Difesa della vittima e abuso della pietà
La facciata di una casa che crolla. Un incendio che scoppia. Una scarica elettrica che parte. La paratia di una diga che cede. La gomma di un'autobotte che si squarcia. Una grondaia che si stacca. Un colpo di pistola che esplode. Il cambio ferroviario che non scatta. La barra di un passaggio a livello rimasta aperta. La fiala di un preparato che viene scambiata con un'altra. Un albero che cade. Un masso che frana. Un autobotte che si rovescia. Un'impalcatura che s'incrina.
Crolli. Buchi. Squarci. Incendi. Cedimenti. Crepe. Schianti. Morti e feriti. Si contano le vittime e si cercano le ragioni. In certi casi si invoca la mano del destino, della fatalità. In altri, quella di una misteriosa e remota punizione di Dio. In altri ancora, se si tratta di un guasto meccanico, è il tributo dovuto alla tecnica che viene chiamato in causa. Ma quando c'è di mezzo il sospetto, l'eventualità, la probabilità che si tratti del mancato rispetto delle norme di sicurezza, allora il meccanismo della ricerca di un responsabile è pronto ad attivarsi.
Di chi è la colpa? è la domanda che ci si pone in questi casi.
Da quando la tradizione ebraico-cristiana ci ha insegnato a metterci dalla parte delle vittime, sono passati centinaia d'anni. Ciononostante è stupefacente constatare come in presenza di un'ingiustizia l'ostilità scatenata non si plachi fino a che non ha trovato qualcuno da mettere sotto accusa e subito. E questo indipendentemente dalla messa in moto del regolare intervento della giustizia che agisce con gli strumenti di cui le procure e i tribunali dispongono legittimamente, ma che non sembrano in grado di purificare l'ambiente ormai contaminato.
Recenti casi di cronaca ci hanno mostrato come in molti casi di disgrazie - disgrazie che per la loro tragicità hanno colpito l'opinione pubblica - la ricerca dei responsabili da parte delle istituzioni sia accompagnata da un'azione parallela, un'azione nella quale il ruolo dei media è certamente preponderante, fatta di istigazioni, incitamenti e tambureggiamenti che occupano lo sfondo.
Per quanto si dichiari il contrario, succede in questi casi che la ricerca della giustizia deve spesso fare i conti con le influenze suscitate da un'orchestrazione laterale autonoma, un concerto a cui prendono parte i più diversi attori sociali. A proposito dei quali non mancherà di apparire come questi ultimi siano molte volte mossi da motivazioni allo stesso tempo arcaiche, per ciò che riguarda le aspettative, e modernissime per ciò che riguarda gli strumenti di pressione messi in campo, motivazioni caratterizzate dal porsi al servizio del raggiungimento di obbiettivi diversi da quelli istituzionali della giustizia e alternativi a quelli della solidarietà, del sostegno e della partecipazione umana.
È triste dirlo, ma c'è una frase dei Vangeli che anticipa e sintetizza questo stato di cose ed è quella pronunciata da Gesù: "Dovunque sarà il cadavere, là si raduneranno gli avvoltoi" (Matteo, 24, 28).
Situazione già oggetto di esame da parte di René Girard, là dove lo studioso francese parla dell'effetto prodotto dalla corsa alla preoccupazione vittimaria o souci victimaire, tipica dei nostri giorni. Definibile anche come ricatto vittimario o "strategia del caso pietoso", così nei termini usati da Lucetta Scaraffia a commento, su "L'Osservatore Romano" (16 ottobre 2008) del caso del bimbo messo artificialmente al mondo per fornire al fratello talassemico il sangue ricavabile dal suo cordone ombelicale.
Fatto sta che non si è mai parlato così tanto della necessità della difesa della vittima come da quando se ne fa un uso improprio e strategico, uso che ha poco a che fare con la difesa della vittima stessa, ma più con l'abuso della pietà che suscita, finalizzata, questa, a secondi fini. Globalizzata, planetaria e secolarizzata, sorta di ingiunzione totalitaria e inquisizione permanente, la compassione obbligatoria diventa così il punto di partenza che dà origine a quel tipo di emergenze umanitarie che possono degenerare in forme di falsificazioni e totalitarismi del bene che la storia ci ha mostrato.
Ma per restare a casi più recenti, è evidente che, tanto per cominciare, essere e presentarsi sotto forma di vittima, magari incatenandosi come novelli Prometeo ai cancelli di un edificio o rinunciando a mangiare e a bere o rinchiudendosi in strutture mobili collocate sulla pubblica piazza, è diventato lo strumento più sicuro in grado di fornire oltre a visibilità, potere e consenso, anche la supremazia e la forza contrattuale necessarie al desiderio di dare soddisfazione alle proprie motivazioni. Niente, infatti, come manipolare il genere di situazioni vittimarie descritte assicura il vantaggio necessario a chi vuole prevalere sul bersaglio del momento, sia esso una istituzione da colpire o la Chiesa cattolica, spesso accusata di oscurantismo per aver tentato di ostacolare la scienza e di aver fatto pertanto della ricerca una nuova vittima.
Ognuno può cercare, fra i tanti i casi o le tante situazioni in cui la manipolazione citata si verifica, quello o quella che più lo convince. Il meccanismo è in ogni modo sempre quello del lupo e dell'agnello del racconto di Fedro, con la differenza che oggi ad accusare l'agnello di avergli sporcato l'acqua da bere non è più il lupo, ma sono le "anime belle" che per difendere la vittima ne hanno indossato preventivamente l'aureola. Un certo genere di ambientalisti, di rivendicazionisti patentati, di pubblici accusatori a tempo pieno, di soccorritori e tutori mediatici, di indignati di professione sono il tipo di anime belle per le quali si può dire che le anime belle non sono poi così belle. Non sembrano certo esserlo gli autori di uno striscione comparso di recente all'esterno del liceo Darwin di Rivoli. "Come possiamo crepare in fabbrica se rischiamo di venire ammazzati prima?", una domanda nel porre la quale è fuor di dubbio che gli autori aspirassero a stabilire tra studenti e operai un tragico collegamento. Ciò non toglie che lo scopo raggiunto sia basato sulla presunzione dell'esistenza di colpevoli già individuati, se non ancora con nome e cognome, certo come categoria e appartenenza sociale e professionale.
In quanto capace di esprimere meglio di ogni altro il bisogno del risentimento di affiorare in superficie nelle parole prima ancora di essere soddisfatto, "rabbia" è il termine più evocato dai difensori delle vittime che si presentano nelle vesti di anime belle. Certo non è una parola che fa onore al genere umano. Ma è la parola che, tratta dal vocabolario della violenza, meglio esprime, in tempi esasperati dalla indifferenza come i nostri, quel bisogno di rivalsa e di soddisfazione inseguito in nome del bene e di una ipotetica armonia, sbandierati dalle anime belle. Ma di quale armonia si parla? Fermiamoci qui e cerchiamo la risposta in Dostoevskji, là dove nel testo del Grande Inquisitore l'autore dichiara: "Non voglio l'armonia, non la voglio, per l'amore dell'universo. Preferisco rimanere con le mie sofferenze invendicate. Preferisco rimanere con la mia indignazione insoddisfatta".
(©L'Osservatore Romano - 7 dicembre 2008)
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