martedì 21 aprile 2009

Sant'Anselmo, vescovo e dottore della Chiesa

Anselmo d'Aosta e l'«unum argumentum»

Storia di un malinteso


di Alessandro Ghisalberti

Negli ultimi decenni una cospicua serie di monografie e di saggi pubblicati a livello internazionale ha testimoniato l'interesse degli studiosi per una rilettura attenta e fedele all'ispirazione euristica e metodologica del Proslógion di Anselmo d'Aosta, in particolare dell'unico argomento (unum argumentum) sviluppato nei capitoli 2-4 dell'opera. Anselmo nel Proemio all'opera lo presenta come l'argomento unico, che per essere provato non necessita di altro che di sé solo. Ritenendo condivisibile la tesi degli interpreti più recenti - tra cui spiccano Michael Corbin, Jean-Luc Marion, Pavel Evdokimov, Coloman Etienne Viola - i quali individuano una notevole divergenza tra l'argomento sviluppato da Anselmo nel Proslógion e la rielaborazione compiuta nella successiva storia della filosofia, che l'ha costretto nella denominazione di "argomento ontologico", intendiamo qui proporre una lettura puntuale dei tre capitoli menzionati dell'opera anselmiana, rimarcandone successivamente la distanza dalla rielaborazione fatta dai sostenitori dell'argomento ontologico.
Nel Proslógion Anselmo si dichiara insoddisfatto delle argomentazioni dialettiche su Dio, la creazione e la Trinità, elaborate in una precedente opera intitolata Monólogion, perché troppo ampie e frammentate; nel frattempo la ricerca di un argomento dalla forza probativa più concentrata ha avuto successo e, nel suo nucleo dialettico essenziale, esso coincide con una precisa nozione di Dio come "ciò di cui non si può pensare il maggiore". Anselmo ricava la formula dalla tradizione - in particolare da Agostino e da Boezio - ma la ritiene anche una valida sintesi dei connotati del Dio della rivelazione biblica, e perciò la introduce con il verbo "crediamo", che vale sia per dire di un dettato della fede, sia per esplicitare una denominazione coestesa con la struttura del pensiero, riscontrabile in ogni tradizione culturale o religiosa che attribuisca un significato alla parola "Dio".
Di fronte a questa nominazione di Dio, Anselmo passa a valutare la posizione dell'insipiente - desunta da un passaggio del Salmo 13 - il quale afferma che Dio non esiste, e si domanda che cosa può significare l'affermazione "Dio non esiste". Perché l'affermazione raggiunga un livello di comprensione da parte dell'intelletto, l'insipiente deve riferirsi al termine Dio intendendolo come ciò di cui non si può pensare il maggiore; pertanto il senso del suo dire si traduce nell'affermazione che Dio esiste solo nell'intelletto: infatti, se di esso negasse l'esistenza anche nell'intelletto, l'insipiente non potrebbe attribuire più alcun significato alla parola Dio, né alla sua negazione.
In questa direzione circoscritta, la negazione dell'esistenza di Dio - riportata, in positivo, all'affermazione che Dio esiste solo nell'intelletto e non nella realtà - implica una contraddizione: è contraddittorio dire che ciò di cui non si può pensare il maggiore sia ciò che esiste solo nell'intelletto, poiché io posso pensarlo esistente anche nella realtà, e così facendo penso qualcosa di "maggiore".
Non resta perciò che respingere la posizione dell'insipiente perché inficiata da manifesta contraddizione. Anselmo si appella all'evidenza: non siamo di fronte ad una dimostrazione vera e propria, articolata in premessa maggiore e minore; l'esistenza nella realtà (in re) non significa esistenza empirica, ma esistenza in generale o esistenza reale, e la forza probativa della conclusione è demandata al principio di non-contraddizione, ossia è immediatamente evidente l'aporeticità della tesi dell'insipiente, il quale, confinando ciò di cui non si può pensare il maggiore nel solo intelletto, finisce con affermare che non è ciò di cui non si può pensare il maggiore. La contraddizione è tolta solo affermando che ciò di cui non si può pensare il maggiore deve essere pensato esistente e nel pensiero e nella realtà.
Nel successivo capitolo terzo Anselmo presenta una seconda argomentazione, volta a rafforzare la conclusione precedente, facendo vedere che, in ultima istanza, si deve concludere che Dio esiste in modo così vero che non può nemmeno essere pensato non esistente, sia per cogenza della ragione dialettica, sia secondando l'istanza teologica, connessa con la "logica della rivelazione": dire che Dio non esiste significa dire - senza poterlo pensare - che ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore, ossia equivale a dire: Dio non è Dio; Dio è un idolo; Dio è pari a una qualsiasi cosa creata, di cui si può pensare il maggiore:
L'ultimo interrogativo del capitolo terzo, apparentemente retorico, è assai importante: se è così evidente alla mente razionale che Dio esiste più di ogni altra cosa, perché l'insipiente dice che Dio non esiste? In realtà lo dice, precisa Anselmo, ma non può pensarlo, e quindi l'insipiente è realmente uno stolto, che non sa quello che dice, e che vorrebbe negare la struttura originaria della mente, ossia la sua capacità di pensare il massimo del pensabile, un massimo che non può essere trasceso né da altro essere, né dal pensiero. Anselmo si assesta in una posizione teoretica che proclama l'evidenza della coincidenza di "ciò di cui non si può pensare il maggiore" con l'essere che non può non essere pensato esistente, e ciò vale solo per la formula dell'unico argomento; è altresì evidente che esso è più grande di tutto quanto si possa pensare, ossia che deve essere pensato come impensabile.
L'unico argomento di Anselmo, denominato a partire dal secolo XVIII "argomento ontologico", ha avuto diverse valutazioni e riprese nella storia della filosofia: l'hanno criticato Gaunilone, Tommaso d'Aquino, Kant; l'hanno considerato valido, con rielaborazioni, Duns Scoto, Leibniz, Wolff, Hegel.
La presentazione dell'argomento ancor oggi prevalente nei manuali di storia della filosofia è così riassumibile: Anselmo vorrebbe dare una vera e propria dimostrazione dell'esistenza di Dio, partendo dal concetto di Dio come essere supremo dalla perfezione insuperabile. Paradigmatica la formulazione dell'argomento che si riscontra nella Quinta Meditazione Metafisica di Cartesio, che intende Dio come l'essere perfettissimo: all'essere che assomma in sé la totalità delle perfezioni pensabili non può mancare la perfezione dell'esistenza nella realtà. La lettura cartesiana riconduce cioè l'argomento all'idea che dall'essenza di Dio si ricavi la sua esistenza; questa lettura è stata quella sempre proposta dagli avversari dell'argomento di Anselmo, a cominciare da Gaunilone, che ha ritenuto insostenibile la prova, perché l'idea del perfettissimo può essere una proiezione vuota del pensiero, pari a quella di un'isola sperduta nell'oceano piena di ogni dovizia. Ma siffatta lettura è stata considerata inautentica e illegittima dallo stesso Anselmo, nella risposta a Gaunilone: "In primo luogo, spesso mi fai dire che l'ente maggiore di tutti è nell'intelletto e che, se è nell'intelletto, esiste anche nella realtà, altrimenti l'ente maggiore di tutti non sarebbe maggiore di tutti; ma una tale argomentazione, in tutto ciò che io ho detto, non si trova in alcun luogo" (Risposta di Anselmo a Gaunilone, 5).
In questo modo Anselmo evidenzia il cardine del suo argomento, che non ricorre all'idea di perfettissimo, ma all'idea di essere intrascendibile detto con formula negativa: "Ciò di cui non si può pensare il maggiore".
La formulazione dell'unico argomento attesta cioè l'evidenza dell'esistenza di Dio, provando paradossalmente che essa non deve essere "dimostrata", dal momento che si "prova" con evidenza che chi la nega è "insipiente", ossia si assesta nell' impossibilità di pensare.



(©L'Osservatore Romano - 20-21 aprile 2009)

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