E quel giorno iniziò la fine dell'Unione Sovietica
Consulente del Presidente della Repubblica italiana
Sono stato invitato, e l'invito mi è giunto assai gradito, a partecipare, con qualche mio pensiero, a una riflessione sulla figura di Giovanni Paolo II, nell'anniversario della sua elezione al soglio. Ho forte il senso della mia inadeguatezza, anzi della mia incapacità di sintetizzare in poche parole tutte le idee che si affollano alla mia mente quando ripenso a Karol Wojtyla, di cui scrissi un giorno - il giorno tremendo dell'attentato che minacciò di spegnere d'un tratto quella grande luce che il Papa polacco irradiava nel mondo - che "nessun altro uomo nella storia aveva toccato i cuori e agitato le menti di tanti altri uomini, in ogni luogo della terra, come Giovanni Paolo II".
Non sta a me, ebreo non praticante, di fede laica, da anni impegnato come tale in quell'intenso dialogo che di anno in anno acquista forza e dà speranza a un mondo che nutre vaste paure per il proprio futuro, giudicare questo Papa per ciò che egli ha rappresentato nella storia della Chiesa cattolica. Ma sento il dovere di rendere omaggio - cito ancora da quanto scrissi il 13 maggio 1981 - al "moto di rinnovamento iniziato dallo spirito luminoso di Giovanni xxiii e dal concilio Vaticano ii, sviluppato e arricchito nei successivi pontificati, ricevendo l'impronta della complessa intelligenza e della penetrante coscienza di Paolo VI, come del vigore ideologico e della sicurezza di fede di Giovanni Paolo II, che ha portato questo nuovo vangelo in tutti gli angoli della terra". Dà conforto il fatto che questo moto, anche se non senza inevitabili complessità e contraddizioni, non si sia arrestato.
Non ho mai condiviso le critiche laiciste al fatto che Papa Wojtyla abbia sempre riproposto senza compromessi verità per lui indiscutibili, su questioni (una ne nomino fra tante) come l'aborto. Anche nel più aperto degli incontri fra i credenti di fedi diverse, compresa la mia fede laica, ciascuno ha, secondo coscienza, il diritto e dovere dell'annuncio della propria verità, nel momento stesso in cui, attraverso il dialogo, s'impegna seriamente all'ascolto della verità altrui, e rinuncia a imporgli la propria. Nel dialogo, quello che dice l'altro dovrebbe essere ancor più importante di quello che dici tu stesso: e la fede sincera dell'altro, misteriosamente, non indebolisce, ma rafforza la tua.
Ciò che più importa è l'essere disponibili a riconoscere il seme di verità che si esprime anche nella fede altrui, e l'essere disposti a riesaminare con animo aperto le proprie convinzioni e a rileggere criticamente anche la storia passata dell'istituzione o della fede in cui ci si riconosce. Non dimentico che nel dare, il 1° ottobre del 2000, nel corso dell'Angelus recitato in piazza San Pietro, pubblica approvazione alla dichiarazione Dominus Iesus del 6 agosto di quell'anno, Giovanni Paolo II volle chiarire - "dopo tante interpretazioni sbagliate" di quel documento, e al fine di evidenziarne "la funzione chiarificatrice e nello stesso tempo di apertura" - che la Dominus Iesus non sostiene che venga "negata la salvezza ai non cristiani", giacché "Dio dona la luce a tutti in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale, concedendo loro la grazia salvifica attraverso vie a lui note". So bene che questa è una soltanto fra le tante espressioni dello spirito ecumenico di Papa Wojtyla (l'incontro di Assisi è nella nostra memoria e nel nostro cuore).
Troppe altre parole del Papa si riaffacciano alla mia memoria. Si consenta a un ebreo di privilegiare, fra i numerosi, ammirevoli mea culpa del Papa per colpe passate del mondo cattolico, la breve frase che egli scrisse sul biglietto che infilò, secondo un antico costume ebraico, nelle fenditure del Muro del Pianto. In esso si leggeva: "Siamo profondamente addolorati per il comportamento di quelli che nel corso della storia hanno causato sofferenze a questi tuoi figli, e nel chiedere il tuo perdono, desideriamo impegnarci a una sincera fratellanza con il popolo del Patto". Non nascondo di avere pianto, e non fui certo il solo, nell'ascoltare le sue parole rivolte ai "fratelli maggiori" ebrei, il giorno in cui egli compì quel "breve passo al di là del Tevere" che alcuni di noi gli avevano suggerito di fare. Tutti gli ebrei romani, guidati da quel sant'uomo che è il rabbino Elio Toaff, ne furono profondamente toccati. Anche a me era capitato, qualche tempo prima, di suggerire "quel breve passo" durante un incontro dell'Amicizia ebraico-cristiana cui assisteva anche monsignor Clemente Riva, che anni dopo volle confermarmi di avere riferito all'indomani quelle mie parole a chi di dovere. Ineguagliata era, in Papa Wojtyla, la capacità di esprimere con un gesto verità più profonde di qualsiasi parola.
La predicazione religiosa di Giovanni Paolo II per me forse si riassume tutta nelle parole, spesso da lui ripetute: "Non abbiate paura"; ma anche nella sua affermazione, che responsabilizza tutti gli uomini: "In un certo senso si può dirlo: di fronte alla libertà umana Dio ha voluto rendersi "impotente". E si può dire che Dio stia pagando per il grande dono concesso a un essere da Lui creato "a Sua immagine e somiglianza"". Quanto a una riflessione sull'importanza politica che il suo lungo pellegrinaggio fra i popoli ha avuto per questo mondo tormentato in cui viviamo, e ai grandi principi che egli ha proposto ovunque andasse - dal Brasile all'Irlanda, dalle Filippine alla Polonia - faccio mia senza esitazione una definizione, che di lui fu data, di "apostolo della democrazia". Ai generali brasiliani, come ai capi comunisti polacchi o al dittatore filippino, e a chiunque volle accoglierlo, il Papa aveva annunciato con forza una dottrina ricca di contenuti religiosi ma anche di aperti significati politici, predicando il diritto alla libertà e i diritti sindacali dell'uomo contemporaneo.
Chi, come me, aveva dedicato un lungo tempo allo studio e alla critica del comunismo sovietico, non poté non accogliere come un atto carico di straordinarie conseguenze la nomina di un Papa polacco da parte del conclave. Quando fu annunciato il nome del nuovo Papa, di cui ben conoscevamo il grande coraggio di cui aveva dato prova nell'annunciare la fede nel suo Paese, fu spontaneo il commento: "Questo è il principio della fine dell'Unione Sovietica". Non ho mai avuto dubbi sul fatto che la stessa riflessione, ai vertici dei servizi segreti di Mosca, sia stata all'origine dell'attentato fallito.
So di avere soltanto sfiorato, con queste parole, alcuni aspetti della figura di un grande Papa, di un grande uomo, che meritò l'affetto di tanti che non condividevano la sua fede religiosa, ma ammiravano la sua fede, e se ne sentivano ispirati. Egli è e sarà sempre vivo e presente nella nostra coscienza.
(©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2008)
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