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venerdì 12 ottobre 2012

Sulla prossima generazione (parte 1 di - credo - 2)

A molti sembra che la nostra società, o a dire il vero quel che rimane della civiltà occidentale, stia cadendo a pezzi. La crisi economica, la crisi morale, e la crisi politica si combinano per creare una “tempesta perfetta”.
Credo che tutte abbiamo la medesima origine: abbandonando il senso di ordine cosmico e morale di una civiltà, e preferendo una "moderna" (ancora! ma questo ismo inventato a Parigi non ha 150 anni e più?) crescita senza limiti e un progresso verso un universo interamente artificiale.
Un simile processo sta all’origine di un’altra crisi: la quinta, quella dell’educazione. L’educazione è in crisi non soltanto perché gli standard di alfabetizzazione o di matematica si sono abbassati, ma perché non abbiamo una visione coerente, come società, dello scopo dell’educazione o di ciò che essa intenda perseguire. Posssiamo dire che sia supposto che la scuola e l'universita non fossero che che una gabbia per tenere i nostri giovani lontani dalle strade, con l'obbiettivo di addestrare gli operai alla grande macchina economica, la stessa macchina che speriamo produrrà ricchezza senza fine. 


Ma non possiamo sapere a cosa serva l’educazione, poiché non abbiamo più idea del perché esista l’uomo, o che cosa sia veramente un essere umano. 

Abbiamo bisogno di una filosofia dell’educazione basata su un’adeguata “antropologia” o immagine dell’uomo, se dobbiamo rimettere l’educazione sul giusto binario. La tradizione cattolica – e più ampiamente la grande tradizione della civiltà occidentale – ha definito l’apprendimento umano nei termini di quello che divenne noto come “Arti Liberali”. Come descritto da S. Agostino e altri, queste consistevano in sette discipline, raggruppate in tre arti di linguaggio e quattro arti cosmologiche.
Il primo gruppo del Trivio consisteva nella Grammatica, nella Dialettica e nella Retorica; il secondo, il Quadrivio, era formato da Aritmetica, Geometria, Musica e Astronomia.
Entrambi i gruppi erano considerati propedeutici agli studi superiori di Filosofia e Teologia – cioè l’amore della Saggezza (philo-sophia) e la conoscenza di Dio (theo-logos). Le Arti Liberali erano il nocciolo del curriculum alla cuore del sistema educativo classico e medievale.
 

Naturalmente c’è un’ovvia obiezione a qualunque tentativo di far risorgere questa tradizione al giorno d’oggi. Dal Medioevo la scienza ha fatto progressi. Il mondo è cambiato.
Q
ueste sette particolari discipline ci devono interessare ancora.
Come possiamo inserirvi altre materie importanti come Biologia, Storia, Geografia, Sociologia, Informatica e il resto, in una cornice così stretta? Perché dovremmo anche solo provarci? Di certo è vero che tante cose sono cambiate. Sicuramente è cambiata in modo radicale la nostra visione del mondo e di noi stessi. Ciononostante, il vero mondo e la nostra vera natura rimangono quelli che erano un tempo, e le antiche categorie sono ancora importanti.

Nel caso del Trivio, anche a un livello superficiale è chiaro che la conoscenza di come funzionano le lingue, come pensare in modo chiaro e come persuadere gli altri, sono tutti talenti oggi rilevanti come lo sono sempre stati.
Aggiungere Latino e Grammatica inglese e un po’ di formazione nei principi della logica e dell’eloquenza, senza dimenticare alcuni Grandi Libri, al curriculum delle nostre scuole moderne sarebbe una grande idea. Ma il Trivio ha fondamenta molto più profonde, come pure le Arti Liberali in genere.

Nella Caritas in Veritate Papa Benedetto scrive della "grammatica" della creazione "che indica finalità e criteri per un utilizzo sapiente, non strumentale e arbitrario" (48). Nel suo messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2007 scrive di una "grammatica" trascendente iscritta nelle coscienze umane o nei cuori umani, nei quali si rispecchia il progetto sapiente di Dio”. E scrivendo prima della sua elezione a Papa guardò a Platone per aiutarlo a comprendere questo fenomeno della coscienza come “simile ad una originaria memoria del bene e del vero (le due realtà coincidono)” e quindi come una “anamnesi [reminiscenza] del Creatore” (si veda il suo libro Sulla Coscienza, davvero fantastico).
La grammatica non è solo l’insieme di regole del linguaggio, ma il primo dono dell’umanità, il legame con la nostra Origine attraverso la memoria, il linguaggio e la tradizione. Con la grammatica affrontiamo le radici più profonde della nostra esistenza. Adamo, nel dare i nomi agli animali, divenne il primo grammatico.

mercoledì 19 novembre 2008

Un commento del rettore Ornaghi

Declino umanistico, declino dell'uomo


Il rettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore ha sintetizzato per "L'Osservatore Romano" i temi del suo discorso inaugurale tenuto in occasione dell'apertura dell'anno accademico.

di Lorenzo Ornaghi

È opportuno chiedersi se ciò che sta accadendo da qualche mese in Italia sia un caso solo italiano, quasi si trattasse della scoperta, giunta all'improvviso e sorprendentemente, dell'ennesima e perversa anomalia del Paese. O se invece colpi e sommovimenti, da cui è scosso il nostro sistema universitario, non possano costituire i segnali che preannunciano una più profonda e generale crisi della realtà e dell'immagine di università anche in altri Paesi europei.
Che anche in gran parte dell'Europa si possano più intensamente avvertire, tra breve, i segni di una generale e profonda crisi della realtà e dell'immagine di università, non è - a mio giudizio - da escludere. Soprattutto laddove i sistemi universitari sono storicamente divenuti parte costitutiva del cosiddetto "Stato dei servizi", l'ordinario funzionamento e le necessarie linee di sviluppo di tutti gli atenei non potranno non gravare sulla crescente insostenibilità delle forme esclusivamente stato-centriche di welfare, ossia di un welfare interamente mantenuto per il presente, e più o meno fondatamente garantito per il futuro, dallo Stato. Insostenibilità economica, innanzi tutto, poiché causata dagli ostacoli che già oggi si frappongono, e sempre più si frapporranno domani, a incrementi di risorse sino ai livelli ritenuti indispensabili o ragionevolmente desiderati dalle numerose istituzioni, e dalle molteplici parti, della comunità nazionale. Insostenibilità, o quasi impossibile sostenibilità politico-sociale, in secondo luogo: ogni significativa ripartizione delle più limitate risorse a disposizione andrà infatti effettuata tra grandi ambiti di servizi che, proprio perché nevralgici rispetto ai bisogni della generalità dei cittadini - si pensi solo, per una sin troppo facile esemplificazione, ai bisogni legati alla salute o all'ordine pubblico - ben difficilmente patirebbero di essere in dura concorrenza fra di loro. Insostenibilità, infine, che solo con poche esitazioni qui qualificherei come "istituzionale", proprio pensando allo strettissimo nesso che ha visto procedere insieme, nella storia dal Basso Medioevo sino a oggi, l'università come istituzione e il complesso di istituzioni - a partire, appunto, dallo Stato - con cui si è stabilmente - e con successo, almeno fino ai nostri giorni - organizzata la vita sociale, economica, politica, dentro e tra le comunità nazionali.
A chi è convinto dell'accelerato e fatale declino dello Stato e del sistema degli Stati, quali - nel loro ordine storicamente specifico e nella loro capacità ordinante - creatura e prodotto della cultura dell'Europa moderna, anche la sorte dell'università appare inesorabilmente segnata. Ma è davvero così? O non piuttosto l'università, che ha contribuito a far nascere, prosperare, succedere le une alle altre pressoché tutte le forme di stabile organizzazione economica, sociale e politica, in cui ancora viviamo, nuovamente si trova di fronte alla funzione e alla responsabilità di diradare le nebbie che avvolgono i grandi cambiamenti in corso, di elaborare idee e progetti con cui orientare tali trasformazioni, di creare autenticamente, mediante la ricerca e la formazione dei giovani, "cultura"?
Sì, cultura. È la funzione culturale dell'università ciò di cui oggi abbiamo soprattutto necessità. Ma tale funzione comincia a indebolirsi, e l'essenza stessa dell'università si smarrisce o si snatura, quando la prospettiva dello studium generale diventa poco più che una parola del passato; talvolta anche per chi negli atenei e per gli atenei vive e lavora. Non sono gli eventi collocati alla superficie dei cambiamenti in corso ad allontanarci sempre più dall'essenza dell'università; né il comprensibile svolgimento e l'accentuata divaricazione delle specializzazioni disciplinari; né, infine, il diverso grado con cui le ricerche in alcuni campi sono oggi socialmente più utili di altre, o tali vengono considerate dalle convinzioni e convenzioni più diffuse: le ricerche su come renderci più belli o esteticamente meno sgradevoli sono certamente più interessanti, e attraenti da finanziare, rispetto a qualsiasi seria indagine che abbia per oggetto il più o meno recente passato. Siamo noi, nelle nostre università, a non praticare più lo studium generale, a non credere nella sua capacità di saper produrre ciò che per il presente e il domani è davvero nuovo e utile.
L'infiacchirsi dell'idea di studium generale consegue - o, più probabilmente, vi si lega in stretta interdipendenza - al declinare dell'idea di humanitas, quale architrave di ogni forma di sapere, di una "visione umanistica" quale componente indispensabile affinché ogni passo in avanti della conoscenza scientifica sia autenticamente un suo progresso.
Riflettere sull'essenza dell'università, sulle sue funzioni ancora indispensabili, sul nesso fra didattica e ricerca, significa volere e saper pensare - anche nei frangenti di questi mesi - al domani incombente di questa nostra istituzione. Ed è proprio il domani dell'università, quello immediato e quello meno vicino, che soprattutto ci deve stare a cuore.
Pur in mezzo a tante fatiche, al domani della nostra università ci siamo preparati e ci stiamo preparando nel solco rispettoso di tutta la nostra quasi secolare tradizione. Fortissima sentiamo infatti la responsabilità di corrispondere alla nostra identità, alle ragioni e alla fede grazie alle quali l'ateneo dei cattolici italiani è nato e cresciuto, a quella missione di libertà da cui - a partire dalla libertà stessa di scegliere i giovani da avviare alla ricerca scientifica e all'insegnamento - interamente dipende la fecondità del nostro servizio alla Chiesa e alla società italiana, dipende la nostra possibilità di educare quella "nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile" richiesta dal Santo Padre Benedetto XVI nell'omelia pronunciata in occasione della recente visita pastorale in Sardegna. L'educazione e la preparazione di questi laici cristiani è, per un'università come la nostra, un dovere indeclinabile.
Lungo questo solco procederemo. E, a suggello di questa determinazione, vorrei apporre l'annotazione di un grande autore che già in altre occasioni mi è parso importante richiamare. È una frase di John Henry Newman, tratta da una pagina del secondo capitolo del suo Origine e sviluppo delle Università (1856). Ricorderemo e celebreremo il cardinale Newman alla fine del prossimo marzo, con un convegno internazionale e una santa messa nella cappella maggiore, che, interamente e sapientemente restaurata anche nelle bellissime decorazioni scultoree di Giacomo Manzù da cui è adornata, si offre ora a tutti nel suo originario splendore.
Tra le moltissime possibili ho trascelto questa annotazione, poiché essa mi sembra quella che meglio illumina il cammino che abbiamo davanti e maggiormente incoraggia tutti noi che apparteniamo all'Università Cattolica del Sacro Cuore. Nell'enunciazione del cardinale Newman, se bene la meditiamo, vi sono infatti compresi l'"idea" di università e tutto il senso del nostro quotidiano operare in questa università. Eccola: "Per natura grandezza e unità vanno insieme; l'eccellenza implica un centro. E tale (...) è l'università (...) È un luogo che conquista l'ammirazione del giovane con la sua fama, suscita l'affetto degli adulti con la sua bellezza, e fissa la fedeltà dei vecchi con le sue associazioni. È una sede della sapienza, una luce del mondo, un ministero della fede, un'Alma Mater della generazione nascente. È questo e molto di più".



(©L'Osservatore Romano - 20 novembre 2008)

Università Cattolica del Sacro cuore - Giulio Tremonti inaugura l'anno accademico

La prolusione del ministro italiano Giulio Tremonti
ha inaugurato l'anno accademico dell'Università Cattolica del Sacro Cuore

I mostri che divorano l'economia


di Alberto Manzoni

Il punto di domanda presente nel titolo - "Economia sociale di mercato?" - già prometteva una prolusione contenente non solo delle certezze o almeno dei tentativi di risposta, da parte del ministro italiano dell'Economia e delle Finanze, ma anche dei sinceri dubbi su una situazione di crisi mondiale sotto gli occhi di tutti. E se da un lato Giulio Tremonti ha fornito elementi per una interpretazione degli eventi, dall'altro proprio in conclusione ha affermato di non sapere se sia vero che la fine del comunismo porterà anche la fine del capitalismo. Una cosa, però, è certa: non si possono scindere etica ed economia, come aveva sostenuto la rivista tedesca "Ordo" negli anni Quaranta del secolo scorso. E in questo senso ha il sapore della "profezia" uno scritto del cardinale Joseph Ratzinger (Church and economy, articolo pubblicato nel 1986 nella rivista "Communio"), il quale riteneva si stesse avverando "la previsione secondo la quale in economia il declino della disciplina economica e l'allentamento delle leggi e delle regole avrebbero portato le leggi stesse del mercato al collasso e all'implosione su se stessa".
L'intervento di Tremonti ha concluso la cerimonia ufficiale dell'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, avvenuta questa mattina presso la sede di largo Gemelli 1 a Milano. La mattinata è iniziata con la concelebrazione eucaristica presieduta nella basilica di Sant'Ambrogio dal cardinale arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, che ha tenuto l'omelia sul tema "Cercate bene... se volete vivere", ispirato a una frase del profeta Amos (5, 16). Lo stesso porporato, in qualità di presidente dell'Istituto Giuseppe Toniolo di Studi superiori - ente fondatore e garante della Cattolica - ha poi pronunciato un breve saluto in aula magna. Prima di lui è intervenuto il magnifico rettore, professor Lorenzo Ornaghi, che dopo aver salutato autorità, docenti, studenti e gli altri presenti, ha tenuto il discorso inaugurale. Ne riportiamo una sintesi in pagina.
Se il cardinale Tettamanzi ha sottolineato l'importanza di una "motivazione alta" per coloro che studiano, nelle parole del ministro si è ritrovato e ripetuto l'appello ai fondamenti etici dell'economia, letteralmente divorata da quelli che il relatore ha chiamato "mostri": dal collasso del mercato del credito a quello delle borse, fino al peggiore di tutti, rappresentato dai "derivati". Negli ultimi decenni, crollati i regimi comunisti dell'Europa dell'Est, gli Stati Uniti d'America si sono rivolti verso l'Asia favorendo gli acquisti a debito, a lungo andare rovinosi. Qui "si è inserita la tecnofinanza", che ha distrutto "l'etica del capitalismo basata sull'intenzione e sulla responsabilità", ovvero sulla fiducia dei risparmiatori e sull'assunzione del rischio da parte dei banchieri. Un'osservazione contestuale a questa analisi, e non trascurabile, è la seguente: fenomeni che di solito impiegavano diverse generazioni a svolgersi, ora ne hanno interessata una sola.
A molti è parso che una delle cause della crisi attuale consista nella cosiddetta deregulation: è vero solo in parte - ha notato Tremonti - dal momento che, se gli Stati Uniti hanno emanato leggi in tal senso fra il 1995 e il 2000, nell'Unione europea le regole c'erano e ci sono. "Il vero problema - ha spiegato il ministro - sta nella possibilità di fare attività finanziaria fuori da ogni tipo di giurisdizione". Un altro passaggio, a prima vista di carattere tecnico, è per il relatore di segno morale e politico: si è "dimenticato", da parte di questa "nuova" finanza, uno dei due fondamenti della società di capitale - a sua volta tipica del capitalismo stesso - e cioè il conto patrimoniale, gestendo le risorse soltanto con il criterio del conto economico. Così abbiamo sentito parlare di economia share holder value, ma in realtà - dice Tremonti - si tratta solo di economia take away.
Si può, allora, tornare - o incominciare - a parlare di rapporto fra etica ed economia? A giudizio del ministro si deve, anche perché "ci troviamo in una terra incognita. Sappiamo che al termine di ogni crisi c'è una soluzione, ma in questo momento non la vediamo" e c'è bisogno di un cambiamento di prospettiva. Per lo meno "dobbiamo avere l'ignoranza scientifica di chi sa di non sapere e quindi diffidare di quelli che non sapevano di non sapere": la critica, per nulla velata, è a quanti non avevano previsto quanto è accaduto e adesso magari redigono ricette. In conclusione Tremonti ha detto di non saper giudicare se il capitalismo sia destinato a tramontare: "Non è detto. Ci vorrebbe un economista, ma di solito non ci prendono...", ha aggiunto ancora ironicamente.
A giudizio del ministro probabilmente si andrà verso una visione più pragmatica e si troverà lo spazio per un'economia sociale attraverso l'introduzione di valori morali, abbandonando la domanda di beni superflui e basati sul debito in favore di investimenti comunitari basati sul "solido di una prospettiva fondativa". Il relatore ha così concluso: "Non sarà più il mercato, ma la coscienza morale a giudicare il potere. Come diceva Platone, l'unica moneta buona con cui cambiare le altre è la frònesis, vale a dire intelligenza, e un'intelligenza che sa stare in guardia, soprattutto se è aiutata da Dio".



(©L'Osservatore Romano - 20 novembre 2008)