Il mistero di una madre
che allatta il suo Creatore
"Era molto importante che Dio donasse al mondo questo segno: la Vergine che partorisce, la donna senza uomo: ella, che ha aspettato tutto da Dio e ha dato tutto a Dio, ha ricevuto tutto da lui; così può presentare al mondo il bambino re e salvatore, Dio stesso che viene a cercare il suo popolo". Così Georgette Blacquère, saggista francese, nella sua opera La grâce d'être femme, esaltava la maternità verginale di Maria. E a lei faceva eco un noto teologo suo connazionale, Gustave Martelet, che affermava: "Se Gesù risultasse dall'amore di Giuseppe e di Maria, per quanto grande e santificato fosse questo amore, il futuro sarebbe stato unicamente umano (...) Gesù sarebbe reso figlio da Dio solo per adozione (...) In nessun modo saremmo davanti al mistero che la Scrittura rivela e la fede confessa: quello del Figlio effettivo di Dio fatto uomo con l'Incarnazione".
In pratica si cadrebbe in un'eresia già attestata nell'antichità, quella dell'adozionismo: Cristo sarebbe, sì, nostro fratello, ma con tutti i limiti della nostra realtà, senza la possibilità di trascendere e salvare la nostra condizione. Sarebbe un figlio tra i figli adottivi di Dio, sia pure con un rilievo maggiore.
Sul tema di Maria vergine incinta abbiamo già proposto una precedente riflessione. Ora vorremmo soffermarci su un aspetto apparentemente molto marginale che però ha lasciato una traccia suggestiva nella storia dell'arte e della pietà popolare cristiana: Maria madre che allatta il suo Bambino. Noi ci fermeremo solo sul versante esegetico-teologico, partendo da una "beatitudine" evangelica che sboccia dall'ammirazione di una donna presente nell'uditorio di Gesù. Racconta l'evangelista Luca: "Una donna alzò la voce in mezzo alla folla e disse: Beato il ventre che ti ha partorito e il seno da cui sei stato allattato!" (11, 27).
Luca non usa il termine greco tipico per indicare il latte, gàla, ma ricorre a un verbo squisitamente "femminile", ethèlasas, da thelàzein, "allattare", che è generato da thèlys, "donna, femmina". Il verbo risuona quattro altre volte nel Nuovo Testamento. Fa capolino nell'acclamazione della domenica delle Palme, allorché - sulla base di una citazione del salmo 8, 3 - Gesù stesso accoglie gli "osanna" dei fanciulli, ricordando appunto che "dalla bocca dei bambini e dei lattanti (thelazònton)", Dio si procura la lode più cara (Matteo, 21, 16). Le altre tre presenze del vocabolo sono parallele e identiche nei tre evangelisti sinottici e sono segnate da un fremito apocalittico: nel giorno del giudizio finale sulla storia, "guai alle donne incinte e a quelle che allatteranno (thelazoùsais) in quei giorni!" (Matteo, 24, 19; Marco, 13, 17; Luca, 21, 23).
A questo punto vorremmo idealmente ripercorrere a ritroso la storia biblica di una realtà fisiologica divenuta ben presto un emblema e che potrebbe essere esaminata - come per altro è stato fatto - nell'iconografia mariana. Il latte, in ebraico halab (in arabo leben, "bianco"), produce infatti quasi un filo bianco e dolce che percorre molte pagine anticotestamentarie, legate soprattutto al modello sociale nomadico. Non per nulla il segno più affettuoso dell'ospitalità è nel mondo beduino offrire una tazza di latte fresco, come fa Abramo in quel caldo pomeriggio agli ospiti misteriosi che s'affacciano alla sua tenda sotto le querce di Mamre (Genesi, 18, 8). Attorno al latte si svilupperanno anche tradizioni gastronomiche folcloriche, come quella che darà origine indirettamente alla norma kasher che vieta all'ebreo una dieta che mescoli carne e latticini. Nel libro dell'Esodo si legge, infatti, questa prescrizione: "Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre" (23, 19; il divieto è reiterato in Esodo, 34, 26 e Deuteronomio, 14, 21). Più che a motivi umanitari, come spesso si dice, la proibizione era vincolata al fatto che tale ricetta era in uso presso i cananei, gli indigeni della Terrasanta, nei cui confronti Israele voleva prendere le distanze onde evitare il rischio di sincretismo.
Ma ben presto il latte si trasfigura in simbolo. Incarna, col miele, la rappresentazione della fecondità, della libertà e del benessere, come è attestato da quella celebre formula stereotipata applicata alla terra promessa, "terra ove scorre latte e miele", formula che risuona nell'Antico Testamento almeno una ventina di volte, a partire da Esodo, 3, 8. Il latte è, poi, il segno ovvio del candore: il capo-tribù Giuda, secondo le parole della benedizione del patriarca Giacobbe, ha "i denti bianchi come latte" (Genesi, 49, 12), così come quelli dell'amato del Cantico dei cantici sono "denti bagnati nel latte" (5, 12), mentre la pelle dei giovani di Gerusalemme è "più candida del latte" (Lamentazioni, 4, 7). Questa caratteristica - in un panorama assolato che produce pelli abbronzate - è un indizio di bellezza e di originalità. Il latte è anche evocazione di dolcezza, come si dice riguardo alle parole e ai baci della donna del Cantico, che ha "miele e latte sotto la sua bocca" (4, 11) e il suo amato baciandola dichiara di "suggerne il latte" (5, 1).
Il latte diventa, poi, simbolo dell'era messianica quando l'umanità sarà invitata ad accorrere a dissetarsi con acqua, vino e latte "senza spesa", in un dono che ha al centro i prodotti tipici dell'area mediterranea (Isaia, 55, 1). E alla fine, ecco apparire, solenne e matronale, la personificazione di Gerusalemme come "metro-poli", la città-madre che ha il seno turgido e generoso: "Voi succhierete al suo petto, succhierete deliziandovi all'abbondanza del suo seno" (Isaia, 66, 11). Il latte è, quindi, una componente dell'esistenza che viene assurto a simbolo di benessere, di bellezza, di amore, di speranza e di pienezza. Ed è su questa scia che il latte si affaccia con un suo rivolo anche nel Nuovo Testamento, riproponendosi secondo nuovi profili metaforici.
Abbiamo fatto notare che nel suo grido esclamativo rivolto a Gesù la donna non aveva usato il termine greco gàla, "latte". Questo vocabolo, però, echeggia cinque volte nel Nuovo Testamento e, curiosamente, è solo in un caso che conserva il suo valore di base, realistico e fisiologico. È, infatti, soltanto san Paolo a domandarsi retoricamente: "Chi fa pascolare un gregge senza cibarsi del latte del gregge?" (1 Corinzi, 9, 7). Ma in quella stessa lettera indirizzata ai cristiani di Corinto si assiste subito a un trapasso allegorico, sorprendentemente negativo, sulla base di un'applicazione metaforica che era nota anche al filosofo giudaico Filone di Alessandria e a Epitteto. Il latte diventa, dunque, il cibo degli immaturi, di coloro che sono ancora "carnali", incapaci di un alimento più ricco e raffinato, proprio come accade ai Corinzi "neonati" nella fede e imperfetti nella loro vita spirituale: "Vi ho dato da bere latte - osserva l'Apostolo - non un nutrimento solido perché non ne eravate capaci" (3, 1-2).
Analoga è l'applicazione che ritroviamo in quella grandiosa omelia o trattato teologico che è la Lettera agli Ebrei ove l'autore si rivolge ai suoi interlocutori con queste parole esplicite: "Siete diventati bisognosi di latte e non di cibo solido: chi si nutre ancora di latte è ignaro della dottrina della giustizia perché è ancora un bambino. Il nutrimento solido è, infatti, per gli uomini maturi" (5, 12-14). Siamo, quindi, in presenza di un'inversione di tendenza, destinata a trasformare questo cibo in un'immagine di limite, di imperfezione, di "infantilismo". Tuttavia, proprio sulla stessa base simbolica, san Pietro, nella sua prima lettera, ribalterà il significato e, introducendo il tema della nascita battesimale come evento capitale nell'esperienza cristiana, inviterà i neo-battezzati, "come bambini appena nati, a bramare il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza" (2, 2). Le dottrine dei misteri e della gnosi pagana esaltavano il cibo "pneumatico", ossia spirituale, di cui i loro adepti si nutrivano; Pietro, in contrappunto, celebra invece il latte della parola di Cristo e della salvezza che è offerta ai battezzati: per lui è questo il vero cibo spirituale.
È in questa luce che l'antica arte cristiana catacombale - ad esempio, la cappella di San Pietro nella catacomba romana ad duas lauros, nella ii metà del iii secolo - e quella dei sarcofagi hanno raffigurato Cristo buon pastore che regge tra le mani o depone ai suoi piedi una coppa di latte, destinata al gregge dei fedeli. Ormai il latte si era trasfigurato in un emblema della beatitudine perfetta della vita eterna riservata al cristiano. È a questo punto che ha avvio la successiva tradizione cristiana che, però, abbandonerà la simbologia biblica finora delineata e punterà verso l'immagine centrale della Natività di Cristo, evocata indirettamente dalle parole di quella donna. Si apre, così, un itinerario simbolico e storico che non è nostra intenzione ora percorrere, ma che è già stato perlustrato soprattutto nel suo profilo iconografico.
Certo, una madre che allatta il suo piccolo è un'immagine che appartiene a tutte le culture, soprattutto come simbolo di fecondità. Non per nulla il latte è associato spesso alla luna e alla sua luce "lattiginosa", ma anche alla sua capacità notturna di fertilità. La cosmogonia hindù suppone che la creazione avvenga attraverso la solidificazione - con la zangola cosmica del dio creatore - del mare di latte primordiale. Subentreranno, poi, altre accezioni nella tradizione occidentale: si pensi solo all'iconografia delle due madri antitetiche, quella buona e giusta che allatta creature sante e quella perversa che allatta serpi velenose. Oppure alle curiose raffigurazioni su cui san Bernardo da Chiaravalle riceve da Maria il latte - come, nella mitologia, Eracle da Era - per evocare un segno di adozione filiale da parte della Madre del Signore e forse anche per succhiare un nutrimento di immortalità.
L'elemento radicale e generativo rimane, comunque, il "latte di Maria", espressione di una "sacralità umanizzata" e di un'umanità santificata. Non bisogna ignorare, infatti, che in particolare nell'arte della miniatura (i Libri d'Ore) non si aveva nessun imbarazzo nel rappresentare Maria in evidente stato di gravidanza: talora Elisabetta, anch'essa incinta del Battista, non esitava a toccare il ventre di Maria durante la celebre scena della Visitazione, quasi per sentire i movimenti del piccolo Gesù in gestazione, mentre una sorta di fumetto citava le parole del Vangelo di Luca: "Benedetta tu tra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!" (1, 42). La Chiesa etiopica usa ancor oggi nella liturgia un genere di inni detto malkee (effigie) nel quale si esaltano le parti del corpo di Maria, arrivando a descrivere fino a cinquantadue organi e benedicendo soprattutto il seno che ha allattato e il grembo che ha generato il Signore.
A Betlemme, a destra di chi ammira il grandioso complesso della Basilica della Natività e gli annessi conventi greco e armeno, si apre una via che in inglese ha un nome significativo, Milk Grotto Road. Essa ha sul suo lato destro una chiesa francescana recentemente riedificata secondo un nuovo progetto disegnato dall'architetto e artista francescano Costantino Ruggeri, scomparso nel giugno 2007. Essa è unita a una grotta in tufo bianco, denominata appunto "la Grotta del latte". Secondo un'antica leggenda la madre di Gesù si sarebbe qui rifugiata durante la ricerca dei bambini betlemiti da parte di Erode e, mentre allattava il piccolo Gesù, qualche goccia del suo latte cadde sulla pietra imbiancandola tutta. La grotta attuale - che all'epoca dei crociati aveva accanto un convento latino che era considerato come fondato da Paola, la discepola di san Girolamo - è stata ed è ancor oggi meta di pellegrinaggi di madri anche musulmane che implorano da Maria l'abbondanza del latte per nutrire i neonati. Le stesse reliquie del latte di Maria, diffuse in Italia, Francia e Spagna, nascevano probabilmente dalla devozione di pellegrini in Terrasanta che portavano in Europa questa tradizione e forse qualche frammento di quel tufo biancastro. Dal vii secolo si diffuse poi la tradizione che proprio nella grotta del latte fossero stati sepolti i santi Innocenti, assassinati da Erode.
Certo è che il canto alla figura di Maria che allatta il Salvatore, versando latte su quelle labbra che poi riceveranno fiele sulla croce, come esclama Romano il Melode (vi secolo), si diffonderà nei primi secoli cristiani, nella convinzione che quelle "mammelle hanno nutrito col loro latte Dio", come dirà nell'viii secolo Giovanni Damasceno. Clemente Alessandrino nel suo Pedagogo (i, 6) nel ii secolo stabilirà già un parallelo tra la Vergine Madre che allatta Gesù e la Chiesa che allatta e nutre i fedeli con "santo latte" della parola e del corpo di Cristo. E questo filo poetico e spirituale procederà nei secoli patristici con intensità e passione, come testimonia ad esempio un discorso del v secolo di Fausto, vescovo di Riez in Gallia, che vogliamo idealmente porre a suggello di questa nostra breve analisi tematica: "O Maria, allatta il tuo Creatore! Allatta il pane del cielo, il riscatto del mondo: offri la mammella a lui che la succhia (...) Il piccolo bambino si nutra con il latte del tuo seno".
(©L'Osservatore Romano - 1 gennaio 2009)
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