pioniere nella storiografia medievale
Mariano D'Alatri, per decenni (1953-1996) membro dell'Istituto storico dei cappuccini, fu studioso straordinariamente fecondo e scrittore altrettanto vivace. Sabato 11 ottobre, a Monte San Giovanni Campano - paese in provincia di Frosinone del quale era divenuto cittadino onorario e dove morì nel maggio 2007 - nel grazioso conventino nel quale, per un certo periodo, risiedette anche Felice da Cantalice, amici e studiosi lo hanno ricordato in un convegno che ha tentato un primo bilancio del suo percorso di storico: Grado Giovanni Merlo, Paolo Vian, Giovanna Casagrande, Costanzo Cargnoni, Felice Accrocca e Servus Gieben hanno affrontato, nelle loro relazioni, gli aspetti più qualificanti dell'attività di questo frate cappuccino, tanto benemerito degli studi storici.
Nel raccontare alcune "notizie e curiosità" sulla sua vita, Mariano D'Alatri stesso ebbe modo di confidare come sin da bambino, ascoltando alcune parole di suo padre, fosse nato in lui "il sogno di scrivere un libro", cosa che egli riteneva "il maximum per un uomo. Ma poi, nella vita, il sogno è diventato un fatto e qualche volta persino un incubo o addirittura una condanna" (Notizie e curiosità, in Mariano D'Alatri storico, a cura di Augusto Cinelli, Monte San Giovanni Campano 2006, pagine 75).
Si laureò nel 1950, con una tesi che, una volta pubblicata, divenne un punto fermo della storiografia sull'argomento: L'inquisizione francescana nell'Italia centrale nel secolo XIII. Fu un lavoro pionieristico, che lo impose all'attenzione internazionale, in buona parte basato su una copiosa documentazione inedita - rinvenuta presso l'Archivio Segreto Vaticano, la Biblioteca Casanatense di Roma e l'Archivio diocesano di Rieti - e che egli portò avanti da solo in quanto il padre Tesser, da lui scelto come moderatore, era malato e poco addentro nella materia.
Un lavoro che, alla fine, cadde come un fulmine a ciel sereno sull'accademia italiana ed estera: gli storici sembravano non essersi neppure accorti che fosse esistita un'inquisizione francescana! Da allora non lasciò più quel campo d'indagine, nel quale divenne un'autorità indiscussa, forse il maggior esperto sull'inquisizione medievale: gli studi - quasi sempre basati su fonti inedite - si moltiplicarono e fecero da battistrada a numerose altre ricerche sull'argomento, del quale cominciò a occuparsi una schiera di studiosi di diverse nazioni.
Una ventina d'anni or sono, tra il 1986 e il 1987, tali studi furono raccolti in due corposi volumi (per complessive quasi settecento pagine) pubblicati dall'Istituto storico dei cappuccini (Eretici e inquisitori in Italia. Studi e documenti. I, Il Duecento; II, Il Tre e il Quattrocento).
Altrettanta solerzia e acume Mariano D'Alatri dedicò a indagare anche altri aspetti del francescanesimo medievale. Dalla seconda metà degli anni Sessanta, stimolato dalla nuova edizione della Cronica di Salimbene che in quegli anni vedeva la luce a opera di Giuseppe Scalia, prese infatti a occuparsi della straordinaria opera del frate parmense alla quale s'interessò ripetutamente, percorrendola in lungo e in largo per scandagliarne gli aspetti più diversi. Pure in questo caso gli studi si accumularono, come testimoniano i due preziosi volumi - il secondo scritto a quattro mani insieme a Jacques Paul - nei quali vennero in seguito riuniti.
Dai primi anni Settanta, la sua attenzione fu catturata anche dalla discussa questione - agitatasi dopo la pubblicazione (1961) del famoso Dossier de l'Ordre de la Pénitence au XIII siècle da parte del domenicano Gilles Gérard Meersemann - dell'origine dell'antico ordine francescano della penitenza: un'invenzione di Francesco o una creazione della Sede Apostolica, che poi l'avrebbe posta sotto la tutela dei francescani nella seconda metà del Duecento? In tale settore egli si distinse non soltanto per la qualità dei suoi contributi, ma anche come promotore culturale, curando l'organizzazione di una serie di convegni internazionali che misero a fuoco molte delle questioni poste in quegli anni al centro del dibattito storiografico.
C'erano poi gli ambiti di lavoro che il suo stesso istituto gli assegnava, e nei quali non mancò d'impegnarsi con successo. È il caso della storia cappuccina, anche questo un campo di ricerca che, una volta abbracciato, non lasciò più: si deve infatti a lui la curatela di diversi volumi di edizioni di fonti nella serie Monumenta historica Ordinis Capuccinorum, tra i quali spicca il processo sistino di san Felice da Cantalice, e tutta una serie di studi che, alla fine, hanno trovato coronamento nei due saggi sulla storia dell'Ordine e sulla storia della provincia cappuccina di Roma: due opere che scrisse a seguito d'uno specifico incarico attribuitogli, rispettivamente, dal ministro generale dell'Ordine e dal suo stesso ministro provinciale. In alcune pagine di ricordi autobiografici, nelle quali narrò la genesi dei propri scritti, li definì le sue creature più care "proprio come per Giacobbe lo era Giuseppe", il figlio avuto nella vecchiaia.
Ci fu, infine, tutto un altro settore in cui egli si mosse da maestro dando - forse - il meglio di sé. Un settore nel quale si gettò di propria iniziativa, nei ritagli di tempo - perché mai avrebbe accettato di porre in secondo piano i compiti che l'istituto e i suoi superiori gli avevano assegnato - e nel quale produsse frutti abbondanti. Sono i suoi scritti di alta divulgazione, nei quali fu assistito da una prosa straordinaria. A questo suo dono naturale - peraltro affinato da un lungo e quotidiano esercizio - unì infatti da subito la convinzione che i risultati conseguiti dalle indagini scientifiche dovessero essere divulgati, in modo chiaro, anche tra i non addetti ai lavori, per permettere alla ricerca di produrre pienamente i suoi frutti.
Per lunghi anni, tra il 1969 e il 1991, si impegnò a divulgare, sotto lo pseudonimo di Vincent Flint, proprie opinioni e risultati degli studi rispondendo alle domande dei lettori nella rivista L'Italia Francescana: testi che volle poi riunire in un prezioso volumetto, Spigolature francescane, che più di ogni altro scritto rivela il suo esplicito pensiero su importanti questioni storiografiche e di attualità. In una risposta del 1981, asseriva - tra l'altro - che "gli storici hanno pure essi le loro grosse colpe, la principale delle quali crediamo consista nel fatto che non sanno trovare il mezzo per far giungere la loro voce un poco oltre la stretta cerchia degli addetti ai lavori. Infatti, ordinariamente, le loro dotte ricerche finiscono su riviste critiche specializzate, oppure vengono pubblicate in volume, senza che nell'uno o nell'altro caso riescano a raggiungere il grande pubblico" (pp. 98-99).
È degno di nota un fatto: Mariano D'Alatri medievista raramente s'interessò di Francesco d'Assisi e delle fonti biografiche che lo riguardavano, tema tanto in voga nella storiografia del xx secolo, incaricato di quel settore, presso l'Istituto storico, era il suo confratello Ottaviano Schmucki. Quando lo fece fu essenzialmente (anche se non esclusivamente) per opere di carattere divulgativo, come la ben nota edizione dei Fioretti - che negli anni ha conosciuto un gran numero di edizioni - o la traduzione italiana degli Scritti del fondatore, entrambe pubblicate dalle Edizioni Paoline.
Per un pubblico più vasto approntò anche diverse vite di santi e di personaggi avviati verso la canonizzazione. Da segnalare, anzitutto, la raccolta Santi e santità nell'Ordine cappuccino, da lui ideata e sostenuta, ma vanno ricordati anche altri lavori specifici, come la vita di san Crispino da Viterbo e il profilo di Mariano da Torino, il celebre predicatore televisivo, morto nel 1972, il cui ricordo è ancora vivo in molti italiani.
Non ho mai ascoltato Mariano D'Alatri predicare in chiesa, eccetto quei brevi pensieri che al mattino poteva rivolgere ai confratelli, durante la messa celebrata prestissimo all'Istituto storico. Nelle conferenze, la sua natura timida e - a tratti - quasi impacciata, non gli consentiva di dominare imperiosamente la platea, contrariamente a quanto faceva Raoul Manselli, con il quale condivideva un profondo legame, e che era capace di tenere incollato a sé l'uditorio per tutto il tempo in cui prendeva la parola. Ma con la pagina scritta era tutt'altra cosa. Nei libri, Manselli era sempre se stesso: la pagina trasudava pàthos ed era anche capace di coinvolgere, tuttavia la prosa non era certo agile, anzi poteva diventare perfino ingarbugliata e confusa. Mariano, invece, vi dava il meglio di sé e i suoi scritti erano limpidi, essenziali, efficacissimi; lo stile era sempre straordinariamente moderno e, in tantissime occasioni, il risultato fu altrettanto felice. Ed è proprio con i suoi scritti che egli continuerà a parlare, per lungo tempo ancora, anche alle generazioni che verranno.
(©L'Osservatore Romano - 13-14 ottobre 2008)
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