venerdì 17 aprile 2009

Sul ring metafisico del Grande Nord

Jack London e la sfida dell'uomo alle forze primordiali della natura

Pubblichiamo un estratto dall'ultimo quaderno "La Civiltà Cattolica" in uscita in questi giorni.

di Antonio Spadaro

La biografia di Jack London (1876-1916) è complessa, eppure nella molteplicità delle avventure di terra e di mare, negli alti e bassi affettivi e ideologici, vibra la stessa personalità, insieme riflessiva e avventurosa, che ama immergersi nella lettura e nella scrittura così come esporsi a imprese che richiedono forza di muscoli e di volontà. La sua scrittura e la sua vita sono parte della medesima avventura. Non sappiamo esattamente come nacque la sua vocazione letteraria, certo è che ebbe a che fare con la voglia di conquistarsi uno spazio vitale, sin dagli anni della sua infanzia, per difendere il quale il piccolo London era disposto a venire alle mani. E subito la sua prima piccola avventura, la caccia alle foche del 1893, divenne un racconto.
Da quel momento in poi ogni esperienza di vita diventò materia dei suoi racconti: la realtà è più grande della pura fantasia astratta.
La prima seria avventura che ispirò London fu quella che lo condusse nel Klondike alla ricerca dell'oro. Un vero e proprio viaggio iniziatico alla ricerca di qualcosa che sembra una metafora del significato dell'esistenza, qualcosa per la quale abbia senso essere in vita. Questa ricerca non può che essere vissuta a contatto con la wilderness, con una natura selvaggia che mette l'uomo alle corde, privo del riparo della vita agiata o protetta.
Il pensiero di Darwin, che a London giunge attraverso l'acerbo e militante entusiasmo per il filosofo Herbert Spencer, lo conduce alla visione esasperata di una lotta per la sopravvivenza dove vince sempre il migliore, il più adatto alla vita, il fittest, che alla fine è il cane. A questa ideologia si unisce l'idea nietzschiana del superuomo divenuta all'epoca moda, abbinata all'immagine dell'uomo di successo e del self-made man. L'eruzione vitalistica, muscolare, essenzialmente virile, nutre l'immaginario del giovane London, che è sempre alla ricerca di una vita vissuta fino in fondo in pienezza, anche se in forme parossistiche.
Il "Grande Nord" è stato per London una fucina di ispirazione. Oltre ai due romanzi [Il richiamo della foresta e Zanna Bianca] molte altre pagine ci parlano di cani, lupi, distese di ghiaccio, corsa all'oro. È come se la carta geografica della Gold Rush delimitasse il territorio di un ring metafisico ed esistenziale, dove i personaggi - siano essi uomini o animali, ma persino elementi della natura - pur rimanendo pienamente reali e concreti, diventano posizioni dello spirito, portatori delle tensioni fondamentali e primigenie della natura umana.
Un racconto come, ad esempio, Love of Life (L'amore per la vita) rappresenta drammaticamente il confronto tra l'uomo solo e ferito con l'immensità di una distesa di ghiaccio. Il protagonista cammina con il suo compagno Bill. Sono entrambi deboli e stanchi, col loro carico di masserizie e d'oro sulle spalle. L'uomo si sloga una caviglia e chiede aiuto all'altro che invece se ne va per la sua strada. Davanti all'uomo ferito resta l'immensità della "paurosa e terribile desolazione" pronta a schiacciarlo. Comincia a tremare ma non si ferma né si lascia vincere dal pensiero dell'abbandono. Si convince che Bill lo avrebbe atteso più avanti: "Era costretto ad aggrapparsi a questa convinzione, altrimenti non avrebbe avuto senso tutta quella fatica, e si sarebbe lasciato cadere per morire". Se l'uomo perde la "compagnia" si lascia morire. E il racconto prosegue in un'atmosfera di sospensione e solitudine tra i morsi della fame e gli espedienti per sopravvivere ai lupi: "I loro ululati vagavano avanti e indietro per quella desolazione, tessendo nell'aria un velo di minaccia così tangibile che si trovò con le braccia tese nell'aria per fendere questa minaccia e ricacciarla indietro, come le pareti di una tenda sbattuta dal vento". Such was life, eh? Questa era la vita?, si chiede.
Nel suo tragitto l'uomo incrocia le tracce di un altro uomo. Poi vede un mucchio di ossa. Era ciò che era rimasto di Bill dopo il passaggio dei lupi. L'uomo prosegue come un fantasma, guidato dalla visione, a chilometri di distanza, del mare e di una nave che assume i tratti di un miraggio irraggiungibile. L'ultimo atto sarà la lotta con un lupo, stremato tanto quanto l'uomo: una lotta estrema, lenta, affannata di due corpi senza più energie. L'uomo l'avrà vinta ma senza alcun trionfo. E sarà salvato dai marinai della nave Bedford che lo aiuteranno a riprendere fiducia nella vita.
Ciò che colpisce, fra l'altro, in "L'amore per la vita" è la proiezione di un dramma in un contesto che amplifica il senso di attesa e di sospensione. Il racconto si tende all'estremo in attesa di un compimento che sembra un miraggio. E questo caratterizza altri racconti di London. Pensiamo, ad esempio, a The Sun-dog Track (La pista del sole), dove i personaggi compiono un viaggio faticoso ed estenuante senza che il lettore ne capisca il senso e il motivo, se non nelle battute finali, dove accade un omicidio, che però resta appeso a se stesso, privo di spiegazioni.
Ma accanto a questi racconti dal sapore "metafisico" ve ne sono altri che rappresentano vivaci casi umani, spesso aperti a domande rilevanti, a casi di coscienza. Così nel racconto The Priestly Prerogative (Il privilegio del sacerdote), dove protagonista è un gesuita, padre Roubeau. London deve aver preso spunto dalla figura di William Judge, un gesuita chiamato "il santo di Dawson", che forniva rifugio e cure ai cercatori d'oro nel Klondike, il quale probabilmente gli salvò la vita quando venne colpito dallo scorbuto.
Ma ancor di più il racconto The God of His Fathers (Il Dio dei suoi padri), che mette in scena il confronto tra due uomini: Baptiste the Red, figlio di un gentleman inglese e della figlia di un capo indiano, e Hay Stockard, uno yankee in cerca d'oro e di fortuna.
Il dialogo tra i due verte sulla religione. Il capo meticcio esprime tutto il suo rancore nei confronti della Chiesa e contro il Dio degli uomini bianchi, che la sua esperienza, segnata da discriminazioni, persecuzioni e ostacoli, aveva identificato come malvagio.
Così Baptiste the Red è chiaro: "Per ogni uomo bianco che viene al mio villaggio, che sia chiaro che io lo obbligherò a rinnegare il suo Dio. Tu sei il primo e ti faccio grazia". Ma il giorno dopo ecco arrivare un pastore missionario che manda su tutte le furie Stockard: sapeva che sarebbe stato fonte di guai con il capo meticcio.
"A te, Hay Stockard, bestemmiatore filisteo, i miei saluti. Nel tuo cuore alberga l'ingordigia di Mammona, nella tua mente i diavoli astuti, nella tua tenda questa donna con la quale vivi in stato di adulterio; eppure di tanti peccati diversi, anche qua in questo deserto, io, Sturges Owen, apostolo del Signore, ti offro il perdono e allontano da te ogni iniquità": è questo il saluto del missionario.
Stockard lo conosce e lo spinge ad andar via, ma senza successo: il pastore si dice disposto anche al martirio. Baptiste si infuria e non intende ragioni: se il cercatore d'oro vuole andare libero gli deve consegnare il pastore. Stockard deve fare una scelta, ma "l'etica grossolana del suo cuore" non gli permette lo scambio, nonostante Owen sia per lui soltanto un peso imbarazzante.
Non resta che lo scontro, che svelerà il segreto dei cuori. Owen si dice disposto solamente a due cose: o al miracolo della conversione di Baptiste o a morire martire. Il suo coraggio nasceva dal fanatismo e, con l'imminenza dello scontro, cominciava a vacillare: la debolezza fiaccava i suoi propositi. Stockard era mosso da altro, più elementare, ma solido. In quel frangente, a rischio della vita, si decide a "dare una sistemata" alle sue cose: si fa sposare davanti a Dio con la sua donna e fa battezzare il suo bambino. Segue la battaglia tremenda e selvaggia, favorevole agli indiani. Ma Baptiste è ammirato dal coraggio di Stockard, ferito e irto di frecce, e vuole salvargli la vita: "Ecco un vero uomo! Nega il tuo Dio e avrai salva la vita!", gli urla mentre gli viene condotto il missionario appena scalfito da un graffio al braccio ma in un'estasi di paura. Il missionario rinnega il suo Dio e viene lasciato libero di andare con cibo e canoa. Adesso era il turno di Stockard. "Hai tu un Dio?", gli grida Baptiste. "Sì, il Dio dei miei padri", risponde il cercatore d'oro. "Battista il Rosso diede il segnale, e la lancia sfrecciò colpendolo in pieno petto". Nel racconto la coscienza sembra obbedire a messaggi lontani che vengono "dai padri" e che marcano convinzioni che sono ben più solide di fanatismi posticci. La testimonianza di Stockard fonde insieme la dignità dei propri princìpi e una fede abbracciata in extremis, ma avvertita come un istinto insopprimibile.
Il Novecento ha visto emergere scrittori di grande popolarità, ma di incerta fortuna critica. Jack London è tra coloro che, come Tolkien, pur avendo schiere innumerevoli di lettori non hanno avuto una simile fortuna in ambito critico. Spesso l'ansia di sperimentazione ha fatto apprezzare autori come Joyce, Proust o Beckett per la loro tecnica e non per la loro capacità di leggere ed esprimere le tensioni essenziali della vita. London è stato invece un narratore incostante, ma di razza, lontano da ansie formalistiche e attratto dal gusto di raccontare storie. Persino i concetti in lui alla fine non producono discorsi ma racconti e personaggi. La penna di London è radicalmente narrativa, anche se si nutre di idee, per altro apprese troppo avidamente e passionalmente per essere chiare e distinte. Per questo, in un'epoca che scopre le sue profondità nel labirinto joyciano o della memoria proustiana, o della desolazione eliotiana, l'artigianato letterario di London è apparso volgare e crudo oppure adatto ai più giovani, purché in edizioni ridotte e purgate. Eppure proprio questa crudezza fa delle sue pagine un appassionante "corpo a corpo" e non una palestra di stile. La natura selvaggia diventa il terreno per verificare i significati dell'esistenza: prova e raffina le motivazioni, saggia i cuori, facendo cadere ciò che non ha fondamento. La prima sfida è contro la vita intesa come una cosa ovvia: "È facile vedere l'ovvio, compiere le azioni previste. La tendenza delle vite individuali è statica, piuttosto che dinamica, e questa tendenza è trasformata in impulso dalla civiltà, dove si vede solo l'ovvio, e dove raramente accade l'imprevisto".
London sfida il lettore con l'imprevisto, lo interroga su come abitare il mondo e su come affrontare la vita, cogliendone l'aspetto selvaggio, primordiale. È questa, forse, la più rilevante e impegnativa eredità che London ha lasciato alle generazioni successive.



(©L'Osservatore Romano - 18 aprile 2009)

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