sabato 6 settembre 2008

Paolo non è solo un genio, è anche l'espressione di un popolo - (©L'Osservatore Romano - 7 settembre 2008)

Gli ultimi studi sul rapporto tra Gesù e l'Apostolo



di Romano Penna

Gli studi più recenti sulle origini cristiane, oltre a quelli che si interessano del loro ambiente storico-culturale, si possono suddividere grosso modo in due categorie. Gli uni prendono in considerazione il fenomeno da un punto di vista globale, sia individuandone tappe cronologiche e dislocazioni geografiche, sia esaminandone i contenuti e le posizioni ideali. Gli altri insistono piuttosto o su momenti o su personaggi o su temi particolari, che hanno contribuito, ciascuno per la sua parte, a configurare da posizioni diverse l'insieme del fenomeno stesso.
Per quanto riguarda specificamente i personaggi, non c'è dubbio che, oltre a Gesù, la parte del leone la fa Paolo, che di volta in volta viene studiato in rapporto ai suoi maestri ebrei, ai primi apostoli, ai suoi collaboratori, a Giacomo fratello del Signore, e particolarmente in rapporto a Gesù stesso.
Proprio sulla relazione tra Gesù e Paolo, o tra Paolo e Gesù (a questo proposito va precisato che si intende solo il Gesù storico e non il Gesù risuscitato), si dà ormai una bibliografia vastissima, la cui catalogazione e discussione meriterebbero da sole una ricerca. A mia conoscenza, le ultimissime produzioni sono quelle di Giuseppe Barbaglio, di Jerome Murphy-O'Connor e del curatore Todd D. Still. Tra questi tre studi dico subito che quello di Murphy-O'Connor è un prodotto infelice, non solo per la bizzarra idea derivata impropriamente da Plutarco di mettere in parallelo due personaggi del tutto asimmetrici, stante il fatto che il secondo si professa addirittura doùlos del primo, ma anche perché a mio parere va a forzare i testi e, per fare ad ogni costo di Gesù un corrispettivo di Paolo, sostiene addirittura che anche lui ebbe una sorta di conversione da una primitiva fase di sostenitore zelante della Legge.
In ogni caso, resta vero ciò che scriveva Alexander J. M. Wedderburn nel 1996, cioè che "è difficile pensare nello studio di tutto il Nuovo Testamento un tema più pressante del rapporto tra Paolo e Gesù".
In realtà, questo non è altro che un capitolo della questione più ampia concernente il passaggio dalla fase gesuana a quella più propriamente cristiana. Infatti, se John Dominic Crossan ritiene di non poter trovare correttamente Gesù partendo da Paolo, è pur vero che, come osserva invece Larry W. Hurtado, se non si tiene in adeguata considerazione Paolo non si arriva a presentare correttamente la nascita del cristianesimo.
Il giudizio negativo sulla parte svolta da Paolo proprio sulla nascita del cristianesimo, diventato poi pressoché un tòpos negli studi o meglio in "certi" studi sulle origini cristiane, a mia conoscenza è stato formulato per la prima volta da Nietzsche in Aurora (del 1881). Mentre in Umano, troppo umano (del 1879) è ancora Gesù a essere considerato il "fondatore del cristianesimo" ( 85, 177), in Aurora invece egli scrive testualmente a proposito di Paolo: "È questo il primo cristiano, l'inventore della cristianità" ( 68, 53), dove però bisogna avere presente la singolare ermeneutica nietzschiana secondo cui si trattò di un passaggio dall'"evangelo" di Gesù al "dysangelo" paolino imperniato sull'odio per l'umano, che sarebbe tipico dell'ebreo.
Ancora nel 1999 uno scrittore esponente del giudaismo italiano poneva come sottotitolo a una sua biografia dell'Apostolo L'ebreo che fondò il cristianesimo.
Il più noto Georg William Wrede nel 1904, pur senza citare Nietzsche, parlerà se non altro di "secondo fondatore del cristianesimo", riconoscendo tra i due, non proprio una continuità, ma uno sviluppo. Ancora Rudolf Bultmann, ampiamente debitore della religionsgeschichtliche Schule, scorgeva nella teologia di Paolo eine neue Bildung in quanto tra Gesù e Paolo si deve calcolare il cristianesimo ellenistico, sicché la questione del rapporto tra i due si ridurrebbe semplicemente a quella tra Gesù e appunto il cristianesimo ellenistico.
I successivi studi sul giudeo-cristianesimo hanno in buona parte modificato il quadro generale, sicché, a quanto vedo, nella produzione luterana tedesca recente, quel tòpos sembra ormai abbandonato, anche se qualcuno mette di più l'accento sul fattore della discontinuità, almeno nella misura in cui è possibile ipotizzare che Paolo si collocasse in una corrente della tradizione cristiana che concedeva poco spazio alla trasmissione di dati gesuani. E in effetti, una semplice equivalenza tra i due è ben difficile da sostenere.
In tutto questo gran parlare di Gesù e Paolo si trascura spesso il ruolo decisivo, giocato dalla comunità cristiana primitiva. Perlomeno questo fattore è praticamente dimenticato o comunque bypassato da chi continua a parlare di Paolo come fondatore o inventore del cristianesimo, che semmai è rimasto un luogo comune solo in ambito giornalistico o simili. A livello di ricerca, invece, non v'è (Bultmann compreso) chi non ponga tra la trattazione della figura di Gesù e quella di Paolo un capitolo specifico dedicato alla comunità primitiva, eventualmente divisa un po' discutibilmente tra versante palestinese e versante ellenistico.
Ebbene, ciò che a me preme di evidenziare è appunto la parte svolta dal cristianesimo pre-paolino nei confronti dell'Apostolo, per dire in sostanza che, se dobbiamo proprio parlare di una eventuale "ri-fondazione" del cristianesimo, questa semmai avvenne già prima di Paolo. Altri recentemente vorrebbero enfatizzare piuttosto il ruolo specifico di Simon Pietro, che funzionerebbe come trait-d'union tra la Third Quest on Jesus e la New Perspective on Paul, in quanto egli è caratterizzato sia dal giudaismo sia anche da un sicuro rapporto storico con entrambi, Gesù e Paolo. Ma in definitiva il suo è un ruolo che si può inserire nel quadro più ampio della Chiesa primitiva. Comunque, è certamente indiscusso il fatto che il rapporto tra Paolo e Gesù non è stato diretto ma che tra di essi, un ebreo palestinese e un ebreo della diaspora ellenistica, si inframmezzò la comunità postpasquale.
Tuttavia, ciò che interessa in questa sede non è la descrizione completa del patrimonio confessionale della comunità o, meglio, delle comunità al plurale (ma si potrebbe anche usare il singolare "comunità/chiesa" da intendersi come singolare collettivo), che storicamente si interposero tra i due Ebrei. Mi interessa piuttosto considerare l'apporto che le comunità primitive diedero al formarsi dell'identità cristiana di Paolo.
Il mio punto di vista, cioè, non vuol essere quello delle comunità cristiane in quanto tali, ma quello di Paolo stesso in quanto nelle sue lettere rivela di essere stato condizionato dalla loro vita di fede. A questo proposito distinguo metodologicamente tra il Paolo anteriore all'evento di Damasco e il Paolo posteriore, in quanto ciascuna delle due fasi in modi diversi influì sulla sua conoscenza di Gesù Cristo.
Con ogni probabilità, come già accennato, Paolo non incontrò mai Gesù di Nazaret durante la propria vita terrena, anche se resta il problema suscitato da una loro effettiva contemporanea presenza a Gerusalemme, sia quando Gesù vi scendeva dalla Galilea, sia quando egli vi fu crocifisso, stante il fatto che Paolo si trovava proprio in quella città fin da quando vi si trasferì da Tarso (forse all'età del bar mitzvà) e quindi anche sul finire degli ultimi anni venti del primo secolo.
Al massimo, quindi, egli seppe di Gesù solo per sentito dire. Ed è qui che si colloca il primo decisivo influsso esercitato su di lui da quelle che egli stesso chiama "le chiese della Giudea" (1 Tessalonicesi, 2, 14; Galati, 1, 22). È precisamente da queste che egli ebbe la prima conoscenza di Gesù di Nazaret. E fu una conoscenza "secondo la carne", come scrive testualmente nella seconda lettera ai Corinzi (5, 16). Egli cioè percepì nella fede dei primi cristiani qualcosa di eccessivamente nuovo e insostenibile, che non poteva essere facilmente coniugato con il tradizionale patrimonio del popolo d'Israele. Non intendo qui parlare dello "zelo" del fariseo Paolo (cfr. Galati, 1, 14; Filippesi, 3, 6), che peraltro si inscrive in un fenomeno tipico del giudasimo del Secondo Tempio. Piuttosto è importante rendersi conto del perché abbia preso di petto il movimento che si richiamava a Gesù di Nazaret e si sia dimostrato intollerante nei suoi riguardi fino ad adottare forme di persecuzione.
A questo proposito sono state scritte pagine importanti da Terence Donaldson. Egli fa vedere bene che, se Paolo avversò il movimento cristiano, non fu perché gli fosse genericamente antipatico, ma perché là scorse dei tratti inaccettabili da un pio Giudeo in quanto incompatibili con il suo status di appartenente al popolo dell'alleanza costituito dall'adesione alla Torah rivelata da Dio.
L'unica incongruenza è che non abbiamo una documentazione che provenga direttamente dal periodo predamasceno. Ma due fattori ci confermano in questa ipotesi. L'uno è che l'evangelo paolino svincolato dalla Legge non è certamente anteriore a quell'esperienza. Infatti la consapevolezza che egli attribuisce già a quel momento (cfr. Galati, 1, 15-16a: "perché lo annunziassi tra le Genti") dimostra almeno un tendenziale superamento dei limiti storico-salvifici della Legge, la quale non è per i Gentili, tanto più che il cristianesimo prepaolino nel suo insieme, almeno quello palestinese, non è sostanzialmente intenzionato a varcare i confini di Israele. L'altro fattore è il fatto incontestabile che Paolo dimostrò uno zelo particolare nel perseguitare la comunità cristiana con l'intento addirittura di distruggerla (cfr. Galati, 1, 13-14). Il motivo per cui ciò avvenne riecheggia in alcune parole del Paolo postdamasceno, là dove egli afferma che il Gesù oggetto di fede delle prime comunità non poteva che essere collocato al primo posto per una motivazione di tipo teologico attinente al patrimonio ideale della fede israelitica oppure per una motivazione di tipo piuttosto sociologico correlata all'emergere di un gruppo deviante all'interno di una comunità precostituita.
Generalmente, "il giudaismo del Secondo Tempio era caratterizzato da un considerevole grado di tolleranza verso partiti, sette e altri movimenti dai punti di vista diversi. Solo quando la presenza e le attività di tali gruppi rompevano l'equilibrio sociale ed erano percepiti come minaccia alla comunità costituita e alle sue linee di demarcazione, veniva intrapresa un'azione di persecuzione per preservare le delimitazioni sociali e proteggere la solidarietà di gruppo".
Ma ciò significa che doveva esserci in gioco qualcosa di troppo importante. Questo "qualcosa", nel caso di Paolo, non poteva essere altro che una minaccia alla Torah e quindi alla comunità che si definiva in base all'obbedienza ad essa. Non per nulla, il gruppo di Qumran - benché assolutamente settario tanto da definire "figli delle tenebre" tutti coloro che non vi appartenevano - per quanto ne sappiamo non suscitò voglie persecutorie da parte dell'establishment giudaico, poiché evidentemente non rappresentava una minaccia al criterio identitario fondamentale del giudaismo dominante.
Ebbene, la prima comunità cristiana e il suo kèrygma dovevano caratterizzarsi appunto per una centralità e una funzione particolare accordata a Gesù, proclamato Cristo e Signore, tale da non potersi accordare con il punto focale della tradizionale identità giudaica e quindi da non poter essere sopportata da un fariseo zelante come Paolo. Improvvisamente apparve che la Torah (da sola) non era più sufficiente e quindi neanche necessaria per acquisire la giustizia davanti a Dio. Una ulteriore discussione si potrebbe instaurare sull'interrogativo se il fattore determinante sia stato più la cristologia (Gesù come Signore) o la soteriologia (Gesù come Salvatore) o non piuttosto l'idea di appartenenza alla vera comunità di salvezza.
Certo è che, "se il Gesù crocifisso e risuscitato era l'Unto di Dio, allora l'associazione al popolo di Dio, o la giustizia, non poteva venire dalla Torah".
Proprio questo fu il Gesù conosciuto per la prima volta da Paolo! Probabilmente invece Paolo non ebbe contatti con la/le comunità che fanno capo alla cosiddetta fonte Q, poiché in quell'ipotetico testo mancano lògia sulla morte salvifica di Gesù e invece vi è presente una cristologia di tipo sapienziale e profetico che Paolo non dimostra di conoscere. Non dunque il maestro e profeta della Galilea fu quello conosciuto da Paolo, ma un Gesù crocifisso-risuscitato, inopinatamente confessato e venerato come decisivo identity marker di una inedita comunità che si stava impiantando all'interno di Israele. Questa comunità ormai non vedeva più "soltanto" nella Legge il proprio elemento distintivo. Un Gesù di questo tipo per il fariseo Paolo, come già accennato, non poteva che essere associato alla maledizione di cui si legge in Deuteronomio, 21, 23; 27, 26 (cfr. Galati, 3, 13) ed essere quindi assolutamente motivo di scandalo (cfr. 1 Corinzi, 1, 23; Romani, 9, 33). Certo non si può dire che la fede della prima comunità cristiana si riducesse tutta qui, poiché la sua configurazione confessionale era sicuramente molto sfaccettata. Neppure si può dire che la sua soteriologia corrispondesse già a quella poi elaborata da Paolo, essendo invece connotabile come giudeocristiana. Ma Paolo si concentrò polemicamente su questo particolare aspetto, che sul piano della caratterizzazione propria dei credenti in Cristo era quello forse più distintivo.
Come si vede, dunque, se ci fu uno slittamento confessionale a proposito di Gesù di Nazaret, questo si verificò non primariamente con Paolo, ma già con le prime chiese della Giudea. E fu subito qualcosa di rilevante a livello di configurazione identitaria. Fu, se non l'inizio, certo un inizio del parting of the ways. A questo proposito va però precisato che il fortunato sintagma coniato da James D. G. Dunn connota, semmai, non la coscienza propria della comunità dei "santi di Gerusalemme" (Romani, 15, 26), che per parte loro si sentivano certamente integrati in Israele, ma certo connota la reazione risentita di almeno una parte della comunità israelitica, di cui proprio Paolo rappresentò il fenomeno più vistoso. È dunque sulle prime chiese che occorrerebbe puntare l'attenzione per prendere atto di un secondo inizio del cristianesimo, chiedendosi eventualmente come mai ciò sia stato possibile.
E allora il discorso dovrebbe riguardare l'importanza e la natura delle prime confessioni cristiane, che vertevano sulla resurrezione di Gesù.
L'evento della strada di Damasco non fece altro che condurre a un esito imprevedibile, ma in qualche modo anche sanzionò, una esperienza che per Paolo era stata traumatica. Là si provocò un vero e proprio ribaltamento del suo convictional world. Comunque si voglia spiegare il fatto, il risultato è uno solo: colui che prima infieriva contro i discepoli di Gesù improvvisamente si trovò invece ad annunciare la sua signorìa (cfr. Atti degli apostoli, 9, 21. 28; Galati, 2, 23)!
È forse per questo capovolgimento, inaspettato e soprattutto documentato dalle fonti come per nessun altro dei primi testimoni di Gesù, che si pensò a una rifondazione del cristianesimo, naturalmente combinato con una originale operazione ermeneutica condotta poi personalmente da Paolo.
Ma ciò che importa notare in questa sede è che Paolo attesta ripetutamente nelle sue lettere una propria interessante dipendenza dalla fede delle prime comunità cristiane e dalla formulazione stessa di quella fede. Già per quanto riguarda alcuni lògia del Gesù terreno, Paolo è il primo scrittore a trasmettercene almeno qualcuno. Non sto qui a trattare la questione della conoscenza da parte sua delle tradizioni gesuane e in particolare dei detti riconducibili al Maestro galileo, eventualmente sotto forma di citazione o di riecheggiamento o di adattamento.
Benché le posizioni degli studiosi in materia siano molto diverse, una cosa è sicura: Paolo ha ricevuto l'eventuale materiale gesuano rintracciabile nelle sue lettere soltanto dalla tradizione viva delle prime comunità cristiane palestinesi, il contatto con le quali è perlomeno documentato dalla sua propria informazione di essere stato quindici giorni con Cefa a Gerusalemme, oltre che di avere visto là anche Giacomo fratello del Signore (cfr. Galati, 1, 18-19).
Ma, a parte i debiti verso le tradizioni gesuane, sono le medesime lettere paoline a permetterci di ricostruire, mediante citazioni, richiami e allusioni, la stessa fede cristiana delle origini post-pasquali, quale essa era confessata prima di lui. Sicché, proprio Paolo è praticamente l'unica fonte, o almeno la principale, che ci permette di risalire all'identità confessionale della Chiesa primitiva. A questo proposito, già alcuni anni fa si produssero alcuni studi importanti a opera di Vernon H. Neufeld e Klany Wengst, per non dire di Reinhart Deichgräber, che si preoccuparono di distinguere e catalogare le forme letterarie, nelle quali aveva preso corpo la più antica enunciazione della fede cristiana. In effetti, l'Apostolo documenta l'esistenza di confessioni/homologìe, acclamazioni e "inni" che quella fede esprimono, testimoniandola e perfino celebrandola nel canto. Non è mia intenzione dare qui l'elenco di questa documentazione e tantomeno analizzarla esegeticamente. Ritengo sufficiente rimandare ad alcune di queste forme e ai rispettivi passi epistolari.
Per quanto riguarda le confessioni di fede, altrimenti etichettate anche come "il credo" o kèrygma, la loro caratteristica è la proclamazione degli eventi salvifici incentrati sulla figura di Gesù Cristo. Ricordo solo due di queste formule: 1 Corinzi, 15, 3-5 ("Vi ho trasmesso ciò che anch'io ho ricevuto, che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e poi ai Dodici") e Romani, 1, 3b-4a ("nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito figlio di Dio in potere secondo lo Spirito di santità dalla risurrezione dei morti").
Esse convergono unicamente nella confessione della resurrezione di Gesù, ma per il resto si differenziano e comunque ognuna delle due presenta un proprio schema ermeneutico di base (rispettivamente quello del giusto sofferente e quello della intronizzazione regale). In più si potrebbero citare perlomeno Romani, 3, 25; 4, 25; 1 Corinzi, 8, 6; 2 Corinzi, 13, 4; 1 Tessalonicesi, 4, 14.
Quanto alle acclamazioni, esse sono incentrate sulla dichiarazione solenne di Gesù/Cristo come Kyrios. Molto più brevi delle homologhìe, esse con ogni probabilità non sono destinate all'esterno della comunità cristiana ma appartengono a momenti celebrativi-cultuali della sua vita interna. Tali sono le frasi che leggiamo in 1 Corinzi, 12, 3 ("Nessuno può dire "Signore Gesù", se non nello Spirito Santo"); Romani, 10, 9 ("Se confesserai con la bocca che Gesù è Signore"); Filippesi, 2, 11 (ogni lingua confessi che Gesù è Signore"). Anzi, Paolo addirittura definisce i cristiani come "coloro che invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo" (1 Corinzi, 1, 2). D'altronde, l'attribuzione al Gesù glorificato della qualifica aramaica di mâr/mârâ' (1 Corinzi, 16, 22) dice con chiarezza che si tratta di una venerazione di antica ascendenza proto-cristiana.
Anche la innologia proto-cristiana è documentata da Paolo.
A parte l'informazione generica che egli ci dà in 1 Corinzi 14, 26 ("Quando vi radunate ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione"), qui mi riferisco in particolare al brano di Filippesi, 2, 6-11, che ritengo essere con ogni probabilità pre-paolino e che in quanto tale può essere considerato "il più antico esempio di una composizione innica cristiana", anche se la sua qualifica formale di "inno" verosimilmente non è adeguata. Certo vi manca l'interpretazione soteriologica della morte di Cristo (e proprio questo a mio parere è un indizio pesante sulla pre-paolinità del testo), ma la doppia confessione della sua pre-esistenza e dell'ottenimento di una kyriòtes/signoria da parte del crocifisso, equiparabile solo a quella divina, dà ragione a quanto scrive Martin Hengel: "L'"apoteosi del crocifisso" deve essere giunta a compimento già negli anni Quaranta, onde si ha la tentazione di affermare che nel giro di neanche due decenni il fenomeno cristologico è andato incontro a un processo le cui proporzioni sono maggiori di quelle più tardi raggiunte durante i successivi sette secoli".
Dunque, non si può pensare a Paolo senza includere necessariamente nella formazione della sua identità cristiana il ruolo decisivo svolto da coloro che egli riconosce esplicitamente essere stati in Cristo prima di lui (cfr. Romani 16, 7: hoì kaì prò emoù gègonan en Christòi, a proposito della coppia Andronico e Giunia!).
Altra cosa è poi riconoscere che Paolo non si è limitato a fare il ripetitore e che invece ha elaborato l'evangelo primitivo con una propria ermeneutica, che dimostra indubbiamente l'apporto di una personale genialità.
In effetti, come ebbe a scrivere a suo tempo Albert Schweitzer, "Paolo ha assicurato per sempre nel cristianesimo il diritto di pensare (...). Egli non è un rivoluzionario. Parte dalla fede della comunità, ma non ammette di doversi fermare dove quella finisce (...) Egli fonda per sempre la fiducia che la fede non ha nulla da temere dal pensiero (...) Paolo è il santo protettore del pensiero nel cristianesimo"! Forse senza saperlo, con queste parole Schweitzer di fatto riformulava, applicandolo a Paolo, ciò che già aveva affermato Agostino in termini più generali: "Se la fede non viene pensata, è come se non ci fosse".
Ma non credo che questo basti per fare dell'Apostolo un altro fondatore del cristianesimo, altrimenti chissà quanti ne dovremmo calcolare!



(©L'Osservatore Romano - 7 settembre 2008)

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