lunedì 27 aprile 2009

La direzione finale del cosmo

Contrapposizioni superabili tra scienza e teologia

Il 28 aprile presso l'istituto Veritatis Splendor si tiene una conferenza intitolata "La questione del finalismo nei processi della natura". Ne pubblichiamo alcuni stralci.

di Marc Leclerc
Pontificia Università Gregoriana

Secondo la visione del mondo che regge da quasi due secoli la concezione dominante delle scienze positive, queste costituiscono l'unica conoscenza legittima e verificabile, pur essendosi formate tramite il rifiuto sistematico di ogni causalità finale. Per il Circolo di Vienna, il ruolo della filosofia si limita praticamente a "eliminare le scorie metafisiche e teologiche accumulate da millenni" - secondo l'espressione del Manifesto del 1929 - per purificarne e liberarne le scienze sperimentali e consentire loro di raggiungere la piena maturità, nella perfetta autosufficienza.
Liberare l'uomo dall'illusione delle cause finali diviene un obiettivo essenziale dei neopositivisti. La natura è perfettamente obiettiva e può essere conosciuta a posteriori tramite esperimenti controllabili, con l'aiuto della logica e della matematica, prettamente analitiche e quindi "tautologiche", secondo questa epistemologia.
I tre aspetti indissociabili che costituiscono il postulato fondamentale della "concezione scientifica del mondo" sono l'esclusione sistematica di ogni finalità naturale che accompagna la struttura puramente obiettiva del metodo scientifico e dalla riduzione di ogni conoscenza a ciò che esso può determinare.
Di tale postulato, Jacques Monod offre un'espressione molto chiara e esplicitamente antifinalista, che chiamerà "il postulato d'obiettività": "La pietra angolare del metodo scientifico è il postulato dell'obiettività della natura. Cioè il rifiuto sistematico di considerare come capace di condurre a una conoscenza "vera" ogni interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di "proietti"". Esclusa dal metodo scientifico, unico capace di portare ad una vera conoscenza, la finalità nella natura si riduce ad una pura illusione antropomorfica. La "teleonomia" riconosciuta nel comportamento degli esseri viventi non può quindi che ridursi al risultato aleatorio di un meccanismo cieco.
Come superare l'aporia del positivismo, rifuggendo allo stesso tempo un finalismo ingenuo? Su questa via il pensiero critico di Joseph Maréchal (1878-1944) sembra insostituibile. La finalità dell'intelligenza ha un ruolo fondamentale in questo pensiero, che supera l'agnosticismo kantiano tramite l'analisi rigorosa delle implicazioni del dinamismo intellettuale, fondamento immediato della conoscenza obiettiva. In un dialogo fecondo fra la critica filosofica e le scienze sperimentali, Maréchal riannoda i legami tra la "conoscenza d'oggetto" nel senso fenomenale della parola, e l'affermazione necessaria dell'essere, livello questo in cui si può ritrovare criticamente una vera finalità naturale. Secondo Maréchal "ogni movimento tende verso un fine ultimo, secondo una legge, o forma specificatrice, che imprime a ogni tappa del movimento il segno dinamico del fine ultimo". "Questa finalità interna del movimento - precisa - lungi dall'entrare in conflitto con il determinismo causale, ne è, al contrario, la prima condizione razionale". Nell'ambito dell'affermazione realista, che supera le scienze avvolgendole per intero, lo studioso sostiene che "ogni divenire, ogni movimento che non sia un semplice spostamento passivo, tende, di per sé, verso un riposo finale o verso un fine ultimo".
Per progredire in questa articolazione tra scienze e metafisica, si deve ricorrere alle prospettive complementari di Pierre Scheuer e di Gaston Isaye. Scheuer analizza il tipo di rapporto che unisce, nella distinzione, la metafisica alle scienze positive. Ecco l'intuizione centrale: la metafisica è "immanente per modum formae al sapere scientifico, nel modo in cui l'anima è immanente al corpo".
Sembra essenziale di riconoscere detta immanenza della metafisica alle scienze, in modo di preservare queste ultime dalla tentazione ricorrente di pretendere all'autofondazione, all'autosufficienza. Una tentazione illusoria come rivela la storia recente delle scienze alla ricerca dei propri fondamenti. Infatti se bisogna evitare la pura giustapposizione di campi senza comunicazione, il rischio maggiore sarebbe che la scienza si erga indebitamente in una forma di metafisica, interamente dogmatica, pretendendo dire l'ultima parola de omni re scibili. A questo punto la scienza si muta in ideologia, che è il suo contrario.
Per ritrovare il cammino della vera finalità della natura, integrando i dati principali delle scienze, occorre sviluppare la prospettiva d'interazione accennata da Scheuer. In questo senso si è mosso Gaston Isaye (1903-1984), che ha delineato un'interazione reciproca, senza circolo vizioso, tra le scienze e la filosofia.
La chiave si trova nella giustificazione dell'induzione. Non si può dedurre legittimamente, da premesse scientifiche, alcuna conclusione di portata metafisica, e nemmeno il contrario. Se si vogliono evitare la pura giustapposizione sterile di campi, come pure le confusioni dannose, l'unica via praticabile sembra quella induttiva, da definire precisamente, via che permetterà in particolare alla riflessione filosofica di raccogliere tutti gli insegnamenti che può ricevere, non solo dalla forma, ma anche dai principali risultati della ricerca scientifica. Bisognerà però giustificare l'induzione, prima all'interno delle scienze sperimentali, poi a livello dell'interpretazione metafisica del sensibile.
Per Isaye l'induzione appare come un primo principio della conoscenza sperimentale. In questo caso ogni dimostrazione si rivela impossibile, pena la petizione di principio. Tuttavia, come per il principio di non contraddizione, ciò non significa che debba rimanere arbitraria o che sia legittimo di farne a meno. L'esempio più chiaro è forse quello della percezione induttiva dell'intenzione soggiacente al comportamento degli altri esseri umani: l'intenzione in quanto tale non è sensibile, ma l'induciamo legittimamente dalla percezione sensibile di certi comportamenti osservabili, nel mondo fenomenale. Certo ci possiamo sbagliare sulle intenzioni particolari di qualcuno, ma non sul carattere fondamentalmente intenzionale di ogni comportamento umano deliberato. È poi sulla stessa base induttiva che si potrebbe stabilire l'esistenza di una finalità naturale reale, partendo da ciò che si osserva al livello dei fenomeni del mondo vivente, quali descritti dalla biologia.
Per concludere, vorremmo indicare brevemente alcuni punti di riferimento per una rilettura critica della finalità nella natura. Come punto di partenza, bisogna considerare la finalità deliberata dei nostri propri comportamenti e le sue condizioni di possibilità. L'esistenza di tale finalità è evidente: la induciamo inevitabilmente dal comportamento altrui. D'altra parte, la realtà di una finalità naturale nell'uomo, intrinseca alla stessa natura della sua intelligenza e della sua volontà, è stata ampiamente stabilita dalle analisi di Maréchal. Questa finalità naturale si manifesta anche al livello della vita biologica nell'uomo, che ne costituisce una condizione di possibilità e l'accomuna nello stesso tempo al mondo animale: ogni atto umano dell'intelligenza e della volontà è condizionato dalla sua natura di essere vivente, legato a tutti gli altri e sottomesso alle stesse leggi fondamentali. La finalità intelligibile dell'uomo appare difatti come il fine prossimo della sua costituzione biologica, essa stessa attraversata da una finalità naturale, anteriore a ogni uso della libertà. Un segno indubitabile di questa finalità spontanea, inconscia e non deliberata, sta nel fenomeno del sogno, che condividiamo con gli altri mammiferi. Nell'uomo, il suo senso particolare legato al linguaggio, è rivelato tra l'altro dall'analisi freudiana dell'inconscio, supponendo certo che questi abbia una finalità obiettiva e decifrabile, per chi ne possieda le chiavi.
In ogni caso, la nostra vita biologica, condizione necessaria ma non sufficiente della nostra esistenza consapevole, non è pensabile se non in stretto legame con tutto il mondo vivente, esso stesso condizionato dalla struttura globale dell'universo: ritroviamo così il principio antropico su un altro piano. La nostra finalità, vista in modo retrospettivo, è quindi sospesa a quella di tutto il mondo vivente, dove sembra legittimo leggere la nostra emergenza come un fine particolare. Il mondo della vita appare come il risultato di un'immensa evoluzione, che sulla Terra è durata almeno tre miliardi e mezzo di anni. In quanto condizione di possibilità della nostra presenza come esseri finalizzati, questo ampio processo sembra attraversato da un'analoga finalità.
Infine, la condizione fisica di possibilità dell'evoluzione del mondo vivente, come della sua apparizione sulla Terra, è costituita dall'intera evoluzione cosmologica, partendo dalle sue condizioni iniziali nel modello standard del big bang. Sembra quindi legittimo di leggere questa ultima a partire dalla nostra situazione, quindi all'interno di una finalità reale, che dà senso e unità all'insieme del processo e dei complessi meccanismi in cui esso si realizza.
L'insieme delle scienze positive, animate dall'interno da una ricerca metafisica che le fonda superandole, ci offrono sulle condizioni biologiche e cosmologiche della nostra esistenza un ampio organismo sempre più integrato di conoscenze decisive, di cui la riflessione filosofica non potrebbe fare a meno. I pochi elementi di una critica realista qui suggeriti, nella linea di Maréchal, Scheuer e Isaye, indicano una delle direzioni che potrebbe prendere una feconda interazione tra ricerca scientifica e riflessione filosofica, permettendoci di superare in atto le aporie ricorrenti del positivismo e delle sue vicissitudini. Tale articolazione critica ci acconsente di riconoscere una vera unità finale del cosmo, supponendo una teleologia criticamente fondata.



(©L'Osservatore Romano - 27-28 aprile 2009)

martedì 21 aprile 2009

Sant'Anselmo, vescovo e dottore della Chiesa

Anselmo d'Aosta e l'«unum argumentum»

Storia di un malinteso


di Alessandro Ghisalberti

Negli ultimi decenni una cospicua serie di monografie e di saggi pubblicati a livello internazionale ha testimoniato l'interesse degli studiosi per una rilettura attenta e fedele all'ispirazione euristica e metodologica del Proslógion di Anselmo d'Aosta, in particolare dell'unico argomento (unum argumentum) sviluppato nei capitoli 2-4 dell'opera. Anselmo nel Proemio all'opera lo presenta come l'argomento unico, che per essere provato non necessita di altro che di sé solo. Ritenendo condivisibile la tesi degli interpreti più recenti - tra cui spiccano Michael Corbin, Jean-Luc Marion, Pavel Evdokimov, Coloman Etienne Viola - i quali individuano una notevole divergenza tra l'argomento sviluppato da Anselmo nel Proslógion e la rielaborazione compiuta nella successiva storia della filosofia, che l'ha costretto nella denominazione di "argomento ontologico", intendiamo qui proporre una lettura puntuale dei tre capitoli menzionati dell'opera anselmiana, rimarcandone successivamente la distanza dalla rielaborazione fatta dai sostenitori dell'argomento ontologico.
Nel Proslógion Anselmo si dichiara insoddisfatto delle argomentazioni dialettiche su Dio, la creazione e la Trinità, elaborate in una precedente opera intitolata Monólogion, perché troppo ampie e frammentate; nel frattempo la ricerca di un argomento dalla forza probativa più concentrata ha avuto successo e, nel suo nucleo dialettico essenziale, esso coincide con una precisa nozione di Dio come "ciò di cui non si può pensare il maggiore". Anselmo ricava la formula dalla tradizione - in particolare da Agostino e da Boezio - ma la ritiene anche una valida sintesi dei connotati del Dio della rivelazione biblica, e perciò la introduce con il verbo "crediamo", che vale sia per dire di un dettato della fede, sia per esplicitare una denominazione coestesa con la struttura del pensiero, riscontrabile in ogni tradizione culturale o religiosa che attribuisca un significato alla parola "Dio".
Di fronte a questa nominazione di Dio, Anselmo passa a valutare la posizione dell'insipiente - desunta da un passaggio del Salmo 13 - il quale afferma che Dio non esiste, e si domanda che cosa può significare l'affermazione "Dio non esiste". Perché l'affermazione raggiunga un livello di comprensione da parte dell'intelletto, l'insipiente deve riferirsi al termine Dio intendendolo come ciò di cui non si può pensare il maggiore; pertanto il senso del suo dire si traduce nell'affermazione che Dio esiste solo nell'intelletto: infatti, se di esso negasse l'esistenza anche nell'intelletto, l'insipiente non potrebbe attribuire più alcun significato alla parola Dio, né alla sua negazione.
In questa direzione circoscritta, la negazione dell'esistenza di Dio - riportata, in positivo, all'affermazione che Dio esiste solo nell'intelletto e non nella realtà - implica una contraddizione: è contraddittorio dire che ciò di cui non si può pensare il maggiore sia ciò che esiste solo nell'intelletto, poiché io posso pensarlo esistente anche nella realtà, e così facendo penso qualcosa di "maggiore".
Non resta perciò che respingere la posizione dell'insipiente perché inficiata da manifesta contraddizione. Anselmo si appella all'evidenza: non siamo di fronte ad una dimostrazione vera e propria, articolata in premessa maggiore e minore; l'esistenza nella realtà (in re) non significa esistenza empirica, ma esistenza in generale o esistenza reale, e la forza probativa della conclusione è demandata al principio di non-contraddizione, ossia è immediatamente evidente l'aporeticità della tesi dell'insipiente, il quale, confinando ciò di cui non si può pensare il maggiore nel solo intelletto, finisce con affermare che non è ciò di cui non si può pensare il maggiore. La contraddizione è tolta solo affermando che ciò di cui non si può pensare il maggiore deve essere pensato esistente e nel pensiero e nella realtà.
Nel successivo capitolo terzo Anselmo presenta una seconda argomentazione, volta a rafforzare la conclusione precedente, facendo vedere che, in ultima istanza, si deve concludere che Dio esiste in modo così vero che non può nemmeno essere pensato non esistente, sia per cogenza della ragione dialettica, sia secondando l'istanza teologica, connessa con la "logica della rivelazione": dire che Dio non esiste significa dire - senza poterlo pensare - che ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore, ossia equivale a dire: Dio non è Dio; Dio è un idolo; Dio è pari a una qualsiasi cosa creata, di cui si può pensare il maggiore:
L'ultimo interrogativo del capitolo terzo, apparentemente retorico, è assai importante: se è così evidente alla mente razionale che Dio esiste più di ogni altra cosa, perché l'insipiente dice che Dio non esiste? In realtà lo dice, precisa Anselmo, ma non può pensarlo, e quindi l'insipiente è realmente uno stolto, che non sa quello che dice, e che vorrebbe negare la struttura originaria della mente, ossia la sua capacità di pensare il massimo del pensabile, un massimo che non può essere trasceso né da altro essere, né dal pensiero. Anselmo si assesta in una posizione teoretica che proclama l'evidenza della coincidenza di "ciò di cui non si può pensare il maggiore" con l'essere che non può non essere pensato esistente, e ciò vale solo per la formula dell'unico argomento; è altresì evidente che esso è più grande di tutto quanto si possa pensare, ossia che deve essere pensato come impensabile.
L'unico argomento di Anselmo, denominato a partire dal secolo XVIII "argomento ontologico", ha avuto diverse valutazioni e riprese nella storia della filosofia: l'hanno criticato Gaunilone, Tommaso d'Aquino, Kant; l'hanno considerato valido, con rielaborazioni, Duns Scoto, Leibniz, Wolff, Hegel.
La presentazione dell'argomento ancor oggi prevalente nei manuali di storia della filosofia è così riassumibile: Anselmo vorrebbe dare una vera e propria dimostrazione dell'esistenza di Dio, partendo dal concetto di Dio come essere supremo dalla perfezione insuperabile. Paradigmatica la formulazione dell'argomento che si riscontra nella Quinta Meditazione Metafisica di Cartesio, che intende Dio come l'essere perfettissimo: all'essere che assomma in sé la totalità delle perfezioni pensabili non può mancare la perfezione dell'esistenza nella realtà. La lettura cartesiana riconduce cioè l'argomento all'idea che dall'essenza di Dio si ricavi la sua esistenza; questa lettura è stata quella sempre proposta dagli avversari dell'argomento di Anselmo, a cominciare da Gaunilone, che ha ritenuto insostenibile la prova, perché l'idea del perfettissimo può essere una proiezione vuota del pensiero, pari a quella di un'isola sperduta nell'oceano piena di ogni dovizia. Ma siffatta lettura è stata considerata inautentica e illegittima dallo stesso Anselmo, nella risposta a Gaunilone: "In primo luogo, spesso mi fai dire che l'ente maggiore di tutti è nell'intelletto e che, se è nell'intelletto, esiste anche nella realtà, altrimenti l'ente maggiore di tutti non sarebbe maggiore di tutti; ma una tale argomentazione, in tutto ciò che io ho detto, non si trova in alcun luogo" (Risposta di Anselmo a Gaunilone, 5).
In questo modo Anselmo evidenzia il cardine del suo argomento, che non ricorre all'idea di perfettissimo, ma all'idea di essere intrascendibile detto con formula negativa: "Ciò di cui non si può pensare il maggiore".
La formulazione dell'unico argomento attesta cioè l'evidenza dell'esistenza di Dio, provando paradossalmente che essa non deve essere "dimostrata", dal momento che si "prova" con evidenza che chi la nega è "insipiente", ossia si assesta nell' impossibilità di pensare.



(©L'Osservatore Romano - 20-21 aprile 2009)

(©L'Osservatore Romano - 20-21 aprile 2009)

Chiesa e sessualità

Versioni di una morale


Nel pomeriggio di lunedì 20 aprile viene presentato a Milano, all'Università Cattolica del Sacro Cuore, il libro di Margherita Pelaja e Lucetta Scaraffia Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia (Roma-Bari, Laterza, 2008, pagine XI+322, euro 18). Pubblichiamo quasi per intero il primo intervento, dopo il quale sono previsti quelli di don Ferdinando Citterio e di Adriano Pessina.


di Maria Luisa Betri
Università di Milano

Non vi è dubbio che l'avventurarsi nell'analisi del rapporto fra Chiesa e sessualità nella storia, nell'ambito di un lungo, anzi di un lunghissimo periodo, dalle origini del cristianesimo fino ai giorni nostri, implichi una buona dose di coraggio e una padronanza più che sicura della "cassetta degli strumenti" storiografici. Certamente, né l'uno né l'altro requisito difettano alle due autrici di questo volume, un volume che intriga, avvince, invita a riflettere e a discutere, soprattutto là dove sembrano affiorare più esplicitamente alcune venature ideologiche.
Una delle cifre più visibili di questo libro è il dualismo, già insito nella fase della sua progettazione e costruzione per mano di due studiose che, da versanti contrapposti - l'una sul fronte laico, l'altra su quello cattolico - e lungo percorsi e prospettive interpretative differenti, non privi di dissonanze, convergono comunque a tratteggiare un grande quadro, ricco di suggestioni. E anche la forte motivazione da cui ha preso le mosse questo lavoro - riesaminare e verificare il consolidato stereotipo della ostinata sessuofobia che avrebbe connotato il cristianesimo prima e il cattolicesimo poi - nasce dalla constatazione dell'altrettanto tenace luogo comune del contrapporsi al piacere e al sesso, come speculare condanna, della colpa e del peccato. "Sensibilità più libere, analisi circostanziate dei testi e delle politiche - si legge nell'introduzione - possono di volta in volta articolare, smentire, porre in relazione con territori e finalità diverse, fino a sgretolare forse il potenziale interpretativo di un assunto così generico".
Insomma, in una complessa architettura, tematica e cronologica al tempo stesso, il volume ha inteso individuare i tratti distintivi dell'atteggiamento del cristianesimo e della Chiesa cattolica nei confronti della sessualità, nelle sue molte declinazioni, dandone conto "nelle trasformazioni, nelle permanenze, nelle flessibilità".
In origine - come mette in rilievo Scaraffia, la cui analisi si è mossa prevalentemente sul piano teologico e culturale - sta il modo nuovo di concepire il rapporto sessuale tra uomo e donna, modo nuovo legato al mistero dell'Incarnazione, al mistero di Dio che si fa uomo: poiché l'Incarnazione "promuove il corpo allo stesso livello dello spirito", l'amplesso fra un uomo e una donna, metafora del rapporto fra l'anima e Dio, fra la Chiesa e Cristo, assume un profondo significato spirituale. Nel cambiamento della concezione del corpo umano, ora reso sacro come "tempio di Dio", la sessualità, in cui corpo e spirito si intrecciano, viene individuata come strumento nel cammino lungo la via della salvezza.
I capitoli iniziali ripercorrono le vicende dalla fase fondativa delle origini fino a tutto il primo millennio cristiano e oltre: scelte di castità, modalità differenti di rinuncia ascetica alla pratica sessuale, uso metaforico della sessualità per parlare del sacro e le sue varie declinazioni iconografiche nell'arte sacra, il lungo iter che giunse a imporre l'obbligo del celibato ecclesiastico, ribadito solennemente a metà Cinquecento dal Concilio di Trento, per rimanere in vigore fino a oggi, e l'affermazione di un modello di matrimonio, fondato sull'inviolabilità del vincolo, e unico ambito legittimo di appagamento del desiderio.
Malgrado le autrici, in apertura di volume, dichiarino il taglio compilativo del loro lavoro, in queste pagine l'interesse a intrecciare la storia del diritto con la storia sociale, a mettere in relazione i comportamenti con le norme e l'applicazione delle norme lascia intravvedere un retroterra di conoscenze di un'ampia casistica ricostruita sullo scavo di carte d'archivio. Il governo della sessualità da parte della Chiesa viene quindi a fondarsi su "una normativa del particolare e del possibile", nella quale l'universalità di regole e dettati intransigenti si miscela a mediazioni in ogni singolo caso, in una inesauribile disponibilità a valutarne il suo contesto e le sue conseguenze, sia nella sfera individuale della coscienza, sia nelle sue ricadute sociali e politiche, per cui al rigore degli enunciati segue spesso una politica di più clemente tolleranza. "Versioni di una morale flessibile", dunque, nella politica di un disciplinamento che si rivela "impossibile" a eliminare comportamenti e pulsioni incoercibili. Tuttavia l'accento posto sulle intenzioni e sui desideri, più che sugli atti in sé, rende i testi della casistica uno strumento di costruzione di una nuova morale: "Un sistema normativo della coscienza, in cui il singolo è al centro di valutazioni e negoziazioni che declinano di volta in volta l'applicabilità della legge universale del bene e del male".
La trasformazione epocale muove dallo scorcio del Settecento, quando gli albori del processo di secolarizzazione, nella transizione verso il mondo contemporaneo, cominciano a erodere l'egemonia della Chiesa nel governo della morale, in una società - scrive Scaraffia - che da eteronoma, strutturata dalla religione, si rende autonoma, dandosi leggi proprie ai fini dell'autogoverno, sviluppando un'autocomprensione, in antitesi alla religione, su tutti i temi della vita umana, e quindi anche sul comportamento sessuale. Il quale rientra sempre più ampiamente nel discorso della scienza, della medicina innanzitutto e dell'igiene, e via via della biologia, dell'antropologia, della sociologia, della psicanalisi. Con il crescente estendersi dello sguardo e del controllo medico sul corpo della società, al fine di risanarlo debellandone le patologie e di eliminare o separare le componenti di emarginazione e devianza, la sfera della sessualità, sottratta al controllo e al disciplinamento di matrice religiosa, sarà progressivamente sussunta nel sistema medico-scientifico. Valga come esempio per tutti il caso della masturbazione, oggetto di una vasta trattatistica medica che, tra Settecento e Ottocento, ne enumera con dovizia di particolari quelle che ritiene le nefaste, invalidanti conseguenza patologiche, dalla cecità all'epilessia, in un evidente dislocamento dalla categoria di peccato, e dunque dalla dannazione dell'anima, a quella della malattia, dai degradanti effetti sul corpo.
Nella temperie positivista permeata di laicismo e anticlericalismo tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, la critica alla morale sessuale cristiana si fa più incalzante e polemica, articolandosi nei termini di una vera e propria "questione" sessuale, spesso dibattuta nelle pagine di una pubblicistica divulgativa, in cui si rivendica una pratica sessuale più libera nella sua naturale spontaneità, purché rispettosa di precise regole eugenetiche.
L'ultimo, denso capitolo del volume ripercorre le fasi del confronto, spesso lacerante e conflittuale, della Chiesa del Novecento, e in particolare nel secondo dopoguerra, con le trasformazioni del comportamento sessuale e con le istanze provenienti dalla società moderna, in particolare in materia di controllo delle nascite, di pratiche anticoncezionali e di emancipazione delle donne. Nel corso degli anni Cinquanta si va profilando un'incrinatura tra donne e Chiesa, che si coglie in "mutamenti quasi invisibili nella loro percezione di sé; insofferenze taciute verso un modello ancorato al destino biologico e riproduttivo, aspettative confuse e progettualità da elaborare su percorsi esistenziali che sembrano aprirsi agli scenari dell'istruzione e del lavoro". Tutto ciò contribuisce a "scavare un solco tra il modello cattolico e i soggetti femminili". Il mondo cattolico si divide sulla legittimità della separazione della sessualità dalla riproduzione, all'interno del legame matrimoniale, mentre negli anni Sessanta si profilano le avvisaglie di quella "liberazione sessuale" che si sarebbe pienamente manifestata nel decennio successivo, nel quale il declino dell'influenza della Chiesa si manifesta anche negli esiti dei referendum sul divorzio (1974) e sull'aborto (1981). "La più formidabile crisi della Chiesa cattolica del XX secolo", come qualcuno l'ha definita, e in queste pagine vivamente ricostruita nella dialettica tra innovatori, autorità magisteriale del Pontefice e mondo cattolico, è vissuta nelle tormentate fasi di elaborazione ed emanazione dell'enciclica Humanae vitae, che conferma l'insegnamento tradizionale della Chiesa in tema di matrimonio e condanna recisamente l'intervento umano nella procreazione, suscitando delusione e vibrate critiche. Le cui tesi per altro saranno riprese sviluppate nel pontificato di Giovanni Paolo II, che era stato uno dei consulenti di Paolo VI.
Ma la posizione attuale della Chiesa nei confronti della sessualità è veramente oppressiva e "antimoderna"? La risposta è elusa dalle autrici, giustamente contrarie alla storia che giudica. Dopo l'Humanae vitae, comunque, si sono resi più espliciti i termini del conflitto, non nella banale contrapposizione tra oppressione e libertà, bensì tra una visione "laica" che colloca anche l'atto sessuale nella sfera esclusiva della libertà individuale, e la concezione cattolica che "lo giudica e lo definisce come momento importante del percorso spirituale di ogni credente, un incontro tra anima e corpo che non si può sottrarre al rispetto delle regole religiose. L'una basata su un'analisi scientifica della sessualità e dell'autonomia del soggetto intesa come valore dominante, l'altra fondata sulla costituzione dell'individuo come soggetto morale in un sistema di norme definite".
L'auspicio espresso in chiusura, e che apre, ovviamente, alla discussione, è che "il comportamento sessuale torni a essere problema collettivo", che su di esso, materia oggi più che mai complessa e controversa, si torni insomma a ragionare superando gli steccati ideologici.

venerdì 17 aprile 2009

Sul ring metafisico del Grande Nord

Jack London e la sfida dell'uomo alle forze primordiali della natura

Pubblichiamo un estratto dall'ultimo quaderno "La Civiltà Cattolica" in uscita in questi giorni.

di Antonio Spadaro

La biografia di Jack London (1876-1916) è complessa, eppure nella molteplicità delle avventure di terra e di mare, negli alti e bassi affettivi e ideologici, vibra la stessa personalità, insieme riflessiva e avventurosa, che ama immergersi nella lettura e nella scrittura così come esporsi a imprese che richiedono forza di muscoli e di volontà. La sua scrittura e la sua vita sono parte della medesima avventura. Non sappiamo esattamente come nacque la sua vocazione letteraria, certo è che ebbe a che fare con la voglia di conquistarsi uno spazio vitale, sin dagli anni della sua infanzia, per difendere il quale il piccolo London era disposto a venire alle mani. E subito la sua prima piccola avventura, la caccia alle foche del 1893, divenne un racconto.
Da quel momento in poi ogni esperienza di vita diventò materia dei suoi racconti: la realtà è più grande della pura fantasia astratta.
La prima seria avventura che ispirò London fu quella che lo condusse nel Klondike alla ricerca dell'oro. Un vero e proprio viaggio iniziatico alla ricerca di qualcosa che sembra una metafora del significato dell'esistenza, qualcosa per la quale abbia senso essere in vita. Questa ricerca non può che essere vissuta a contatto con la wilderness, con una natura selvaggia che mette l'uomo alle corde, privo del riparo della vita agiata o protetta.
Il pensiero di Darwin, che a London giunge attraverso l'acerbo e militante entusiasmo per il filosofo Herbert Spencer, lo conduce alla visione esasperata di una lotta per la sopravvivenza dove vince sempre il migliore, il più adatto alla vita, il fittest, che alla fine è il cane. A questa ideologia si unisce l'idea nietzschiana del superuomo divenuta all'epoca moda, abbinata all'immagine dell'uomo di successo e del self-made man. L'eruzione vitalistica, muscolare, essenzialmente virile, nutre l'immaginario del giovane London, che è sempre alla ricerca di una vita vissuta fino in fondo in pienezza, anche se in forme parossistiche.
Il "Grande Nord" è stato per London una fucina di ispirazione. Oltre ai due romanzi [Il richiamo della foresta e Zanna Bianca] molte altre pagine ci parlano di cani, lupi, distese di ghiaccio, corsa all'oro. È come se la carta geografica della Gold Rush delimitasse il territorio di un ring metafisico ed esistenziale, dove i personaggi - siano essi uomini o animali, ma persino elementi della natura - pur rimanendo pienamente reali e concreti, diventano posizioni dello spirito, portatori delle tensioni fondamentali e primigenie della natura umana.
Un racconto come, ad esempio, Love of Life (L'amore per la vita) rappresenta drammaticamente il confronto tra l'uomo solo e ferito con l'immensità di una distesa di ghiaccio. Il protagonista cammina con il suo compagno Bill. Sono entrambi deboli e stanchi, col loro carico di masserizie e d'oro sulle spalle. L'uomo si sloga una caviglia e chiede aiuto all'altro che invece se ne va per la sua strada. Davanti all'uomo ferito resta l'immensità della "paurosa e terribile desolazione" pronta a schiacciarlo. Comincia a tremare ma non si ferma né si lascia vincere dal pensiero dell'abbandono. Si convince che Bill lo avrebbe atteso più avanti: "Era costretto ad aggrapparsi a questa convinzione, altrimenti non avrebbe avuto senso tutta quella fatica, e si sarebbe lasciato cadere per morire". Se l'uomo perde la "compagnia" si lascia morire. E il racconto prosegue in un'atmosfera di sospensione e solitudine tra i morsi della fame e gli espedienti per sopravvivere ai lupi: "I loro ululati vagavano avanti e indietro per quella desolazione, tessendo nell'aria un velo di minaccia così tangibile che si trovò con le braccia tese nell'aria per fendere questa minaccia e ricacciarla indietro, come le pareti di una tenda sbattuta dal vento". Such was life, eh? Questa era la vita?, si chiede.
Nel suo tragitto l'uomo incrocia le tracce di un altro uomo. Poi vede un mucchio di ossa. Era ciò che era rimasto di Bill dopo il passaggio dei lupi. L'uomo prosegue come un fantasma, guidato dalla visione, a chilometri di distanza, del mare e di una nave che assume i tratti di un miraggio irraggiungibile. L'ultimo atto sarà la lotta con un lupo, stremato tanto quanto l'uomo: una lotta estrema, lenta, affannata di due corpi senza più energie. L'uomo l'avrà vinta ma senza alcun trionfo. E sarà salvato dai marinai della nave Bedford che lo aiuteranno a riprendere fiducia nella vita.
Ciò che colpisce, fra l'altro, in "L'amore per la vita" è la proiezione di un dramma in un contesto che amplifica il senso di attesa e di sospensione. Il racconto si tende all'estremo in attesa di un compimento che sembra un miraggio. E questo caratterizza altri racconti di London. Pensiamo, ad esempio, a The Sun-dog Track (La pista del sole), dove i personaggi compiono un viaggio faticoso ed estenuante senza che il lettore ne capisca il senso e il motivo, se non nelle battute finali, dove accade un omicidio, che però resta appeso a se stesso, privo di spiegazioni.
Ma accanto a questi racconti dal sapore "metafisico" ve ne sono altri che rappresentano vivaci casi umani, spesso aperti a domande rilevanti, a casi di coscienza. Così nel racconto The Priestly Prerogative (Il privilegio del sacerdote), dove protagonista è un gesuita, padre Roubeau. London deve aver preso spunto dalla figura di William Judge, un gesuita chiamato "il santo di Dawson", che forniva rifugio e cure ai cercatori d'oro nel Klondike, il quale probabilmente gli salvò la vita quando venne colpito dallo scorbuto.
Ma ancor di più il racconto The God of His Fathers (Il Dio dei suoi padri), che mette in scena il confronto tra due uomini: Baptiste the Red, figlio di un gentleman inglese e della figlia di un capo indiano, e Hay Stockard, uno yankee in cerca d'oro e di fortuna.
Il dialogo tra i due verte sulla religione. Il capo meticcio esprime tutto il suo rancore nei confronti della Chiesa e contro il Dio degli uomini bianchi, che la sua esperienza, segnata da discriminazioni, persecuzioni e ostacoli, aveva identificato come malvagio.
Così Baptiste the Red è chiaro: "Per ogni uomo bianco che viene al mio villaggio, che sia chiaro che io lo obbligherò a rinnegare il suo Dio. Tu sei il primo e ti faccio grazia". Ma il giorno dopo ecco arrivare un pastore missionario che manda su tutte le furie Stockard: sapeva che sarebbe stato fonte di guai con il capo meticcio.
"A te, Hay Stockard, bestemmiatore filisteo, i miei saluti. Nel tuo cuore alberga l'ingordigia di Mammona, nella tua mente i diavoli astuti, nella tua tenda questa donna con la quale vivi in stato di adulterio; eppure di tanti peccati diversi, anche qua in questo deserto, io, Sturges Owen, apostolo del Signore, ti offro il perdono e allontano da te ogni iniquità": è questo il saluto del missionario.
Stockard lo conosce e lo spinge ad andar via, ma senza successo: il pastore si dice disposto anche al martirio. Baptiste si infuria e non intende ragioni: se il cercatore d'oro vuole andare libero gli deve consegnare il pastore. Stockard deve fare una scelta, ma "l'etica grossolana del suo cuore" non gli permette lo scambio, nonostante Owen sia per lui soltanto un peso imbarazzante.
Non resta che lo scontro, che svelerà il segreto dei cuori. Owen si dice disposto solamente a due cose: o al miracolo della conversione di Baptiste o a morire martire. Il suo coraggio nasceva dal fanatismo e, con l'imminenza dello scontro, cominciava a vacillare: la debolezza fiaccava i suoi propositi. Stockard era mosso da altro, più elementare, ma solido. In quel frangente, a rischio della vita, si decide a "dare una sistemata" alle sue cose: si fa sposare davanti a Dio con la sua donna e fa battezzare il suo bambino. Segue la battaglia tremenda e selvaggia, favorevole agli indiani. Ma Baptiste è ammirato dal coraggio di Stockard, ferito e irto di frecce, e vuole salvargli la vita: "Ecco un vero uomo! Nega il tuo Dio e avrai salva la vita!", gli urla mentre gli viene condotto il missionario appena scalfito da un graffio al braccio ma in un'estasi di paura. Il missionario rinnega il suo Dio e viene lasciato libero di andare con cibo e canoa. Adesso era il turno di Stockard. "Hai tu un Dio?", gli grida Baptiste. "Sì, il Dio dei miei padri", risponde il cercatore d'oro. "Battista il Rosso diede il segnale, e la lancia sfrecciò colpendolo in pieno petto". Nel racconto la coscienza sembra obbedire a messaggi lontani che vengono "dai padri" e che marcano convinzioni che sono ben più solide di fanatismi posticci. La testimonianza di Stockard fonde insieme la dignità dei propri princìpi e una fede abbracciata in extremis, ma avvertita come un istinto insopprimibile.
Il Novecento ha visto emergere scrittori di grande popolarità, ma di incerta fortuna critica. Jack London è tra coloro che, come Tolkien, pur avendo schiere innumerevoli di lettori non hanno avuto una simile fortuna in ambito critico. Spesso l'ansia di sperimentazione ha fatto apprezzare autori come Joyce, Proust o Beckett per la loro tecnica e non per la loro capacità di leggere ed esprimere le tensioni essenziali della vita. London è stato invece un narratore incostante, ma di razza, lontano da ansie formalistiche e attratto dal gusto di raccontare storie. Persino i concetti in lui alla fine non producono discorsi ma racconti e personaggi. La penna di London è radicalmente narrativa, anche se si nutre di idee, per altro apprese troppo avidamente e passionalmente per essere chiare e distinte. Per questo, in un'epoca che scopre le sue profondità nel labirinto joyciano o della memoria proustiana, o della desolazione eliotiana, l'artigianato letterario di London è apparso volgare e crudo oppure adatto ai più giovani, purché in edizioni ridotte e purgate. Eppure proprio questa crudezza fa delle sue pagine un appassionante "corpo a corpo" e non una palestra di stile. La natura selvaggia diventa il terreno per verificare i significati dell'esistenza: prova e raffina le motivazioni, saggia i cuori, facendo cadere ciò che non ha fondamento. La prima sfida è contro la vita intesa come una cosa ovvia: "È facile vedere l'ovvio, compiere le azioni previste. La tendenza delle vite individuali è statica, piuttosto che dinamica, e questa tendenza è trasformata in impulso dalla civiltà, dove si vede solo l'ovvio, e dove raramente accade l'imprevisto".
London sfida il lettore con l'imprevisto, lo interroga su come abitare il mondo e su come affrontare la vita, cogliendone l'aspetto selvaggio, primordiale. È questa, forse, la più rilevante e impegnativa eredità che London ha lasciato alle generazioni successive.



(©L'Osservatore Romano - 18 aprile 2009)

giovedì 16 aprile 2009

Somalia. La Tortuga del XXI secolo

di Anna Bono per Ragionpolitica




mercoledì 15 aprile 2009

Mentre si apprende con sollievo la notizia della liberazione di Giuseppe Canova, l'ingegnere della ditta italiana Marlum Construction Company rapito in Nigeria lo scorso 6 aprile nello Stato sudorientale di Ebonyi, resta alta la preoccupazione per la sorte dei nostri 10 connazionali e degli altri 6 membri non italiani dell'equipaggio del Buccaneer, il rimorchiatore assaltato dai pirati somali l'11 aprile e portato nella «tortuga» di Lasqorey, nel Puntland, la regione settentrionale della Somalia autoproclamatasi autonoma dopo la caduta del dittatore Siad Barre nel 1991. Il sequestro dell'imbarcazione italiana è avvenuto nelle stesse ore in cui la lotta alla pirateria segnava un passo avanti grazie ai blitz che hanno permesso la liberazione degli ostaggi di uno yacht francese, con la cattura di tre pirati già trasferiti in Francia per essere giudicati, e quella del capitano Usa, catturato durante un arrembaggio fallito e tenuto prigioniero da altri quattro pirati, tre dei quali sono stati uccisi.

L'esito positivo di queste due operazioni non basta però a compensare l'andamento deludente delle attività internazionali finora intraprese per contrastare la pirateria somala, costate alle forze NATO e, dal dicembre 2008, all'Operazione Atalanta dell'Unione Europea, da 750 milioni a un miliardo di euro, 100.000 euro al giorno per nave. Malgrado le risorse militari impiegate, gli arrembaggi sventati dai pattugliamenti sono stati pochi e in un anno i pirati hanno guadagnato in riscatti circa 100 milioni di euro: per questo i premi assicurativi sono nel frattempo aumentati in maniera astronomica e numerosi armatori hanno scelto di accollarsi gli oneri di lunghe rotte alternative.

Per complicare la situazione, più voci stanno cercando di presentare i pirati come degli eroi: in lotta, tanto per cambiare, contro l'Occidente. Li si immagina addirittura come «sentinelle ambientali» che cercano di proteggere il loro paese da chi lo vorrebbe trasformare in una immensa discarica per gli scarti industriali inquinanti: vedi ad esempio, per l'Italia, il sito Ecoblog.it. Assai più autorevole di un blog, il colonnello Gheddafi, in qualità di presidente dell'Unione Africana per il 2009, li ha definiti «combattenti contro il colonialismo» giustificandone l'operato come legittima risposta «all'avidità dei paesi occidentali che sfruttano le risorse della Somalia»: si etichettano come «pirati», ma sono solo uomini che «difendono il cibo dei loro bambini», ha inoltre spiegato, il che suona davvero stonato, essendo universalmente noto che i pirati non esitano a sequestrare navi che trasportano proprio aiuti alimentari per la popolazione somala stremata da 18 anni di guerra.

Senza spingersi a tanto, il rappresentante speciale dell'ONU per la Somalia, il diplomatico mauritano Ahmedou Ould Abdallah, ha tuttavia dichiarato lo scorso dicembre: «La comunità internazionale ha abbandonato la Somalia al suo destino, la pirateria è una delle conseguenze». Da allora la frase è stata più volte ripresa dai mass media e dai commentatori, dimentichi del fatto che in Somalia sono state tentate una missione USA e due missioni ONU tra il 1992 e il 1995 e che poi non si è smesso di lavorare sul fronte diplomatico per indurre i clan somali a deporre le armi e trovare accordi duraturi. Nel 2004, dopo anni di negoziati svoltisi in Kenya mentre in Somalia la guerra continuava, sono state create delle istituzioni politiche di transizione, trasferite in patria l'anno successivo. Per salvarle dalla minaccia dell'opposizione quasi subito coalizzatasi nell'Unione delle Corti islamiche e per arginare l'infiltrazione del fondamentalismo islamico militante, alla fine del 2006 è intervenuta l'Etiopia, con l'appoggio degli Stati Uniti. In seguito, nel 2007, è stata inviata una missione dell'Unione Africana, la Amisom. Infine altre mediazioni hanno portato a gennaio alla costituzione di un nuovo governo detto di «unità nazionale», tuttora minacciato dall'opposizione armata, riorganizzatasi e impadronitasi di numerose città, e, come il governo precedente, del tutto incapace di controllare il territorio nazionale in frantumi.

Tornando alla pirateria, certamente l'esistenza di un apparato statale funzionante sarebbe il migliore dei rimedi. Nella speranza che si giunga prima o poi a tanto, non ci vuole un esperto di strategia militare per capire le difficoltà che comporta pattugliare un tratto di mare così vasto, mancando per lo più di regole d'ingaggio che consentano di aprire il fuoco, e, per contro, l'utilità di colpire le basi dei pirati, i piccoli porti nei quali si arroccano e custodiscono ostaggi e imbarcazioni. Chissà perché, quando si tratta di Africa, si omette sempre di tentare quel che ha funzionato altrove.

mercoledì 15 aprile 2009

Prima della Rivoluzione la musica era musica, Accidenti

I mottetti di Pasqua di Antonio Vivaldi

Che furia nelle pagine del prete rosso


di Antonio Braga

Una recente iniziativa della Dynamic, in unione con RaiTrade, ci offre un dvd dall'idea originale: un gruppo di mottetti pasquali di Antonio Vivaldi, eseguiti in parte nei luoghi nei quali vennero creati, in particolare sotto le cupole bizantine e ricche di ori della basilica di San Marco, e nella raccolta bellezza della patavina Cappella degli Scrovegni. L'idea è stata realizzata da un gruppo veterano dei luoghi e delle musiche, i Solisti Veneti diretti da Claudio Scimone, che ha realizzato un'affascinante simbiosi nell'unione tra luoghi e suoni. A sovrastare il tutto, l'ormai celebre Gloria in re maggiore Rv 589, considerato il maggiore contributo al genere immaginato dal "prete rosso", così definito non tanto per il colore dei capelli, come si è detto sinora, quanto per quello della veste della confraternita dell'Ospedale della Pietà, alla quale apparteneva. Proprio l'Ospedale della Pietà era uno dei quattro luoghi dove venivano raccolte le fanciulle povere che si dedicavano alla musica.
A Venezia, in specie nel periodo delle liturgie pasquali, era motivo di interesse andare ad ascoltare le fanciulle, note per le voci pure, delicate, che stimolavano la curiosità di una parte del pubblico, poiché essendo coperte da una grata non potevano essere viste. Il presidente De Brosses si nascose una volte per scoprirne l'identità, ma non fu una buona idea: sbirciando, il francese si accorse che al posto delle angeliche creature immaginate apparivano ragazze smunte e provate dalla miseria di una vita che nella musica aveva tutta la ragione di essere.
Nella Pietà apparve attorno al 1715 il Gloria in questione. Nella presente esecuzione le voci soliste sono affidate al soprano Adriana Damato e al mezzosoprano Laura Brioli, il Coro è il Wiener Singakademie diretto da Heinz Ferlesch. Benché occupato con le innumerevoli altre composizioni, Vivaldi volle compiere un'incursione in ambito sacro che non era dovuta alla routine, bensì alla occasione della festività pasquale. Proprio in quel periodo, l'attività del grande musicista era assorbita dalla composizione di innumerevoli pagine strumentali, sul modello del "concerto grosso", che raggiunse l'apice con le notissime Stagioni, e con le opere, che superarono, a suo dire, le novantaquattro unità. In tanto fervore creativo sorse questa pagina eccezionale, assieme ad altre varianti, scritte con entusiasmo e fede. Di Gloria ve ne sono almeno due, anche se è certa la presenza di una terza partitura, andata persa. Tali pagine sono state scritte in piena attività teatrale e strumentale, tra le polemiche che nacquero sulla gestione del teatro di Sant'Angelo tra il musicista e il proprietario della sala, desideroso di riavere il suo spazio amministrato da Vivaldi.
Altre pagine di produzione affine, piccola ma importante, sono incluse nel dvd. Tra queste il Concerto in do maggiore Kv 581, "per la SS. Assunzione di Maria Vergine" per violino e archi - violino solista, Chiara Parrini - e il Salve Regina Rv 616, per mezzosoprano e orchestra, con un Ad Te supremus eseguito dal flauto solista Clementine Hoogendoom; e la sonata Al Santo Sepolcro. A questi brani si aggiunge lo Stabat Mater Rv 621 per mezzosoprano e archi, che precede il Concerto in re maggiore Rv 562, "la Solennità di San Lorenzo", per violino, due oboi, due corni e orchestra. Solisti Lucia Degani, Gianni Vieri, Sjlvano Scanziani, Gianni Viero, Antonio Frannina, Christian Longhi. L'esecuzione è una revisione del concerto di Amsterdam diretto da Vivaldi nel 1738.
Il minuscolo gruppo che è qui riunito riflette la quantità dei brani, davvero esigua, dedicata dal musicista al genere del mottetto sacro e suoi affini, cantata, salmo e oratorio, di contenuto religioso. L'autore aveva altre espressioni da muovere, in una vita fondata sulla musica teatrale e strumentale.
In questo campo, al di fuori di queste esecuzioni, resta poco: messe e parti di esse, i Salmi di David - una decina di brani - cinque cantici biblici - in specie magnificat - tra i quali uno per due cori - inni, sequenze, antifone, cantici e mottetti profani. Tutto qui, in un pelago di pagine scritte con una furia di sentimenti, tra lotte quotidiane, nelle quali si sommarono cattiverie, pettegolezzi e ripicche. Vivaldi moriva a Vienna povero, dopo avere lottato per l'intera vita contro i suoi detrattori. Bach avrebbe rispettato la sua memoria, e in Germania avrebbe riscoperto dopo oltre un secolo un così grande musicista.



(©L'Osservatore Romano - 16 aprile 2009)

lunedì 13 aprile 2009

Da "The Right Nation"

DOMENICA, APRILE 12, 2009

Easter Bunny

Pasqua amara per Barack H. Obama, che nell'ultimo presidential approval index di Rasmussen Reports scivola al +2%, punto più basso della sua ancora giovane presidenza. Intanto, negli Stati Uniti, soltanto il 53% della popolazione dichiara di preferire il "capitalismo" al "socialismo". Ne avevo scritto venerdì scorso per Liberal in uno "speciale" che ospitava anche due bei commenti di Carlo Lottieri e Carlo Stagnaro dell'IBL (i pdf dello speciale sono online qui, qui, qui equi).

sabato 11 aprile 2009

Lettera del Pontefice al cardinale Biffi

Il 21 febbraio scorso è stata pubblicata la nomina del cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna, a inviato speciale del Papa alle celebrazioni del ix centenario della morte di sant'Anselmo, che si terranno ad Aosta (Italia) dal 19 al 26 aprile prossimi. Il porporato sarà accompagnato da una missione composta da monsignor Benoît Vouilloz, prevosto emerito dei canonici regolari del Gran San Bernardo, e dal sacerdote Roberto Mastacchi, segretario particolare del cardinale Biffi. Di seguito pubblichiamo la lettera pontificia di nomina.

Venerabili Fratri Nostro
Iacobo S.R.E. Cardinali Biffi
Archiepiscopo olim Metropolitae Bononiensi

De fide quaerente intellectum potissimum tractavit sanctus Anselmus Cantuariensis, magna peritia nexum inter fidem et rationem percipiens, argumentum videlicet quod aetate etiam nostra peculiari excellit pondere. Fidei quidem est inhaerens ut credens melius Eum cognoscere exoptet in quem suam reposuit fidem idque melius intelligere quod Ipse revelavit (cfr. Catechismus Catholicae Ecclesiae, n. 158).
Sancti Anselmi, episcopi et Ecclesiae doctoris, scripta usque ad hoc tempus haud exiguam movent admirationem atque novae inquisitionis solidam constituunt inspirationem. Augustae Praetoriae praeclarus hic vir oriundus, in monasterio Beccensi in Normannia monachus et dein abbas effectus, omnes docet quemadmodum in via perfectionis sit procedendum.
Quandoquidem hoc anno nongentesimus praeterit anniversarius dies a morte huius illustris doctoris, qui insigni etiam sedi Cantuariensi praefuit, merito multa incepta suscipiuntur ut eius persona nec non philosophiae theologiaeque ratio altiore usque modo comprehendantur et divulgentur.
Animi Nostri cum delectamento nuper novimus dioecesim Augustanam praeclarum filium suum sollemni modo peregrinationibus, congressionibus ac praesertim singulari devotione celebraturam esse.
Huius ecclesialis communitatis Praesul, Venerabilis videlicet Frater Iosephus Anfossi, humanissime rogavit ut Nos quendam insignem Praelatum designaremus qui proximo mense Aprili Augustae Praetoriae celebrationi praeesset Eucharistiae atque verba spiritalis cohortationis omnibus adstantibus pronuntiaret. Iustae postulationi Nos adnuere volentes, ad Te, Venerabilis Frater Noster, decurrimus qui egregie metropolitanam Ecclesiam Bononiensem per semitas Evangelii duxisti, quique dignus Nobis omnino videris ad id munus fructuose explendum. Te igitur hisce Litteris Missum Extraordinarium Nostrum nominamus ad celebrationem nongentesimi anniversarii diei obitus sancti Anse1mi Cantuariensis, quae inter dies XIX et XXVI proximi mensis Aprilis Augustae Pretoriae sollemni modo agetur. De eminenti hoc Ecclesiae doctore loquens eiusque assidua navitate et pondere, omnes Eucharistiae participes adhortaberis ut Sacrarum Scripturarum verba meditantes atque Magisterii Ecclesiae documenta perscrutantes renovatis viribus novoque studio peculiarem dilectionem Christi et Evangelii demonstrent atque fidei zelo in vita cotidiana ferveant. Episcopum Augustanum ceterosque ibi adstantes sacros Praesules sacerdotes religiosos viros mulieresque et christifideles laicos Nostro salutabis nomine Nostramque iis ostendes benevolentiam.
Nosmet Ipsi Te, Venerabilis Frater Noster, in tua missione implenda precibus comitabimur Tibique Benedictionem Apostolicam libentes impertimur, signum Nostrae erga Te benevolentiae et caelestium donorum pignus, quam omnibus celebrationis participibus rite transmittes.
Ex Aedibus Vaticanis, die III mensis Februarii, anno MMIX, Pontificatus Nostri quarto.



(©L'Osservatore Romano - 12 aprile 2009)

venerdì 10 aprile 2009

Don Camillo, ecco il copione fantasma

Un documento inedito rafforza l'ipotesi che Giovannino Guareschi fu stru­mento della «distensione» E­st-Ovest. I racconti di Mondo Piccolo e so­prattutto la loro riduzione filmica, potrebbero aver svolto un ruolo non indifferente nei delicati equilibri psicologici tra cattolici e marxisti, tra Dc e Pci, se non addi­rittura tra Nato e Patto di Varsavia... Ad ogni buon conto ancora una volta la conferma: Giovannino sei grande!



Giovannino Guareschi strumento della «distensione» Est-Ovest ai tempi del «disgelo» tra Usa e Urss. Più o meno come le missioni diplomatiche a Helsinki, i trattati di «non proliferazione nu­cleare», il telefono rosso tra Krusciov e Kennedy... E chi fatichi a immaginare i baffoni del polemista emiliano impegnati a fendere i ghiacci della «guerra fredda », forse non ha ben considerato il ruolo che le sue opere, massime i racconti di Mondo Piccolo e soprattutto la loro riduzione filmica, potrebbero aver svolto nei delicati equilibri psicologici tra cattolici e marxisti, tra Dc e Pci, se non addirittura tra Nato e Patto di Varsavia...
Ma adesso è un interessante docu­mento a rafforzare l’ipotesi, un testo ripescato dall’archivio dei figli a Roncole Verdi nel contesto delle i­niziative del centenario guarechiano ed esposto nella grande e bella mostra sul Giovannino da grande schermo, allestita nei mesi scorsi alla Cineteca di Bologna. Si tratta del soggetto della prima pellicola dedicata a Don Camillo, 5 pagine dattiloscritte firmate da padre Felix A. Morlion, un domenicano poliedrico (è stato tra l’altro il fondatore a Roma dell’università privata Pro Deo, l’attuale Luiss) che coltivava un interesse appassionato per il mondo del cinema e i suoi risvolti «cattolici». Siamo nell’ottobre 1950. Padre Morlion – sulla cui controversa figura si torna a parte – è reduce dalla consulenza religiosa per il film di Roberto Rossellini Francesco giullare di Dio, prodotto dal commendator Angelo Rizzoli, ed è dunque piuttosto prevedibile che la casa cinematografica milanese gli richieda (pare attraverso il produttore Peppino Amato) anche un soggetto ispirato alla prima raccolta di racconti di Mondo Piccolo.
Per la verità un copione è già stato steso, però non è piaciuto affatto a Guareschi, il quale nell’estate del 1950 ha scritto una lunga lettera a Rizzoli segnalandone con forza i difetti; tra cui, soprattutto, il mancato rispetto della tesi principale della sua opera: «Far risaltare la differenza sostanziale che esiste tra la 'massa comunista' e l’'apparato comunista'. Indurre cioè l’uomo della massa a ragionare col suo cervello e con la sua coscienza». Per lo scrittore si tratta di un elemento irrinunciabile: «Io non potrei mai ammettere che il concetto informatore della serie dei miei racconti venisse comunque falsato... Io pertanto non darò mai la mia approvazione a un film che non risponda ai precisi requisiti che ho cercato di esporre».
E, a questo punto, per non andare incontro a noie legali ma anche e forse soprattutto per riguardo verso il suo prestigioso autore, Rizzoli chiede appunto la consulenza di padre Morlion. In effetti, il frutto del lavoro del domenicano (redatto «con l’ausilio di alcuni diretti collaboratori dell’Istituto Internazionale Cinematografico della Pro Deo») rispecchia in pieno le richieste. Le sue «Note per una eventuale elaborazione di un soggetto cinematografico tratto dal volume 'Don Camillo' di G. Guareschi» non sono affatto ciò che magari si potrebbe temere da un sa­cerdote in epoca di «guerra fredda», cioè un tentativo pseudo-apologetico di fare propaganda filo-atlantica, bensì rivelano – insieme a un orientamento «morale» e cattolico («Il film, benché popolare, deve offrire qualcosa più di un divertimento») – una posizione piuttosto equidistante tra i due blocchi.
Certo, il consulente domenicano raccomanda di scegliere un regista «fornito di uno speciale dinamismo cristiano» oltre che di «senso della sa­tira affettuosa e benevola» (e suggerisce perciò Alessandro Blasetti), tuttavia non pare che colga nel vero Roberto Chiesi – ricercatore dell’Archivio Pier Paolo Pasolini di Bologna e curatore di un contributo nel catalogo della recente mostra guareschiana – quando scrive che la nota di Morlion rappresenta «una delle prime e delle più sofisticate azioni diplomatiche, da parte ecclesiastica, per condizionare le scelte narrative relative al primo film della serie e imprimere una direzione privilegiata alla storia».
Anzitutto, infatti, non fu Morlion a intromettersi, ma Rizzoli a coinvolgerlo. E poi il suo intervento non sembra affatto improntato al più bieco anticomunismo. Per il consulente la «tesi più profon­da» di Guareschi è invece quella che «i violenti impulsi di ribellione dell’uomo semplice che abbraccia le idee di sinistra, nascondono il più delle volte una reale, sincera ansia di giustizia... L’uomo di sinistra cessa di essere tale per divenire semplicemente 'uomo', uomo di 'buona volontà'». Una tesi «di significato pienamente cristiano», certo; ma non per questo denigratoria nei confronti dell’avversario ideologico: al contrario. Di qui discende la caratterizzazione dei protagonisti, Don Camillo e Beppe (così il domenicano chiama – chissà perché – Peppone), ai quali curiosamente padre Morlion accosta due personaggi di sua invenzione e che costituiscono la parte negativa delle rispettive ideologie: il politicante di sinistra Andrea e la beghina Petronilla.
L’impostazione generale del religioso è chiara e ambiziosa insieme: battere «i consueti films americani» affrontando con coraggio «un grave problema da Hollywood sempre evitato o falsificato: l’urto dei motivi popolari di destra e di sinistra» e calcare il solco dei «passati successi del Cinema Italiano del dopoguerra», i quali «hanno determinato una giustificata aspettativa che occorre non lasciare insoddisfatta» (Morlion era un fanatico del neorealismo). A tale scopo il domenicano imposta anche le «linee generali del trattamento» per la futura pellicola, dalla panoramica iniziale su Brescello alla scena del comizio per l’inaugurazione della Casa del Popolo, seguita dalla famosa partita di calcio tra «rossi» e «bianchi», dalla punizione di don Camillo da parte del vescovo fino alla celebre sequenza dello sciopero agrario con la mungitura clandestina escogitata dai due protagonisti per evitare la morte delle vacche. In sostanza si tratta degli episodi che poi finiranno effettivamente nel film del 1952; non viene invece accolta la proposta di inserire i due personaggi in più, che avrebbero dovuto rappresentare l’opposizione ideologica alle azioni dei protagonisti.
Per la conclusione, però, mentre Duvivier sceglierà la scena dell’esilio – che pare fatta apposta per preparare un sequel, come di fatto poi avverrà – padre Morlion aveva pre­ferito un lieto fine: quello del ma­trimonio contrastato tra il figlio di comunisti Mariolino e la figlia di possidenti Gina. Allo scopo, il do­menicano aveva persino trovato la giustificazione morale adatta a superare il mancato consenso dei genitori: l’epikeja, ovvero quel principio di buon senso che permette di interpretare e persino superare in certi casi la norma canonica... E in questo caso il consulente aveva fatto davvero il suo mestiere.
di Roberto Beretta
Avvenire 25 Marzo 2009

La legge 40 non è certo una legge cattolica

Un commento sull'editoriale di Ognibene su Avvenire

Persone di buona volontà oggi sono tratte in inganno da trionfalistici commenti sugli esiti della legge 40…

Pienamente d’accordo con il giornalista Ognibene quando –Avvenire di domenica 29/3,- stigmatizza l’andazzo del sistema mediatico, accreditato presso la cultura egemone, di tacere quando la realtà dei fatti viene a contraddire teorie prefabbricate a tavolino.
Credo che ormai tutti abbiamo raggiunto la consapevolezza che la grancassa dell’informazione nel nostro Paese suona quando lo decidono i maitre a penser, e mette la sordina o tace del tutto quando dovrebbe occuparsi di fatti che non tornano, di argomenti fastidiosi perché non ideologicamente allineati.
E’ ovvio pertanto che la maggior parte dei quotidiani sia stata piuttosto reticente sulla presentazione dell’annuale relazione sulla legge 40, che regolamenta la procreazione artificiale, avvenuta venerdì 27/3 ad opera del sottosegretario Roccella. Ovvio, perché la relazione ha smentito quei paladini della deregulation procreativa che fin dai tempi della discussione alle Camere si erano stracciate le vesti di fronte a quei pochi veti posti dalla maggioranza, preconizzando il sicuro sorgere di un turismo procreatico possibile solo ai ricchi.
Il quale, invece, non si è verificato. Pare che la legge 40 funzioni bene, nel senso che –dice la relazione- ha fatto aumentare il numero di cicli di fecondazione in vitro effettuati e il numero dei bambini nati.
Pienamente d’accordo con Ognibene perciò su questo punto, mentre tocca poi rilevare che lui stesso finisce con l’inciampare nella mala abitudine contestata ad altri giornalisti. Vede insomma la pagliuzza della censura nell’occhio del collega e non si accorge della trave della mistificazione nel proprio.
Perché proprio di mistificazione si tratta quando si tesse l’elogio dei risultati della legge 40 -con l’unica liberatoria- ripetuta ormai come un refrain dagli estimatori della suddetta - che “non è certo una legge cattolica”, omettendo di fornire dati e cifre che farebbero chiarezza sulla pratica della fecondazione in vitro (fivet) che la stessa L. 40 consente e regolamenta.
Pratica che per l’anno 2007 -e sono i dati forniti dalla relazione del sottosegretario- è stata messa in atto su 55.000 coppie per un totale di 75.000 tentativi e che ha visto l’inizio di 11.685 gravidanze con la nascita di ben (sic!) 9137 bambini.
Ciò significa che delle 55.000 coppie che hanno fatto ricorso alla fivet ben 45863 sono tornate a casa senza il bambino desiderato, nonostante la reiterazione per molte di esse dei tentativi (75.000 per 55.000 coppie).
Significa inoltre che, se 75.000 tentativi hanno ottenuto la nascita di 9137 bambini, gli embrioni appositamente prodotti e avviati a morte sono stati più di 190.000 se per ogni ciclo se ne sono usati 3, come consentito dalla legge, e circa 140.000 se ne sono stati prodotti e impiantati solo due, ipotesi che può valere per una parte minoritaria dei tentativi, nel caso, meno frequente, in cui la donna non sia vicina ai 40 anni d’età.
Cifre mostruose in ogni caso, su cui si dovrebbe ragionare e riflettere, che dovrebbero essere fornite –una sorta di consenso informato- a coloro che abbiano intenzione di accedere alle pratiche della procreazione artificiale, e a tutte le persone di buona volontà che oggi sono invece tratte in inganno da trionfalistici commenti sugli esiti della legge 40, anche alla luce anche di quanto è stato ribadito dalla recente Istruzione Dignitas Personae ai nn. 14, 15, 16: “… il numero degli embrioni sacrificati è altissimo” “Tutte le tecniche di fecondazione in vitro si svolgono di fatto come se l’embrione umano fosse un semplice ammasso di cellule che vengono usate, selezionate e scartate” ”Spesso si obietta che tali perdite di embrioni sarebbero il più delle volte preterintenzionali o avverrebbero addirittura contro la volontà dei genitori e dei medici. (….) E’ vero che non tutte le perdite di embrioni nell’ambito della procreazione in vitro non hanno lo stesso rapporto con la volontà dei soggetti interessati. Ma è anche vero che in molti casi l’abbandono, la distruzione o le perdite di embrioni sono previsti e voluti”.
Marisa Orecchia
Vice presidente Comitato Verità e Vita
Comitato Verità e Vita 2 Aprile 2009

martedì 7 aprile 2009

FORMICOLA - - 06.04.09 tarda sera - COMUNISMO IS BACK

Forse si sono sbagliati.

Le scene di devastazione e guerriglia urbana, a Londra e Strasburgo (ma non a Praga!), sulle quali campeggia la bandiera rossa con la falce e martello; i sequestri di manager e «padroni», che tendono a «travestirsi» e comunque a non farsi notare troppo.

Scene di una rinascente lotta di classe? Esordio di una nuova stagione di tensioni rivoluzionarie?

È certo presto per dirlo, e perciò «forse» si sono sbagliati.

Ma è altrettanto certo che comunisti e comunismo non sono stati incalzati come sarebbe stato necessario e giusto. Troppo presto si è dato tutto per finito, e nessuno ha davvero voluto che venissero depositati i bilanci del fallimento. Si è fatto come se niente fosse accaduto. Al massimo un sorrisetto di compatimento – non senza una qualche simpatia per la generosa ingenuità – nei confronti di chi si attardava a dirsi comunista, e a perseguire il sogno della società dei liberi ed uguali – senza Dio, senza patria, senza famiglia e senza proprietà –, che avrebbe generato l’«uomo nuovo». Un sogno che già si era rivelato un incubo, com’è proprio di ogni utopia. Ma era bello e soprattutto «magnanimo» crederci. Il pregiudizio positivo è rimasto. Nessuno ha fatto una campagna anticomunista – paragonabile per intensità, capillarità, continuità e durata all’antifascismo ideologico, culturalmente egemone e di Stato – che mettesse in evidenza il carattere criminale dell’ideologia e dell’esperimento comunista; che rendesse parte del senso comune che decine di milioni di vite, probabilmente ben oltre i cento milioni, sono state sacrificate sull’altare di questo «sogno bello e generoso»; che evidenziasse come nessuno, ma proprio nessuno, dei problemi sociali di cui si annunciava la soluzione perfetta e definitiva è stato risolto. Anzi, quanto a quest’ultimo aspetto, il collettivismo, lo statalismo, il contrasto alla ricchezza, alla proprietà privata e al mercato – in ogni sua modalità, da quella hard sovietica, a quella soft socialdemocratica e dirigista – nonché ridurre la povertà l’hanno aggravata e generalizzata, portandola all’estremo della carestia e togliendole anche la speranza.

Un progetto criminale e fallimentare, dunque, mortifero, affamatore e tirannico. sempre e dovunque sia stato sperimentato. Eppure, questo non è bastato per rendere impresentabile in società il nome stesso del comunismo. Eppure, nonostante l’entità del disastro, tutto sembra essere stato dimenticato, come hanno lamentato recentemente i vescovi dell’Europa centro-orientale. Forse perché, come gli stessi presuli hanno denunciato, il comunismo ha avvelenato il suolo della cultura e della civiltà, ed allora non se ne può parlare e film come Katyn non devono circolare.

Per molti, il comunismo torna a essere una soluzione. Per altri, con i comunisti si può trattare, si possono concludere alleanze, perché «il comunismo è finito» (curioso modo di ragionare: provino ad applicarlo al nazionalsocialismo, che del resto è del comunismo fratello gemello eterozigote). Per tutti, comunque, il pericolo, se pure è stato tale, è scampato, e «l’anticomunismo è un disco rotto» (Fini e Follini).

Forse si sono sbagliati. Forse si sbagliano.

domenica 5 aprile 2009

I templari e la sindone

I documenti dimostrano che il telo fu custodito e venerato dai cavalieri dell'ordine nel XIII secolo

I templari e la sindone di Cristo è il titolo di un nuovo libro che Il Mulino pubblicherà prima dell'estate. L'autrice, addetto dell'Archivio Segreto Vaticano che ha studiato il processo contro il famoso ordine militare del medioevo, ha già pubblicato sul tema altri volumi - L'ultima battaglia dei Templari. Dal codice ombra d'obbedienza militare alla costruzione del processo per eresia (Roma, Libreria Editrice Viella, 2001, pagine 337, euro 24, 79); Il Papato e il processo ai Templari. L'inedita assoluzione di Chinon alla luce della diplomatica pontificia (Roma, Libreria Editrice Viella, 2003, pagine 239, euro 20); I Templari (Bologna, Il Mulino, 2004, pagine 193, euro 12; nuova edizione, 2007); Notizie storiche sul processo ai Templari (in Processus contra Templarios, Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 2007, pp. 103-249) - e anticipa in questo articolo i contenuti del suo ultimo studio.

di Barbara Frale

Nell'anno 1287 un giovane di buona famiglia del meridione francese, chiamato Arnaut Sabbatier, chiese e ottenne di entrare nell'ordine religioso e militare dei templari: qualcosa che nella società del tempo costituiva un gran privilegio sotto molti punti di vista. Nato a Gerusalemme poco dopo la prima crociata, con la missione di difendere i cristiani di Terrasanta, quello del Tempio diventò ben presto l'ordine più potente e illustre del medioevo cristiano.
Durante la sua cerimonia d'ingresso, dopo aver preso i tre voti monastici di povertà, obbedienza e castità, il precettore condusse il giovane Arnaut in un luogo chiuso, accessibile ai soli frati del Tempio: qui gli mostrò un lungo telo di lino che portava impressa la figura di un uomo e gli impose di adorarlo baciandogli per tre volte i piedi.
Questa testimonianza proviene dai documenti del processo ai templari ed è quasi sconosciuta agli storici poiché rappresenta una goccia nel mare per chi debba studiare le intricatissime vicende di quel grande complotto innescato nel 1307 dal re di Francia Filippo IV il Bello ai danni del Tempio, divenuto ormai quasi uno Stato autonomo all'interno del suo regno. Tuttavia quel documento possiede un valore di primo piano per chi sia interessato a indagare le dinamiche di un'altra storia: quella che segue il trasferimento della sindone di Torino dalla corte degli imperatori bizantini - dove era rimasta fino all'anno 1204 - verso l'Europa, dove ricompare a metà del XIV secolo, nelle mani di una nobile famiglia francese.
Nel 1978 uno storico laureatosi a Oxford, Ian Wilson, aveva ricostruito le peripezie storiche della sindone mettendo in evidenza come il telo, considerato la più importante reliquia della passione di Cristo, fosse stato rubato dalla cappella degli imperatori bizantini durante il tremendo saccheggio consumato durante la quarta crociata nel 1204.
Wilson metteva a confronto tante testimonianze rilasciate dai frati del Tempio durante il processo e faceva notare che fra le accuse avanzate contro di loro dal re di Francia c'era quella di adorare segretamente un misterioso "idolo", un ritratto che raffigurava un uomo con la barba.
Grazie a una serie di indizi, l'autore suggeriva come il misterioso "idolo" venerato dai templari altro non fosse che la sindone di Torino, chiusa in una teca speciale fatta apposta per lasciar vedere solo l'immagine del volto, e venerata in assoluto segreto in quanto la sua stessa esistenza all'interno dell'ordine era un fatto molto compromettente: l'oggetto era stato rubato durante un orribile saccheggio, sugli autori del quale Papa Innocenzo iii aveva lanciato la scomunica, e anche per il traffico delle reliquie era stata sancita la stessa pena dal concilio Lateranense IV nel 1215.
Che l'avessero presa direttamente oppure comprata da qualcun altro, dichiarando al mondo di possedere la sindone i templari rischiavano in ogni caso la scomunica. Secondo Wilson, gli "anni oscuri" durante i quali le fonti storiche non parlano della sindone corrispondono in realtà al periodo in cui la reliquia fu custodita in assoluto segreto dai templari. A suo tempo la tesi suscitò molti entusiasmi poiché permetteva di dare risposte coerenti a tanti punti non chiariti che ancora permanevano sulla storia della sindone e sul processo contro i templari, ma la comunità scientifica rimase insoddisfatta in quanto le prove documentarie addotte dallo studioso apparivano tutto sommato scarse.
A distanza di trent'anni ho provato ad aggiungere alla tesi di Wilson molti tasselli mancanti. In questo nuovo libro ho analizzato fonti inedite riguardanti i templari e la storia antica della sindone giungendo a una conclusione: nel corso del Duecento, quando la società cristiana è turbata dalla proliferazione delle eresie che negano la reale umanità di Cristo, l'ordine del Tempio, a causa delle sue molte immunità, rischia di diventare una specie di porto franco per gli eretici di lignaggio cavalleresco che cercano d'intrufolarvisi per mettersi al riparo dalle autorità inquisitoriali.
Se questo fosse successo davvero, il Tempio si sarebbe trovato destrutturato nella sua identità religiosa. I capi dell'ordine frequentavano la corte bizantina per la quale avevano svolto varie mediazioni diplomatiche, conoscevano l'enorme sacrario imperiale di Costantinopoli dove per secoli gli imperatori avevano raccolto con cura minuziosa le più famose e antiche reliquie di Cristo, della Vergine e dei santi. Sapevano anche che i teologi bizantini avevano enfatizzato il potere delle reliquie di Cristo per contrastare la predicazione degli eretici, soprattutto delle sette di stampo docetista e gnostico secondo le quali Cristo era un essere di solo spirito e non aveva mai avuto un vero corpo umano, ma solo l'apparenza di un uomo.
Insomma, i templari si procurarono la sindone per scongiurare il rischio che il loro ordine subisse la stessa contaminazione ereticale che stava affliggendo gran parte della società cristiana al loro tempo: era il miglior antidoto contro tutte le eresie. I catari e gli altri eretici affermavano che Cristo non aveva vero corpo umano né vero sangue, che non aveva mai sofferto la Passione, non era mai morto, non era risorto; per questo non celebravano l'Eucarestia, considerata a loro giudizio un rito privo di senso non avendo Cristo mai avuto una vera carne.
Una volta aperta completamente, la sindone portava l'immagine impressionante di quel corpo massacrato proprio come era avvenuto a Gesù secondo i vangeli: si vedeva tutto, la carne dei muscoli tesi nella rigidità che accompagna le prime ore dopo la morte, il volto gonfio sotto l'effetto delle percosse, la pelle strappata dagli aculei del flagello. E c'era tanto sangue, sangue dappertutto, quello che secondo l'evangelista Matteo era stato "versato per molti in remissione dei peccati" (Matteo, 26, 28). L'umanità di Cristo sopraffatta dalla violenza degli uomini, quell'umanità che i catari dicevano immaginaria, si poteva invece vedere, toccare, baciare.
Questo è qualcosa che per l'uomo del medioevo non aveva prezzo; qualcosa ben più potente dei sermoni dei predicatori e anche della repressione degli inquisitori. I Pontefici più accorti lo avevano capito, e così si comprendono iniziative come quella di Innocenzo iii che promosse il culto della Veronica o quella di Urbano iv che solennizzò il miracolo di Bolsena istituendo la festa del Corpus Domini.
I templari diedero allora vita a liturgie speciali di venerazione della sindone come l'uso di consacrare le cordicelle del loro abito mettendole a contatto con l'inestimabile reliquia, affinché il potere sacro di quell'oggetto li proteggesse sempre dai nemici del corpo e dello spirito; oppure la liturgia descritta dal templare Arnaut Sabbatier ricordata in apertura. E anche Carlo Borromeo, quando nel 1578 si recò pellegrino alla sindone viaggiando a piedi da Milano a Torino, la venerò praticando il bacio sulle ferite dei piedi proprio come usavano fare i dignitari del Tempio.
Questo libro - una ricostruzione di taglio storico-archeologico che non entra in questioni teologiche - rappresenta in realtà la prima parte di uno studio dedicato alla sindone che si completerà con un secondo volume in preparazione di stampa (La sindone di Gesù Nazareno, sempre per Il Mulino). Attraverso una lunga ricerca documentaria provo a rispondere a molti quesiti della storia ma anche a proporre ipotesi di studio che potrebbero aprire nuovi sentieri di ricerca: come quella che riguarda le enigmatiche tracce di scrittura in greco, latino ed ebraico identificate da alcuni esperti francesi sul lino della sindone, parole tracciate in origine su un documento che entrò in contatto con il telo e vi lasciò una specie di impronta.



(©L'Osservatore Romano - 5 aprile 2009)

giovedì 2 aprile 2009

Tradotto in italiano «Benedetto, Crisostomo, Teodoreto. Profili storici» di John Henry Newman

Ritrovare la propria biografia in quella dei Padri


di Stefano Maria Malaspina

La vicenda personale e spirituale di John Henry Newman, alla cui figura è dedicato il convegno internazionale svoltosi il 26 e 27 marzo presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore, è maturata dalla continua e appassionata frequentazione dei Padri, che nella sua conversione al cattolicesimo svolsero un ruolo decisivo. Non è infatti priva di significato questa annotazione di Henri Brémond: Newman trascorse "la sua vita nell'intimità dei Padri"; ed è questi, in una nota lettera scritta a Edward Bouwerie Pusey - suo caro e sincero amico - a definire con chiara sintesi il proprio percorso: "I Padri mi fecero cattolico".
È una lezione di gusto e di metodo teologico: in un passo della stessa lettera dichiara di preferire, "alla teologia sottile e controversistica", quella più "elegante e fruttuosa che si è formata secondo il modello dell'erudita antichità". E prosegue, con un'immagine tratta dall'esperienza concreta: "Io non intendo buttare a terra quella scala con la quale sono salito per entrare nella Chiesa. È una scala sempre utile a tale scopo".
La conoscenza della Chiesa dei tempi antichi non rimane poi sterile, ma si esprime in particolare nei profili storici, cui fa riferimento in un'altra missiva, indirizzata a John William Bowden; ne La Chiesa dei Padri, opera che aveva appena conclusa, scrive: "È il libro più bello che io abbia scritto. Non c'è da sorprendersi, dal momento che si compone tutto di parole e di opere dei Padri". In essi pare quasi rivedere il riflesso della propria immagine e delle proprie vicissitudini: vi "si possono intravedere come in filigrana alcuni tratti della sua stessa biografia: raccontando, ad esempio, il vescovo di Costantinopoli ed esaltandone la "nobiltà", Newman rivela non poco se stesso" (Biffi).
Tutto questo traspare inoltre dalla conoscenza di alcuni fra i luoghi dove i Padri sono vissuti; non è un caso che Newman si sentirà attratto da Milano quasi più che da Roma, la città cui le vicende di due grandi Padri della tradizione occidentale, Agostino e Ambrogio, furono intimamente legate. La città lombarda presenta infatti maggiori richiami con la storia che gli è familiare. Essa è la città dell'episcopato e del magistero del "maestoso Ambrogio", della conversione e del battesimo di Agostino; e in essa soggiornarono, fra gli altri, santa Monica e sant'Atanasio.
Proprio alla Milano visitata e conosciuta da Newman e dall'inseparabile amico Ambrose St. John, Inos Biffi dedica parte dell'introduzione al secondo volume degli Historical sketches, recentemente tradotto in italiano con il titolo Benedetto, Crisostomo, Teodoreto. Profili storici (Milano, Jaca Book, 2009, pagine 248, euro 28). Di questi ritratti, quello dedicato a gli ultimi anni di san Crisostomo era definito da Brémond come un "piccolo manifesto".
Esso offre un metodo per lo studio della personalità e della dottrina dei Padri: un metodo che porta all'incontro con loro, che tende al contatto con la "vita quotidiana", con i "pensieri più intimi", con la "vita reale, nascosta ma umana, altrimenti detta interiore, di queste preziose creazioni di Dio". La via scelta non è quella della semplice biografia, bensì quella dell'ascolto delle stesse parole dei santi: una fonte che parli "dell'abbondanza del cuore".
Newman si riferisce in particolare all'epistolario, il genere che "più di ogni altro si avvicina alla conversazione", e quindi più capace di mettere in evidenza la fisionomia e le relazioni, le attenzioni e anche i limiti delle figure che accosta e di volta in volta presenta: "Le loro lettere lo attirano più che non le loro grandi opere, e anche nelle loro opere puramente dottrinali egli mira a trovare l'anima dell'autore, il suono della sua voce" (Brémond).
I profili di Newman sono il frutto di una frequentazione concreta dei Padri: il suo genio è lontano da un gusto disincarnato, e mira a instaurare con essi un legame di amicizia, di comunione. Allora i protagonisti prendono corpo: ecco Crisostomo, paragonato a una "giornata di primavera, luminosa e piovosa", è "sempre ottimista, di rado triste"; ecco Teodoreto, che "ebbe la sfortuna di trascorrere la vita sotto la feroce violenza" di tremende tempeste dottrinali; e infine Benedetto, che seppe dare alla propria missione la "semplicità romantica della gioventù". E le vicissitudini dei Padri diventano, in certa misura, le vicende di Newman (Biffi).
Pur trattandosi di composizioni dal carattere eminentemente storico, in queste figure Newman ha saputo cercare, trovare e restituire anzitutto l'uomo, mai distante dal proprio tempo e dalla propria terra. E tutto questo conduce a un attento approfondimento della verità cristiana, che ha segnato l'intera vita e l'attività scientifica di Newman, volta all'accoglienza lucida e appassionata del mistero rivelato.



(©L'Osservatore Romano - 2 aprile 2009)