giovedì 8 gennaio 2009

Da OR - Rilettura del «Diario di un curato di campagna» di Georges Bernanos


La solitudine dell'apostolo


Si è svolto a Imperia Porto Maurizio un convegno sul tema "... e la "Parola" si fece film". Pubblichiamo quasi per intero uno degli interventi.

di Enrico dal Covolo

Mi è stato chiesto di illustrare il tema teologico della solitudine dell'apostolo nel Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos (1936), trascorrendo attraverso tre personaggi: Gesù Cristo, Paolo di Tarso e il curato di Ambricourt, al quale Bernanos non ha "osato" dare un nome. In realtà la solitudine di Gesù e quella di Paolo le evocheremo appena, in forma di introduzione.
Il tema della solitudine di Cristo - che scorre carsicamente lungo i quattro Vangeli - raggiunge il suo acme nel racconto della Passione, soprattutto nel Vangelo più antico e più breve, quello di Marco. Sono due le scene che qui interessano in modo speciale, quella del Getsemani (14, 32-42) e quella della morte in croce (15, 33-39). In tutt'e due le scene Gesù è drammaticamente solo, fino al suo ultimo grido: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Marco 15, 34).
Eppure - nella più profonda afflizione dello spirito e nel silenzio "scandaloso" del Padre - Gesù continua a esprimere la certezza di essere Figlio, mentre il Padre rivela, misteriosamente, il suo volto paterno. "Abbà, Padre mio!": così, con il più tenero affetto, si rivolge a lui Gesù, proprio nel momento supremo della sua solitudine (Marco 14, 36).
Che cosa vuol dire tutto questo? Significa che l'apostolo non raggiunge il vero volto di Dio senza passare attraverso l'agonia del proprio intimo. (...) Nell'agonia del Getsemani, come sulla croce del Golgota, Gesù racconta al Padre la propria intima lacerazione, come sempre fanno i grandi uomini di Dio. E nel silenzio sconcertante di quel Dio, si staglia nel cuore dell'apostolo il volto del Padre.
Anche nell'epistolario paolino la solitudine dell'apostolo è sottolineata molte volte. Ma questo tema diventa più esplicito nella confessione amara di Paolo durante la sua prima prigionia a Roma, intorno all'anno 63: "Tutti mi hanno abbandonato", scrive Paolo a Timoteo (2 Timoteo 4, 16), uno dei principali episcopi della seconda generazione cristiana. (...) Quello dell'apostolo è un donarsi ostinato. Abbandonato e tradito "da", egli muore "per". Quella dell'apostolo è una solidarietà universale, nonostante l'incomprensione e il rifiuto dei suoi. Il vino della cena deve essere bevuto, il medesimo pane deve essere mangiato, lungo i secoli.
È stato osservato che tutto il cammino del curato di Ambricourt ripercorre una "imitazione di Cristo", spesso particolarmente evidente, altre volte più nascosta e simbolica, ma che in ogni caso va considerata come la "struttura profonda" delle confessioni del curato. (...) Se il cammino umano di Gesù è un cammino che culmina nella croce, quello del curato è segnato dal medesimo silenzio e dalla stessa notte.
Questo silenzio tenebroso, drammatico, è uno dei temi preferiti di Bernanos. È il tema del silenzio di Dio. "Ho scritto questo in una grande e piena angoscia del cuore e dei sensi. Tumulto d'idee, d'immagini, di parole. L'anima tace. Dio tace. Silenzio", confessa ad esempio il curato, in fondo a una pagina del suo diario: le righe sono cancellate parecchie volte, ma ancora decifrabili, annota Bernanos. (...) Anche qui, come abbiamo fatto già con il racconto della Passione secondo Marco, propongo di osservare soprattutto due scene.
La prima scena si riferisce al singolare incontro del curato con Serafita, una delle bambine del catechismo parrocchiale, nella quale lo spirito dell'infanzia si alterna con la malizia del mondo. Il curato rinviene faticosamente, nel buio della notte, al bordo di un campo bagnato dalla pioggia. Ha avuto una terribile emorragia. "Avete vomitato", gli spiega Serafita che l'ha scoperto per caso, mentre pascolava le mucche. "Avete la faccia impiastricciata, come se aveste mangiato delle more". E "mentre parlava", scrive il curato, la ragazzina mi passava uno straccio bagnato "sulla fronte, sulle guance. L'acqua fresca mi faceva bene. Mi sono alzato, ma tremavo sempre forte. Alfine quel brivido è cessato. La mia piccola Samaritana alzava la sua lanterna all'altezza del mio mento: per meglio giudicare il suo lavoro, suppongo".
Chi non legge, nella filigrana di questo racconto, un'immagine tanto cara alla tradizione cristiana, l'immagine della Veronica che deterge il volto insanguinato e sofferente di Gesù? Siamo nel cuore della via crucis, quella di Gesù, come quella del curato di Ambricourt. L'imitatio Christi è palese. La solitudine scandalosa del condannato a morte è consolata dal gesto misericordioso di una donna. Intanto, il cammino della croce continua.
La seconda scena è quella conclusiva. Narra l'agonia e la morte del curato, un po' a immagine dell'agonia di Gesù. Siamo nell'ultima pagina del romanzo, scritta in corsivo. Il diario è ormai finito, e chi scrive è un ex-prete. Nella sua casa, a Lilla, il curato di Ambricourt si è rifugiato per trascorrere la notte, dopo aver appreso la propria condanna a morte: un medico morfinomane gli ha appena svelato, brutalmente, lo stadio irreversibile del suo tumore. "Verso le quattro - annota l'ex-prete - non potendo dormire, sono andato discretamente sino alla sua camera, e ho trovato il mio disgraziato compagno steso a terra senza conoscenza. (...) Mentre aspettavo il medico, il nostro amico ha ripreso conoscenza; ma non parlava. Frequenti gocce di sudore gli colavano dalla fronte e dalle guance, e il suo sguardo, appena visibile tra le palpebre semiaperte, sembrava esprimere una grande angoscia. (...) Poiché il prete si faceva aspettare, ho creduto di dover esprimere al mio sfortunato compagno il dispiacere che mi dava un ritardo, che rischiava di privarlo delle consolazioni che la Chiesa riserva ai moribondi. Non sembrò intendermi. Ma, qualche momento dopo, la sua mano si è posata sulla mia, mentre il suo sguardo mi faceva chiaramente segno di avvicinare l'orecchio alla sua bocca. Ha pronunciato allora distintamente, benché con estrema lentezza, queste parole, che sono certo di riferire esattissimamente: "Che cosa importa? Tutto è grazia". Credo che sia morto quasi subito dopo".
Come è noto, sono queste le parole che chiudono il romanzo. Una conclusione di grande effetto, senza dubbio. Una conclusione che riporta al centro i due grandi temi che qui interessano: la solitudine dell'apostolo e l'imitazione di Cristo.
Attraverso una serie "imperdonabile" di insuccessi umani - la gente rimane diffidente, i bambini del catechismo si prendono gioco di lui, il suo nutrirsi solo di pane e vino lo fa ritenere un alcoolizzato, il conte lo disprezza e sua figlia lo odia, la gestione economica della parrocchia e della casa parrocchiale è disastrosa, il "piano pastorale" non riesce a decollare - il "piccolo" curato giunge alla totale spoliazione di sé, che gli consente una trasparenza assoluta nell'esercizio dell'apostolato.
Egli riesce addirittura a liberare la contessa dalla disperazione, in cui l'ha rinchiusa la morte del figlio: un autentico miracolo.
La solitudine dell'agonia e la radicale spoliazione dell'apostolo - sia egli Gesù di Nazaret o Paolo di Tarso, oppure il curato di Ambricourt - sono in definitiva la paradossale garanzia della vittoria dell'amore sopra la morte. E davvero, in questa prospettiva, che cosa importa ancora? "Tutto è grazia!".
Chi ha trattato con maggiore profondità e ampiezza il tema teologico della solitudine dell'apostolo, con specifico riferimento all'opera letteraria di Georges Bernanos, è uno dei più grandi teologi del secolo ventesimo. Alludo manifestamente a Hans Urs von Balthasar e alla sua poderosa monografia, intitolata Il cristiano Bernanos.
In un paio di passaggi del quinto capitolo, nella seconda parte del libro, von Balthasar descrive l'agonia finale dell'apostolo come "centro stesso della vita". "Il Vangelo - commenta il teologo svizzero, tenendo sempre sullo sfondo l'agonia del Getsemani - ha insegnato a Bernanos che la povertà dello spirito, la spoliazione radicale e la debolezza (...) fanno un tutt'uno con la beatitudine, quella delle braccia spalancate".
Ritornano così - significativamente intrecciati fra loro, e sempre nella contemplazione di Cristo - i grandi temi della passione e della croce, dell'angoscioso silenzio di Dio, dell'abbandono e della solitudine dell'apostolo.
In questa stessa agonia si colloca la comunione dei santi. Come spiega von Balthasar, "affinché si realizzi la comunione dei santi bisogna che ogni membro del corpo mistico doni il suo essere totale - e radicalmente spogliato -, perché divenga parte di un tutto; bisogna che egli si lasci colpire da quelle ferite, che sole permettono la circolazione del sangue attraverso il corpo intero. Ma dopo il Giardino degli Ulivi, questa ferita ha preso la forma dell'agonia, dell'essere che viene meno nell'angoscia. Il carattere gratuito dell'amore si manifesta nella sofferenza sotto forma di inutilità: "Mi sembra", dice il curato di campagna, "che la mia vita, tutte le forze della mia vita, vadano a perdersi nella sabbia". E finalmente, di fronte alla morte: "Piangevo con gli occhi spalancati, piangevo come ho visto piangere i moribondi: era ancora la vita che usciva da me"".
Siamo di fronte al mistero cruciale della "solitudine dell'innocente nel mondo del peccato": quel mistero, per cui il parroco di Torcy - il confidente, o meglio il "direttore spirituale" del curato di campagna - giunge a parlare "della "solitudine sorprendente" e della "tristezza verginale" di Colei che "era l'innocenza", la Madre di Dio, "nata senza peccato"".
Ancora una volta, la solitudine dell'apostolo è consacrata come via di salvezza.



(©L'Osservatore Romano - 7-8 gennaio 2009)

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