mercoledì 3 settembre 2008

Michael Novak ricorda il fratello sacerdote ucciso in Pakistan a metà degli anni Sessanta

Da Richard a scuola di felicità


di Silvia Guidi

"Non sono un amante pigro, non amo le brevi frasi a effetto che conquistano la gente. Perché le parole passano ma l'amore rimane". Michael Novak, politologo e teologo americano, ex ambasciatore presso la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite, ricorda suo fratello Richard, sacerdote morto a Dacca (allora in Bangladesh, oggi nella parte orientale del Pakistan) più di quaranta anni fa, frugando tra le sue carte, cercando tra le sue lettere, scegliendo tra i suoi appunti ciò che è meno legato all'occasione, alla vita familiare o alla confidenza episodica, per mostrarci il nocciolo della questione, come direbbe Graham Greene, la chiave di volta di una vita completamente data, completamente riconsegnata a Chi fa tutte le cose e, proprio per questo, e vissuta fino in fondo con un'intensità difficile da spiegare con le categorie "normali" dell'argomentazione.
A Novak non interessa solo ricordare suo fratello, disegnare un ritratto a tinte quanto più possibile fresche e vive di un uomo prima visto da vicino, nei giochi e nelle risate dell'infanzia, nelle dure e interminabili discussioni dell'adolescenza e poi da lontano, nei suoi lunghi soggiorni all'estero o nei periodi di silenzio in cui si rifugiava per sfuggire alla curiosità un po' pettegola dei fratelli; l'inchiesta su Father Rich è anche un'occasione per capire cosa significa davvero essere felici, o meglio, sperimentare una stabile e progressiva approssimazione alla felicità. Un tema che ha sempre appassionato il teologo americano, e che torna periodicamente nei suoi scritti. Cosa significa essere felici non nelle astratte speculazioni dei filosofi o nei modelli statistico-quantitativi della sociologia o della macro-economia, ma operativamente, in una vita quotidiana fatta di abitudini, percorsi obbligati, circostanze inevitabili, regali e dolori imprevisti, doveri, affetti, illusioni, disillusioni, piccoli, provvisori successi e piccoli o grandi fallimenti. "La felicità non è un'emozione, non è un sentimento" scrive Michael Novak, "è una pratica, la pratica dell'eccellenza nell'azione. La gente davvero capace negli affari (come in altre attività impegnative) la gusta spesso". Il lavoro non è solo fatica, noia e la maledizione biblica del sudore della fronte, ma anche un'opportunità unica per scoprire se stessi e fare esperienza di cosa significa essere liberi; "Dire "il lavoro rende liberi" suona grottesco dopo Auschwitz, ma l'esperienza dimostra che è davvero così".
Un'idea che Michael Novak ha visto in azione, messa in pratica da suo fratello Richard prima e dopo l'ordinazione sacerdotale. Per anni tutti e due hanno studiato insieme nello stesso seminario, poi le loro strade si sono divise: per Michael il matrimonio e un futuro da saggista e scrittore, per Rich la missione, prima nel profondo sud degli Stati Uniti, poi in Pakistan. "Non sono un amante pigro. Lo slancio del momento non misura il potenziale dell'anima, quello che conta davvero è il rischio della fedeltà, pietra d'angolo, fondamenta saldate nel cemento" scrive il giovane seminarista Dick Novak in una delle poesie pubblicate da Collegium, la rivista dei Padri della Santa Croce.
"Gli occhi riconoscono la bellezza attraverso lo sguardo e il sorriso, ma la legge di chi ama è tagliare come un coltello, attraversare il fastidio e la fatica; e al fondo di ogni cosa sboccia e si nasconde un'intensità imprevista, una misura stracolma di bellezza. Ogni giorno, è solo questo che fa diventare la vita un canto, un paesaggio vasto, caldo e tranquillo come una giornata di luglio. La sabbia sotto di me e le stelle nel cielo non mi lasciano tranquillo, sono una domanda aperta e mi spingono ad andare. Non sono un amante pigro, fai come me, vieni a vedere e impara a gustare tutto".
"Quando penso a Rich mi viene in mente il calice d'argento della sua prima messa: solido, onesto, tradizionale e semplice come lui" racconta Novak. "L'aveva visto in un museo e gli era piaciuto molto; faceva parte di un apparato di arredi sacri del decimo secolo. Quando stavamo decidendo cosa regalargli ce ne siamo ricordati e abbiamo chiesto a un orefice di copiarlo. Impossibile dimenticare quel giorno: il pavimento decorato in grigio e azzurro della chiesa, i canti del coro, le zie e le vicine di casa in chiassosi vestiti a fiori, le navate affollate di amici e parenti, le ostie consacrate finite sul tappeto ai piedi dell'altare per l'emozione del celebrante (Rich aveva la sua classica espressione tranquilla ma gli tremavano le mani) e subito, dopo un attimo di panico, rapidamente raccolte dai chierichetti accanto a lui, il sorriso fiero Ben e Jim, la parte anticlericale della famiglia che per nessun altro motivo avrebbe messo piede nella chiesa vicino a casa, Nostra Madre dei dolori a Johnstown". Più difficile è ricordare i giorni dell'angoscia, e quel giorno di gennaio del '64 in cui Rich è partito in bicicletta dal College di Nostra Signora a Dacca per non tornare mai più. "Il 16 gennaio 1964 la giornata era fresca e limpida come una mattina di giugno in Minnesota, il cielo vasto e profondo. Dick indossava un cassock bianco, una giacca leggera blu, pantaloni lunghi; doveva fare lo slalom tra i convogli della milizia che pattugliavano le strade durante il coprifuoco. In quel periodo violentissimi scontri tra musulmani e hindu avevano insanguinato il Paese, e Richard voleva andare a trovare il padre più anziano; nessuno aveva avuto notizie e si temeva il peggio. Costeggiando il fiume, raggiunse il villaggio di Narayanganj, dove ebbe un breve colloquio con monsignor D'Costa, che lo invitò a tornare a Dacca e non proseguire oltre, perché la zona era diventata troppo pericolosa. Dick ascoltò con attenzione e decise di dare ascolto all'anziano prelato. Ma da quel momento nessuno l'ha più visto". La notizia della scomparsa getta nella disperazione tutta la famiglia Novak, tranne i genitori. Michel spiega perché: "Dopo una breve vacanza con la famiglia a Johnstown, Rich chiese un passaggio a mio padre e a suo fratello Jim fino a Washington, dove avrebbe preso l'aereo per il Pakistan. Al ritorno mio padre fermò la macchina sul ciglio della strada e iniziò a piangere. "Non lo vedrò mai più, ne sono certo. Non tornerà mai più a casa" rispose a Jim che gli chiedeva che cosa stava succedendo. Non era la prima volta che le sue premonizioni si rivelavano attendibili. Gli era successo un'altra volta nel 1943, quando il suo migliore amico Mickey Yuhas partì per il fronte. A metà giugno il suo battaglione fu spostato in Francia; saputo questo, mio padre fu preso da una profonda tristezza ed ebbe la certezza che Mick non sarebbe tornato. Raccontò l'episodio a mia madre, senza farne parola a nessun altro, sperando fino all'ultimo di essere smentito; ma Mick morì ai primi di dicembre del '44 nella battaglia di Bulge. Il corpo di Richard non è mai stato trovato; probabilmente è stato aggredito da una banda di ragazzi che l'hanno ucciso per rubargli la bicicletta e l'orologio. Dopo quarant'anni la gente del posto ancora si ricorda di lui".



(©L'Osservatore Romano - 4 settembre 2008)

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