Il 28 aprile presso l'istituto Veritatis Splendor si tiene una conferenza intitolata "La questione del finalismo nei processi della natura". Ne pubblichiamo alcuni stralci.
di Marc Leclerc
Pontificia Università GregorianaSecondo la visione del mondo che regge da quasi due secoli la concezione dominante delle scienze positive, queste costituiscono l'unica conoscenza legittima e verificabile, pur essendosi formate tramite il rifiuto sistematico di ogni causalità finale. Per il Circolo di Vienna, il ruolo della filosofia si limita praticamente a "eliminare le scorie metafisiche e teologiche accumulate da millenni" - secondo l'espressione del Manifesto del 1929 - per purificarne e liberarne le scienze sperimentali e consentire loro di raggiungere la piena maturità, nella perfetta autosufficienza.
Liberare l'uomo dall'illusione delle cause finali diviene un obiettivo essenziale dei neopositivisti. La natura è perfettamente obiettiva e può essere conosciuta a posteriori tramite esperimenti controllabili, con l'aiuto della logica e della matematica, prettamente analitiche e quindi "tautologiche", secondo questa epistemologia.
I tre aspetti indissociabili che costituiscono il postulato fondamentale della "concezione scientifica del mondo" sono l'esclusione sistematica di ogni finalità naturale che accompagna la struttura puramente obiettiva del metodo scientifico e dalla riduzione di ogni conoscenza a ciò che esso può determinare.
Di tale postulato, Jacques Monod offre un'espressione molto chiara e esplicitamente antifinalista, che chiamerà "il postulato d'obiettività": "La pietra angolare del metodo scientifico è il postulato dell'obiettività della natura. Cioè il rifiuto sistematico di considerare come capace di condurre a una conoscenza "vera" ogni interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di "proietti"". Esclusa dal metodo scientifico, unico capace di portare ad una vera conoscenza, la finalità nella natura si riduce ad una pura illusione antropomorfica. La "teleonomia" riconosciuta nel comportamento degli esseri viventi non può quindi che ridursi al risultato aleatorio di un meccanismo cieco.
Come superare l'aporia del positivismo, rifuggendo allo stesso tempo un finalismo ingenuo? Su questa via il pensiero critico di Joseph Maréchal (1878-1944) sembra insostituibile. La finalità dell'intelligenza ha un ruolo fondamentale in questo pensiero, che supera l'agnosticismo kantiano tramite l'analisi rigorosa delle implicazioni del dinamismo intellettuale, fondamento immediato della conoscenza obiettiva. In un dialogo fecondo fra la critica filosofica e le scienze sperimentali, Maréchal riannoda i legami tra la "conoscenza d'oggetto" nel senso fenomenale della parola, e l'affermazione necessaria dell'essere, livello questo in cui si può ritrovare criticamente una vera finalità naturale. Secondo Maréchal "ogni movimento tende verso un fine ultimo, secondo una legge, o forma specificatrice, che imprime a ogni tappa del movimento il segno dinamico del fine ultimo". "Questa finalità interna del movimento - precisa - lungi dall'entrare in conflitto con il determinismo causale, ne è, al contrario, la prima condizione razionale". Nell'ambito dell'affermazione realista, che supera le scienze avvolgendole per intero, lo studioso sostiene che "ogni divenire, ogni movimento che non sia un semplice spostamento passivo, tende, di per sé, verso un riposo finale o verso un fine ultimo".
Per progredire in questa articolazione tra scienze e metafisica, si deve ricorrere alle prospettive complementari di Pierre Scheuer e di Gaston Isaye. Scheuer analizza il tipo di rapporto che unisce, nella distinzione, la metafisica alle scienze positive. Ecco l'intuizione centrale: la metafisica è "immanente per modum formae al sapere scientifico, nel modo in cui l'anima è immanente al corpo".
Sembra essenziale di riconoscere detta immanenza della metafisica alle scienze, in modo di preservare queste ultime dalla tentazione ricorrente di pretendere all'autofondazione, all'autosufficienza. Una tentazione illusoria come rivela la storia recente delle scienze alla ricerca dei propri fondamenti. Infatti se bisogna evitare la pura giustapposizione di campi senza comunicazione, il rischio maggiore sarebbe che la scienza si erga indebitamente in una forma di metafisica, interamente dogmatica, pretendendo dire l'ultima parola de omni re scibili. A questo punto la scienza si muta in ideologia, che è il suo contrario.
Per ritrovare il cammino della vera finalità della natura, integrando i dati principali delle scienze, occorre sviluppare la prospettiva d'interazione accennata da Scheuer. In questo senso si è mosso Gaston Isaye (1903-1984), che ha delineato un'interazione reciproca, senza circolo vizioso, tra le scienze e la filosofia.
La chiave si trova nella giustificazione dell'induzione. Non si può dedurre legittimamente, da premesse scientifiche, alcuna conclusione di portata metafisica, e nemmeno il contrario. Se si vogliono evitare la pura giustapposizione sterile di campi, come pure le confusioni dannose, l'unica via praticabile sembra quella induttiva, da definire precisamente, via che permetterà in particolare alla riflessione filosofica di raccogliere tutti gli insegnamenti che può ricevere, non solo dalla forma, ma anche dai principali risultati della ricerca scientifica. Bisognerà però giustificare l'induzione, prima all'interno delle scienze sperimentali, poi a livello dell'interpretazione metafisica del sensibile.
Per Isaye l'induzione appare come un primo principio della conoscenza sperimentale. In questo caso ogni dimostrazione si rivela impossibile, pena la petizione di principio. Tuttavia, come per il principio di non contraddizione, ciò non significa che debba rimanere arbitraria o che sia legittimo di farne a meno. L'esempio più chiaro è forse quello della percezione induttiva dell'intenzione soggiacente al comportamento degli altri esseri umani: l'intenzione in quanto tale non è sensibile, ma l'induciamo legittimamente dalla percezione sensibile di certi comportamenti osservabili, nel mondo fenomenale. Certo ci possiamo sbagliare sulle intenzioni particolari di qualcuno, ma non sul carattere fondamentalmente intenzionale di ogni comportamento umano deliberato. È poi sulla stessa base induttiva che si potrebbe stabilire l'esistenza di una finalità naturale reale, partendo da ciò che si osserva al livello dei fenomeni del mondo vivente, quali descritti dalla biologia.
Per concludere, vorremmo indicare brevemente alcuni punti di riferimento per una rilettura critica della finalità nella natura. Come punto di partenza, bisogna considerare la finalità deliberata dei nostri propri comportamenti e le sue condizioni di possibilità. L'esistenza di tale finalità è evidente: la induciamo inevitabilmente dal comportamento altrui. D'altra parte, la realtà di una finalità naturale nell'uomo, intrinseca alla stessa natura della sua intelligenza e della sua volontà, è stata ampiamente stabilita dalle analisi di Maréchal. Questa finalità naturale si manifesta anche al livello della vita biologica nell'uomo, che ne costituisce una condizione di possibilità e l'accomuna nello stesso tempo al mondo animale: ogni atto umano dell'intelligenza e della volontà è condizionato dalla sua natura di essere vivente, legato a tutti gli altri e sottomesso alle stesse leggi fondamentali. La finalità intelligibile dell'uomo appare difatti come il fine prossimo della sua costituzione biologica, essa stessa attraversata da una finalità naturale, anteriore a ogni uso della libertà. Un segno indubitabile di questa finalità spontanea, inconscia e non deliberata, sta nel fenomeno del sogno, che condividiamo con gli altri mammiferi. Nell'uomo, il suo senso particolare legato al linguaggio, è rivelato tra l'altro dall'analisi freudiana dell'inconscio, supponendo certo che questi abbia una finalità obiettiva e decifrabile, per chi ne possieda le chiavi.
In ogni caso, la nostra vita biologica, condizione necessaria ma non sufficiente della nostra esistenza consapevole, non è pensabile se non in stretto legame con tutto il mondo vivente, esso stesso condizionato dalla struttura globale dell'universo: ritroviamo così il principio antropico su un altro piano. La nostra finalità, vista in modo retrospettivo, è quindi sospesa a quella di tutto il mondo vivente, dove sembra legittimo leggere la nostra emergenza come un fine particolare. Il mondo della vita appare come il risultato di un'immensa evoluzione, che sulla Terra è durata almeno tre miliardi e mezzo di anni. In quanto condizione di possibilità della nostra presenza come esseri finalizzati, questo ampio processo sembra attraversato da un'analoga finalità.
Infine, la condizione fisica di possibilità dell'evoluzione del mondo vivente, come della sua apparizione sulla Terra, è costituita dall'intera evoluzione cosmologica, partendo dalle sue condizioni iniziali nel modello standard del big bang. Sembra quindi legittimo di leggere questa ultima a partire dalla nostra situazione, quindi all'interno di una finalità reale, che dà senso e unità all'insieme del processo e dei complessi meccanismi in cui esso si realizza.
L'insieme delle scienze positive, animate dall'interno da una ricerca metafisica che le fonda superandole, ci offrono sulle condizioni biologiche e cosmologiche della nostra esistenza un ampio organismo sempre più integrato di conoscenze decisive, di cui la riflessione filosofica non potrebbe fare a meno. I pochi elementi di una critica realista qui suggeriti, nella linea di Maréchal, Scheuer e Isaye, indicano una delle direzioni che potrebbe prendere una feconda interazione tra ricerca scientifica e riflessione filosofica, permettendoci di superare in atto le aporie ricorrenti del positivismo e delle sue vicissitudini. Tale articolazione critica ci acconsente di riconoscere una vera unità finale del cosmo, supponendo una teleologia criticamente fondata.
(©L'Osservatore Romano - 27-28 aprile 2009)
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