di Inos Biffi
Gran parte delle più note e talora drammatiche scelte di sant'Ambrogio trovarono la loro origine e la loro forza nella sua coscienza di vescovo, libera da qualsiasi condizionamento che non fosse quello della verità, cioè di Dio, che in tale coscienza traspare con la sua legge.
Ed è, così, subito menzionata la relazione "teologica", che per Ambrogio istituisce e fonda la stessa coscienza con i suoi imperativi e la sua indipendenza; o, più concretamente, la relazione cristologica, cioè la signoria di Cristo.
Egli afferma: "Cristo solo è il Signore" (De Ioseph Patriarca, 9, 49); "Chi ha molti padroni non può dire a uno solo: "Signore Gesù, io appartengo a te" (Explanatio ps. 118, 12, 41).
E, d'altra parte, proprio questa appartenenza esclusiva, mentre lo vincolava interiormente, lo liberava da ogni potere esteriore, fosse pure quello degli imperatori e della loro corte, che pretendesse di contrastare alle ragioni di verità della sua "coscienza interiore (interior coscientia)".
Un vescovo ariano, che non riconosceva la divinità di Gesù e quindi la sua assoluta signoria su ogni potere umano, non poteva che essere cortigiano, e per ciò non libero, come il predecessore di Ambrogio, Aussenzio.
Il vescovo di Milano dichiarerà senza timore alcuno: "Per quanto grande sia il potere imperiale, considera, o imperatore, quanto sia grande Dio: egli vede i cuori di tutti, interroga la coscienza interiore, conosce tutte le cose prima che avvengano, conosce l'intimo del tuo cuore" (Epistula extra collectionem, 10, 7).
"È indegno di un imperatore - asseriva Ambrogio - soffocare la libertà di parola, ma è indegno di un vescovo tacere il proprio pensiero" (Epistula extra collectionem, 1a, 2). La coscienza è una luce che rischiara nell'intimo: "La tua coscienza, che bene riluce in questo corpo, è la luce della lampada: essa stessa è il tuo occhio" (Explanatio ps. 118, 14, 7); "Il tuo cubicolo è il segreto delle tue cose interiori: esso è la tua coscienza" (De institutione Virginis, 1, 7), la quale rimane infrangibile di fronte a tutti e solo giudicabile da Dio, che vede nel segreto.
Nella "coscienza interiore" - come Ambrogio amava chiamarla - echeggia la voce di Dio, al quale essa è primariamente aperta e trasparente, al quale ultimamente risponde, con la conseguente libertà rispetto a qualsiasi altro giudizio: la legge e la presenza di Dio nella "retta coscienza dell'uomo" (De apologia David, 14, 66) generano l'incondizionabile e infrangibile libertà dell'uomo, che ritrova la garanzia di Dio.
Per questa illustrazione della coscienza, Ambrogio torna spesso alla vicenda di Susanna. Egli osserva: di fronte ai lacci della falsa testimonianza "solo la sua coscienza restava libera in Dio" (Explanatio ps. 118, 17, 25).
La coscienza sa parlare anche là dove non se ne sente in maniera sonora la voce; essa non chiede il giudizio dell'uomo, avendo la testimonianza e l'arbitrio del Signore. Susanna, "tacendo davanti agli uomini, parlò a Dio. (...) Parlava con la sua coscienza là dove non si udiva la sua voce" (De officis, i, 3, 9); e "sola, priva di ogni aiuto, in mezzo a uomini, nella coscienza della propria onestà, invocava Dio come giudice. (...) Accusata, taceva, e, condannata, stava silenziosa, contenta del giudizio della propria coscienza" (De Spiritu Sancto, IIi, 40-41). Sono ancora parole di sant'Ambrogio: "La buona coscienza non ha bisogno della difesa delle parole: fondata sulla propria testimonianza, è giudice di se stessa" (Explanatio ps. xII, 38, 13, 1), e "lieta rifulge della sua luce (laeta lucet conscientia)" (ibidem 37, 38, 2).
Per Ambrogio "la disgrazia più grande" sarebbe "la coscienza incatenata" (Epistula extra collectionem, xi, 3). "Libero - insegnava sant'Ambrogio - è colui che lo è dentro di sé" (Epistula 7, 17) ; "schiavo chi non possiede la forza di una coscienza pura" (De Iacob et vita beata, II, 3).
E ancora una vòlta alla radice della libertà sta Gesù Cristo, il quale ha redento l'uomo, e, sciogliendolo dalla schiavitù e affrancandolo per sé, lo ha reso suo liberto, "liberto di Cristo" (De Iacob et vita beata, i, 12).
(©L'Osservatore Romano - 7 dicembre 2008)
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