Romano Guardini e il senso della ChiesaL'incantesimo è finito
Il cristiano torni alla realtà
Nel 1922 Romano Guardini raccolse nel libro Il senso della Chiesa le sue lezioni tenute l'anno precedente all'università di Bonn. Le lezioni avevano entusiasmato l'uditorio coinvolto in un clima generale di risveglio culturale e religioso. In occasione del quarantesimo anniversario della morte del teologo riproponiamo alcuni stralci dal primo capitolo dell'opera nella traduzione pubblicata nel 2007 dall'Editrice Morcelliana.
di Romano Guardini Si è iniziato un processo di incalcolabile portata: il risveglio della Chiesa nelle anime. Naturalmente questo va inteso nel suo giusto significato. Presente, la Chiesa lo è sempre stata ed ha avuto sempre e in tutti i tempi valore decisivo per il credente che ne accettava la dottrina e ne seguiva i precetti. Con la sua solida, sostanziale realtà essa è stata per lui sostegno e sicurezza. Ma quando, verso la fine del medioevo, l'evoluzione individualistica ebbe raggiunto un certo grado, la Chiesa non venne più sentita come contenuto della vita religiosa vera e propria. Il fedele viveva bensì nella Chiesa e da lei si lasciava guidare, ma viveva sempre meno la Chiesa. La vita religiosa inclinava sempre più verso la pietà personale e quindi la Chiesa fu sentita come limite e forse anche come opposizione a questa sfera dell'individualità; in ogni modo come qualche cosa che imponesse un freno al fattore personale e quindi al vero atteggiamento religioso. E, a seconda della mentalità del singolo individuo, la regola apparve, a volta a volta benefica o inevitabile, o oppressiva. (...)
Ora, su che cosa si basava questo atteggiamento?
Vi abbiamo già accennato: sul soggettivismo e sull'individualismo dei nostri tempi. La religione fu sentita come appartenente soltanto alla sfera della soggettività (...) La realtà oggettiva religiosa, la Chiesa, era per il singolo principalmente un ordinamento del campo della religiosità personale, una sicurezza contro le deficienze della soggettività. Quanto trascendeva tutto questo, l'oggettivo, levandosi in una libera altezza, scevra da determinati fini, stava in generale come alcunché di freddo e spiritualmente rozzo di fronte alla personalità. Perfino il consenso e l'entusiasmo, che gli erano offerti, erano in molti qualche cosa di esteriore e di individualistico che aveva, dal punto di vista psicologico, molta affinità con l'antico patriotismus.
Guardando più attentamente, vediamo che non si era più neppure coscienti che l'oggetto della religione fosse reale. Questa tendenza dominò universalmente la vita religiosa nella seconda metà del diciannovesimo e al principio del ventesimo secolo. (...) In verità, per l'uomo di quell'epoca era dubbio se addirittura esistesse l'oggetto.
Egli non possedeva alcuna coscienza immediatamente solida della realtà delle cose e, in fondo, neppure della propria. Creazioni del pensiero, come il conseguente solipsismo, non posavano su conclusioni logiche, ma erano tentativi di interpretazione di quest'esperienza di soggettività. (...) E questo vale anche per la religione: quanto non era dato immediatamente per via logica o psicologica non aveva più potere di convincere, anzi, senz'altro non convinceva più.
Sicuro era per l'individuo solo quello che egli personalmente provava, sentiva, viveva, sperimentava, e poi inoltre i concetti, le idee e le esigenze del suo pensiero. Quindi anche la Chiesa doveva esser sentita non come realtà religiosa, che riposasse su se stessa, ma come valore-limite del soggettivo, non come vita vivente, ma come istituzione formale.
Anche la vita religiosa era individualistica, dispersa, priva di carattere comunitario. L'individuo viveva per sé: "Io e il mio Creatore" era per molti la formula unica. La comunità non era qualche cosa di originario, ma veniva solo in seconda linea; non preesisteva, ma era pensata, voluta, istituita. Il singolo andava, sì, verso gli altri, si occupava di loro, li chiamava presso di sé; ma non stava intimamente tra loro, non formava con loro una vivente unità. Non vi era comunità ma organizzazione, come dappertutto, così anche nell'ambito religioso. Quanto poco "comunità" si sentivano i fedeli anche negli atti del culto! Quanto poco cosciente della comunità parrocchiale era il singolo fedele! Perfino il Sacramento della comunanza, la "Comunione", veniva concepito individualisticamente.
Inoltre, a rafforzare questa tendenza, venne la mentalità razionalistica dell'epoca. Si ammetteva soltanto quello che si poteva "concepire", "calcolare". Si cercò di rimpiazzare le qualità delle cose, nella loro indistruttibile originarietà, con relazioni di massa determinate matematicamente; di sostituire delle formule chimiche alla vita.
Invece che di anima, si parlò di processi psichici; l'unità vivente della personalità venne considerata come un fascio di stati e di attività. Quel periodo non aveva contatto diretto che con quanto è sperimentalmente dimostrabile. (...) Tutto questo esercitava il suo influsso anche sulla figura della Chiesa, che appariva principalmente quale istituzione religiosa in certo modo utilitaria e giuridica. Ma quanto in essa vi è di mistico, quello che sta dietro agli scopi e alle istituzioni tangibili, quello che è espresso nel concetto del Regno di Dio, del Corpo mistico di Cristo, non era sentito direttamente.
Tutto questo ora subisce una trasformazione profonda. Nuove forze si sono affermate in quelle enigmatiche profondità dell'essere umano dove attingono stimolo e direzione i moti della vita dello spirito. Ora sentiamo la realtà come dato di fatto originario: essa non è più quella cosa dubbia davanti alla quale preferiamo ritirarci nella validità logica, che appare più sicura e più salda. Essa è altrettanto sicura, anzi ancora di più, perché primordiale e più ampiamente comprensiva e completa. Vari sintomi stanno ad indicare che ora si vuol pretendere il reale concreto quale unico dato e riferire ad esso ciò che è valido astrattamente. Non ci dobbiamo stupire di un nuovo nominalismo: questa coscienza della realtà è venuta all'uomo a volte proprio come un'esperienza di vita. Il nostro tempo riscopre formalmente che le cose sono e sono in una determinatezza propria, originaria e creaturale, che non si può sottoporre a calcolo. Il concreto, nella sua illimitata ricchezza, diviene esperienza vissuta e così pure diviene esperienza la felicità di poter osare di penetrarvi e in esso procedere. Ne deriva anche un senso di libertà e di pienezza: io sono reale e reale è questa cosa che mi sta dinanzi nella sua propria determinatezza! Pensare è una relazione vivente che passa da me alla cosa - e chissà? forse anche dalla cosa a me; agire è mettersi in un vero e proprio rapporto con essa: vivere è un reale evolversi, un procedere tra le cose, un aver comunanza con delle entità, un reciproco dare e ricevere.
Sempre più inconcepibile ci appare quella riserva critica che prima era ritenuta perfetta spiritualità ed era come un incantesimo che bandisse gli uomini dalla ricchezza plenaria della realtà in un morto mondo di schemi. Il nuovo idealismo, contro il quale per tanto tempo erano stati vani tutti gli attacchi della logica (...) non ha più bisogno di essere confutato. L'incanto è svanito e ci domandiamo come abbiamo potuto sopportarlo così a lungo. S'attua un grande risveglio alla realtà.
Ed anche alla realtà metafisica. Io credo che nessuno, - a meno che non voglia mantenere una posizione antecedentemente assunta - nessuno che viva l'epoca attuale o magari precorra il tempo, dubiti sul serio della realtà dell'anima. Già si parla di "un mondo delle cose spirituali" il che vuol dire che lo psichico è ritenuto abbastanza reale per vedervi un intero ordine ontologico che trascenda quello sensibile. Per la scienza rimane spesso solo la difficoltà di trovare il passaggio dalla precedente negazione, divenuta dogmatica, al fatto inconfutabilmente chiaro che c'è davvero un'anima.
E altrettanto certamente vi è un Dio. La corrente occultistica e antroposofica - in sé poco consolante - è una prova di quanto forte già sia questa coscienza metafisica della realtà. Di fronte a essa sorge addirittura il compito di mantenere nella pura spiritualità l'idea della anima e di Dio e di lasciare il loro buon diritto alle materie sperimentabili. La stessa tendenza si rivela nella rinascita attuale del pensiero platonico. Le forme spirituali sono considerate come metafisicamente attive e non più soltanto legate alla struttura logica della coscienza. E così è per molto altro.
Così risulta un dato immediato anche la comunità. L'appartarsi in se stessi non vale più, come venti anni fa, quale unica posizione degna di essere tenuta, ma piuttosto appare invece atteggiamento problematico, improduttivo e impotente. L'esperienza che "vi sono gli uomini" è intensamente vissuta come quella che "vi sono cose, v'è un mondo". Anzi questa è ancora più forte, perché ci riguarda più da vicino. Vi è l'altro uomo, come vi sono io. Ognuno mi è congiunto, ma ognuno è anche un mondo a sé, di insostituibile valore. Donde la conseguenza appassionante che noi siamo per natura uniti, siamo fratelli, sorelle! È naturale che il singolo stia nella comunità; questa non si forma solo quando l'uno si volge verso l'altro, o rinuncia a una parte della propria indipendenza, ma la comunità è altrettanto primordiale e fondamentale quanto il compito di portare alla sua perfezione la propria personalità.
Questa coscienza dell'unione fra gli uomini acquista un significato e un carattere proprio: diviene coscienza di popolo. Il vocabolo "popolo" non significa "massa", o "gente incolta" o "primitivi", la cui vita spirituale e il mondo dei valori e delle cose non siano evoluti. Tutte queste interpretazioni vengono dal pensiero liberale, illuministico, individualistico. Ora il tono è del tutto diverso; qualche cosa di essenziale sta sorgendo. "Popolo" è l'unione originaria degli uomini che per specie, paese e evoluzione storica nella vita e nei destini sono un tutto unico.
Queste profonde trasformazioni debbono giungere a valere anche nella comunità religiosa. La realtà delle cose, la realtà dell'anima, la realtà di Dio ci si presentano con nuovo vigore. La vita religiosa nel suo oggetto, nel suo contenuto, nel suo sviluppo, è un'autentica realtà, un atteggiamento dell'anima vivente verso il Dio vivente. È una vita reale rivolta a Lui, non un semplice sentimento o una pura entità ideale. È un obbedire e un seguire, un ricevere e un donare. Il problema, in fondo, non è più: Vi è un Dio?, ma: come è questo Dio? dove lo trovo? quale è la mia posizione di fronte a Lui? come posso giungere a Lui? Non ci si domanda più se, ma come si debba pregare, non se, ma quale ascesi sia necessaria.
In questo atteggiamento religioso s'inserisce in modo vissuto anche il prossimo. È una comunità religiosa, non una semplice giustapposizione di individui singoli chiusi in se stessi, ma di una realtà che trascende i singoli: Ecclesia. Essa comprende il popolo, abbraccia l'umanità, attrae a sé anche le cose, il mondo intero. E così riacquista l'ampiezza cosmica dei primi secoli e del Medioevo.
La figura della Chiesa, del Corpus Christi mysticum, come si presenta nelle epistole di san Paolo agli Efesini e ai Colossesi, acquista una forza tutta nuova. Sotto la guida del suo Capo, Cristo, la Chiesa comprende "tutto quello che sta in cielo, in terra e sotto la terra" (cfr. Filippesi, 2, 10). Nella Chiesa tutto è legato a Dio, gli uomini, gli angeli e le cose. In essa comincia fin da ora la grande rinascita alla quale "tutta la creazione anela" (cfr. Romani, 8, 19 ss.).
Questa unità, però, non è una esperienza di vita caotica, non è soltanto una corrente di sentimento. Si tratta di una collettività che dogma, liturgia e diritto hanno contribuito a formare: non semplice collettività, ma comunità, non solo movimento religioso, ma vita di Chiesa, non una romanticheria dello spirito, ma realtà ontologica ecclesiale.
Questo modo d'essere in comunità è tuttavia sostenuto, come dal circolare pulsante del sangue, dalla coscienza della vita sovrannaturale. Come nella sfera della spiritualità si afferma ovunque la vita - che è tanto enigmatica e pur di tanto immediata penetrazione intuitiva - così accade anche nel sovrannaturale. La grazia è vita reale; l'agire religiosamente è un elevarsi ad un modo di vita più alto; la comunità è comunione di vita e tutte le forme sono forme vitali.
Tutto questo si può riassumere in una parola: la realtà di fatto immensa, la "Chiesa", è nuovamente viva e noi comprendiamo che essa è veramente l'Uno e il Tutto. Intuiamo in parte la passione con la quale l'abbracciarono i grandi Santi che per essa combatterono. Forse, prima, le loro parole ci saranno qualche volta suonate come vuote frasi, ma ora, invece, quale luce si leva! Il pensatore vedrà, estasiato, nella Chiesa l'ultima poderosa riduzione ad unum di tutte le entità. L'artista sperimenterà in essa, con potenza di intima commozione, la grandiosa forza formativa, l'attitudine a trasfigurare, a sublimare tutto il reale per mezzo di un'altissima potenza di chiarità e di bellezza.
Io sono Paolo Merolla, se siete qui credete di essere dei perdenti, infatti lo siete.
giovedì 2 ottobre 2008
L'OSSERVATORE ROMANO Edizione quotidiana 2 ottobre 2008
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento