento passivo, tende, di per sé, verso un riposo finale o verso un fine ultimo".
    Per progredire in questa articolazione tra scienze e metafisica, si deve ricorrere alle prospettive complementari di Pierre Scheuer e di Gaston Isaye. Scheuer analizza il tipo di rapporto che unisce, nella distinzione, la metafisica alle scienze positive. Ecco l'intuizione centrale: la metafisica è "immanente per modum formae al sapere scientifico, nel modo in cui l'anima è immanente al corpo".
    Sembra essenziale di riconoscere detta immanenza della metafisica alle scienze, in modo di preservare queste ultime dalla tentazione ricorrente di pretendere all'autofondazione, all'autosufficienza. Una tentazione illusoria come rivela la storia recente delle scienze alla ricerca dei propri fondamenti. Infatti se bisogna evitare la pura giustapposizione di campi senza comunicazione, il rischio maggiore sarebbe che la scienza si erga indebitamente in una forma di metafisica, interamente dogmatica, pretendendo dire l'ultima parola de omni re scibili. A questo punto la scienza si muta in ideologia, che è il suo contrario.
    Per ritrovare il cammino della vera finalità della natura, integrando i dati principali delle scienze, occorre sviluppare la prospettiva d'interazione accennata da Scheuer. In questo senso si è mosso Gaston Isaye (1903-1984), che ha delineato un'interazione reciproca, senza circolo vizioso, tra le scienze e la filosofia.
    La chiave si trova nella giustificazione dell'induzione. Non si può dedurre legittimamente, da premesse scientifiche, alcuna conclusione di portata metafisica, e nemmeno il contrario. Se si vogliono evitare la pura giustapposizione sterile di campi, come pure le confusioni dannose, l'unica via praticabile sembra quella induttiva, da definire precisamente, via che permetterà in particolare alla riflessione filosofica di raccogliere tutti gli insegnamenti che può ricevere, non solo dalla forma, ma anche dai principali risultati della ricerca scientifica. Bisognerà però giustificare l'induzione, prima all'interno delle scienze sperimentali, poi a livello dell'interpretazione metafisica del sensibile.
    Per Isaye l'induzione appare come un primo principio della conoscenza sperimentale. In questo caso ogni dimostrazione si rivela impossibile, pena la petizione di principio. Tuttavia, come per il principio di non contraddizione, ciò non significa che debba rimanere arbitraria o che sia legittimo di farne a meno. L'esempio più chiaro è forse quello della percezione induttiva dell'intenzione soggiacente al comportamento degli altri esseri umani: l'intenzione in quanto tale non è sensibile, ma l'induciamo legittimamente dalla percezione sensibile di certi comportamenti osservabili, nel mondo fenomenale. Certo ci possiamo sbagliare sulle intenzioni particolari di qualcuno, ma non sul carattere fondamentalmente intenzionale di ogni comportamento umano deliberato. È poi sulla stessa base induttiva che si potrebbe stabilire l'esistenza di una finalità naturale reale, partendo da ciò che si osserva al livello dei fenomeni del mondo vivente, quali descritti dalla biologia.
    Per concludere, vorremmo indicare brevemente alcuni punti di riferimento per una rilettura critica della finalità nella natura. Come punto di partenza, bisogna considerare la finalità deliberata dei nostri propri comportamenti e le sue condizioni di possibilità. L'esistenza di tale finalità è evidente: la induciamo inevitabilmente dal comportamento altrui. D'altra parte, la realtà di una finalità naturale nell'uomo, intrinseca alla stessa natura della sua intelligenza e della sua volontà, è stata ampiamente stabilita dalle analisi di Maréchal. Questa finalità naturale si manifesta anche al livello della vita biologica nell'uomo, che ne costituisce una condizione di possibilità e l'accomuna nello stesso tempo al mondo animale: ogni atto umano dell'intelligenza e della volontà è condizionato dalla sua natura di essere vivente, legato a tutti gli altri e sottomesso alle stesse leggi fondamentali. La finalità intelligibile dell'uomo appare difatti come il fine prossimo della sua costituzione biologica, essa stessa attraversata da una finalità naturale, anteriore a ogni uso della libertà. Un segno indubitabile di questa finalità spontanea, inconscia e non deliberata, sta nel fenomeno del sogno, che condividiamo con gli altri mammiferi. Nell'uomo, il suo senso particolare legato al linguaggio, è rivelato tra l'altro dall'analisi freudiana dell'inconscio, supponendo certo che questi abbia una finalità obiettiva e decifrabile, per chi ne possieda le chiavi.
    In ogni caso, la nostra vita biologica, condizione necessaria ma non sufficiente della nostra esistenza consapevole, non è pensabile se non in stretto legame con tutto il mondo vivente, esso stesso condizionato dalla struttura globale dell'universo: ritroviamo così il principio antropico su un altro piano. La nostra finalità, vista in modo retrospettivo, è quindi sospesa a quella di tutto il mondo vivente, dove sembra legittimo leggere la nostra emergenza come un fine particolare. Il mondo della vita appare come il risultato di un'immensa evoluzione, che sulla Terra è durata almeno tre miliardi e mezzo di anni. In quanto condizione di possibilità della nostra presenza come esseri finalizzati, questo ampio processo sembra attraversato da un'analoga finalità.
    Infine, la condizione fisica di possibilità dell'evoluzione del mondo vivente, come della sua apparizione sulla Terra, è costituita dall'intera evoluzione cosmologica, partendo dalle sue condizioni iniziali nel modello standard del big bang. Sembra quindi legittimo di leggere questa ultima a partire dalla nostra situazione, quindi all'interno di una finalità reale, che dà senso e unità all'insieme del processo e dei complessi meccanismi in cui esso si realizza.
    L'insieme delle scienze positive, animate dall'interno da una ricerca metafisica che le fonda superandole, ci offrono sulle condizioni biologiche e cosmologiche della nostra esistenza un ampio organismo sempre più integrato di conoscenze decisive, di cui la riflessione filosofica non potrebbe fare a meno. I pochi elementi di una critica realista qui suggeriti, nella linea di Maréchal, Scheuer e Isaye, indicano una delle direzioni che potrebbe prendere una feconda interazione tra ricerca scientifica e riflessione filosofica, permettendoci di superare in atto le aporie ricorrenti del positivismo e delle sue vicissitudini. Tale articolazione critica ci acconsente di riconoscere una vera unità finale del cosmo, supponendo una teleologia criticamente fondata.



    (©L'Osservatore Romano - 27-28 aprile 2009)