giovedì 16 ottobre 2008

La Chiesa del silenzio cominciava a parlare

Il cardinale Stanislaw Dziwisz racconta la sera del 16 ottobre 1978

di Giampaolo Mattei

"Come mi accoglieranno i romani, cosa diranno di un Papa venuto da un Paese lontano?". Un attimo prima che i cerimonieri aprissero le ante della loggia della benedizione, la sera del 16 ottobre 1978, Karol Wojtyla, appena divenuto Giovanni Paolo II, pensava a come Roma avrebbe guardato a "un Pontefice straniero dopo i bellissimi e importanti Pontificati del Novecento". Questa rivelazione è del cardinale Stanislaw Dziwisz, arcivescovo di Cracovia, per trentanove anni segretario particolare di Wojtyla.
"Mi confidò - racconta oggi il cardinale - la sua preoccupazione per Roma quando potei avvicinarlo, vincendo l'emozione di vederlo per la prima volta vestito di bianco. Mi disse anche che appena affacciato si era rassicurato perché nell'accoglienza della gente in piazza San Pietro aveva percepito un sentimento di speranza. Ecco, disse proprio così: ho sentito la speranza. Aggiunse che guardare la piazza dalla loggia gli aveva rafforzato la consapevolezza di essere Papa in quanto vescovo di Roma. Insomma, tra il Papa polacco e Roma era stato amore a prima vista. Ne era felicissimo e quando, negli anni, tornava col pensiero a quella sua preoccupazione iniziale lo faceva proprio per confidare di sentirsi più che mai "romano de Roma"".
Sono nitidi i ricordi di quel giorno di trent'anni fa in don Stanislao, come continua a essere chiamato, nonostante la porpora, quasi a mantenere quel legame con Wojtyla. "Al momento della fumata bianca - racconta - anch'io ero in piazza San Pietro, vicino al cancello della basilica. Quando il cardinale Pericle Felici pronunciò, in latino, il nome Carolum mi resi conto che stava per accadere l'impensabile. Poi disse: Wojtyla. Urlai di gioia prima di rimanere impietrito finché non sono stato accompagnato dal mio vescovo divenuto Papa".
Giovanni Paolo II lo vide appena rientrato dalla prima benedizione. Ricorda: "Gli dissi subito che la folla aveva accolto la sua elezione con gioia e io stesso avevo personalmente toccato con mano quella speranza che lui aveva avvertito. L'avevo vista nei volti, l'avevo ascoltata nelle parole delle persone accanto a me in piazza San Pietro. Sono testimone di come la sorpresa per la sua elezione - qualcuno pensò che il nuovo Papa fosse africano dopo aver sentito quel cognome difficile - si trasformò subito in speranza, forse per la carica di novità che portava con sé".
Don Stanislao racconta un altro episodio di quelle prime ore del Pontificato: "Con un sorriso complice e un po' del suo humour volle pure mettermi al corrente del primo strappo al protocollo. Prima di affacciarsi il maestro delle cerimonie, monsignor Virgilio Noè, si era raccomandato che il nuovo Papa impartisse la benedizione in latino senza fare discorsi. Giovanni Paolo II però non riuscì a trattenersi e incominciò a parlare in italiano. Un saluto rimasto storico: "Mi hanno chiamato da un Paese lontano... se mi sbaglio mi corrigerete". Nel raccontarmelo si mostrava certo di aver fatto bene a fare quel breve discorso, ma al tempo stesso sembrava quasi scusarsi con i suoi collaboratori per la prima di mille improvvisazioni".
L'elezione del primo Papa slavo, prosegue il cardinale, "era una novità da far tremare i polsi. Mentre iniziavo il mio nuovo servizio mi venne da pensare alle persone che a Cracovia pregavano perché non fosse eletto, in tanti non volevano che lasciasse l'arcidiocesi. E mi ricordai anche del funzionario polacco che, prima della partenza per il conclave, aveva tolto al cardinale Wojtyla il passaporto diplomatico, rilasciandogli solo quello turistico, con la minaccia che i conti li avrebbero fatti al ritorno in patria. La sera del 16 ottobre non rimasi in Vaticano, tornai ai Collegio polacco. Non chiusi occhio. Per tutta la notte restai attaccato alla radio per carpire notizie su come l'elezione del cardinale di Cracovia era stata accolta, soprattutto in Polonia. Mi resi conto che la Chiesa del silenzio cominciava a parlare con la bocca del Papa".
Come Giovanni Paolo II visse i momenti dopo la prima benedizione? "Non si fece prendere da frenesie. Volle cenare con i cardinali, poi si ritirò nella stanza che gli era stata assegnata per il conclave, nel mezzanino dell'appartamento del segretario di Stato. La condivideva con il cardinale Corrado Ursi. Si mise a scrivere di suo pugno, in latino, il discorso programmatico per la messa dell'indomani. E cominciò a pensare all'omelia della celebrazione per l'inizio del ministero petrino". È il discorso rimasto famoso per il motto, linea-guida del Pontificato: "Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo". Spiega don Stanislao che "queste parole le aveva maturate negli anni. Erano espressione della sua fede. Le ha vissute, pregate. Mi disse che le considerava adatte per scuotere le coscienze e iniziare la sua nuova missione di proclamare il Vangelo al mondo intero. Sono testimone che ha scritto quell'omelia da solo. Conservo il testo autografo".
Il Papa era consapevole che quelle sue parole avrebbero avuto un effetto dirompente soprattutto laddove la libertà era negata? "Sapeva molto bene - è la convinzione di don Stanislao - che le dittature si reggono solo sulla paura. Per abbattere quei regimi non disponeva di forze armate. Il Papa non ha divisioni, come ironicamente diceva Stalin. Ma ha la parola. Il suo obiettivo era chiaro: indicare la verità di Cristo per infondere nella gente un senso di libertà interiore. È questo stimolo alla libertà che ha dato ai popoli la forza di cambiare, di lottare contro i sistemi repressivi, politici ed economici. Quell'invito a non aver paura ha innescato una rivoluzione straordinaria, senza spargimento di sangue. Ha contribuito a far crollare i muri e ha messo in discussione la logica della guerra fredda, voluta dalle grandi potenze nucleari". Tutto questo, però, non faceva parte di una strategia politica. Liberare la gente dalla paura è stata, fin dal primo giorno, la forza e la novità del suo Pontificato: "Non si tratta di ideologia ma di Vangelo. Voleva che la Chiesa fosse là dove è l'uomo".
Il segreto di Wojtyla è stato senz'altro quello di aver mostrato il volto umano di Dio. Ne è certo don Stanislao: "La mia esperienza mi dice che la gente non cercava tanto lui, ma la persona di Dio di cui era testimone. E rivelo un altro segreto: non si può comprendere Giovanni Paolo II escludendo la preghiera e il suo rapporto con la Parola. In questo non c'era nulla di bigotto. Anzi, niente in lui pareva essere più naturale. Neppure il giorno dell'elezione venne meno a questo stile". E aggiunge: "Non si dava mai pace per cercare sempre parole e modi nuovi per annunciare Cristo. Così quando mandava all'aria il protocollo non era alla ricerca di popolarità ma di un sistema per testimoniare l'amore di Dio". C'è un gesto che, nelle parole del segretario, esprime l'irruenza spirituale di Giovanni Paolo II: lo scendere sulla piazza, alla fine della messa del 22 ottobre 1978, in mezzo ai disabili e alzare il pastorale muovendolo come fosse una bandiera.
Per don Stanislao, in questi giorni, c'è stato un altro anniversario da ricordare: l'8 ottobre 1966 l'arcivescovo Wojtyla gli propose di diventare suo segretario. "Quando devo iniziare?" chiese. "Subito" fu la risposta. Oggi commenta: "Quel giorno imparai a stargli vicino. L'ho fatto per trentanove anni, prima a Cracovia poi a Roma. Ho visto la mia veste macchiata del suo sangue, il 13 maggio 1981. E ho ripensato ai versi che scrisse per san Stanislao patrono di Polonia: se la parola non ha convertito sarà il sangue a convertire. Sempre sono rimasto accanto a Karol Wojtyla. Io, sacerdote accarezzato da un dono e da un mistero".



(©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2008)

Il Papa che per dialogare ripropose sempre la verità

A trent'anni dall'elezione di Giovanni Paolo II

E quel giorno iniziò la fine dell'Unione Sovietica

di Arrigo Levi
Consulente del Presidente della Repubblica italiana

Sono stato invitato, e l'invito mi è giunto assai gradito, a partecipare, con qualche mio pensiero, a una riflessione sulla figura di Giovanni Paolo II, nell'anniversario della sua elezione al soglio. Ho forte il senso della mia inadeguatezza, anzi della mia incapacità di sintetizzare in poche parole tutte le idee che si affollano alla mia mente quando ripenso a Karol Wojtyla, di cui scrissi un giorno - il giorno tremendo dell'attentato che minacciò di spegnere d'un tratto quella grande luce che il Papa polacco irradiava nel mondo - che "nessun altro uomo nella storia aveva toccato i cuori e agitato le menti di tanti altri uomini, in ogni luogo della terra, come Giovanni Paolo II".
Non sta a me, ebreo non praticante, di fede laica, da anni impegnato come tale in quell'intenso dialogo che di anno in anno acquista forza e dà speranza a un mondo che nutre vaste paure per il proprio futuro, giudicare questo Papa per ciò che egli ha rappresentato nella storia della Chiesa cattolica. Ma sento il dovere di rendere omaggio - cito ancora da quanto scrissi il 13 maggio 1981 - al "moto di rinnovamento iniziato dallo spirito luminoso di Giovanni xxiii e dal concilio Vaticano ii, sviluppato e arricchito nei successivi pontificati, ricevendo l'impronta della complessa intelligenza e della penetrante coscienza di Paolo VI, come del vigore ideologico e della sicurezza di fede di Giovanni Paolo II, che ha portato questo nuovo vangelo in tutti gli angoli della terra". Dà conforto il fatto che questo moto, anche se non senza inevitabili complessità e contraddizioni, non si sia arrestato.
Non ho mai condiviso le critiche laiciste al fatto che Papa Wojtyla abbia sempre riproposto senza compromessi verità per lui indiscutibili, su questioni (una ne nomino fra tante) come l'aborto. Anche nel più aperto degli incontri fra i credenti di fedi diverse, compresa la mia fede laica, ciascuno ha, secondo coscienza, il diritto e dovere dell'annuncio della propria verità, nel momento stesso in cui, attraverso il dialogo, s'impegna seriamente all'ascolto della verità altrui, e rinuncia a imporgli la propria. Nel dialogo, quello che dice l'altro dovrebbe essere ancor più importante di quello che dici tu stesso: e la fede sincera dell'altro, misteriosamente, non indebolisce, ma rafforza la tua.
Ciò che più importa è l'essere disponibili a riconoscere il seme di verità che si esprime anche nella fede altrui, e l'essere disposti a riesaminare con animo aperto le proprie convinzioni e a rileggere criticamente anche la storia passata dell'istituzione o della fede in cui ci si riconosce. Non dimentico che nel dare, il 1° ottobre del 2000, nel corso dell'Angelus recitato in piazza San Pietro, pubblica approvazione alla dichiarazione Dominus Iesus del 6 agosto di quell'anno, Giovanni Paolo II volle chiarire - "dopo tante interpretazioni sbagliate" di quel documento, e al fine di evidenziarne "la funzione chiarificatrice e nello stesso tempo di apertura" - che la Dominus Iesus non sostiene che venga "negata la salvezza ai non cristiani", giacché "Dio dona la luce a tutti in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale, concedendo loro la grazia salvifica attraverso vie a lui note". So bene che questa è una soltanto fra le tante espressioni dello spirito ecumenico di Papa Wojtyla (l'incontro di Assisi è nella nostra memoria e nel nostro cuore).
Troppe altre parole del Papa si riaffacciano alla mia memoria. Si consenta a un ebreo di privilegiare, fra i numerosi, ammirevoli mea culpa del Papa per colpe passate del mondo cattolico, la breve frase che egli scrisse sul biglietto che infilò, secondo un antico costume ebraico, nelle fenditure del Muro del Pianto. In esso si leggeva: "Siamo profondamente addolorati per il comportamento di quelli che nel corso della storia hanno causato sofferenze a questi tuoi figli, e nel chiedere il tuo perdono, desideriamo impegnarci a una sincera fratellanza con il popolo del Patto". Non nascondo di avere pianto, e non fui certo il solo, nell'ascoltare le sue parole rivolte ai "fratelli maggiori" ebrei, il giorno in cui egli compì quel "breve passo al di là del Tevere" che alcuni di noi gli avevano suggerito di fare. Tutti gli ebrei romani, guidati da quel sant'uomo che è il rabbino Elio Toaff, ne furono profondamente toccati. Anche a me era capitato, qualche tempo prima, di suggerire "quel breve passo" durante un incontro dell'Amicizia ebraico-cristiana cui assisteva anche monsignor Clemente Riva, che anni dopo volle confermarmi di avere riferito all'indomani quelle mie parole a chi di dovere. Ineguagliata era, in Papa Wojtyla, la capacità di esprimere con un gesto verità più profonde di qualsiasi parola.
La predicazione religiosa di Giovanni Paolo II per me forse si riassume tutta nelle parole, spesso da lui ripetute: "Non abbiate paura"; ma anche nella sua affermazione, che responsabilizza tutti gli uomini: "In un certo senso si può dirlo: di fronte alla libertà umana Dio ha voluto rendersi "impotente". E si può dire che Dio stia pagando per il grande dono concesso a un essere da Lui creato "a Sua immagine e somiglianza"". Quanto a una riflessione sull'importanza politica che il suo lungo pellegrinaggio fra i popoli ha avuto per questo mondo tormentato in cui viviamo, e ai grandi principi che egli ha proposto ovunque andasse - dal Brasile all'Irlanda, dalle Filippine alla Polonia - faccio mia senza esitazione una definizione, che di lui fu data, di "apostolo della democrazia". Ai generali brasiliani, come ai capi comunisti polacchi o al dittatore filippino, e a chiunque volle accoglierlo, il Papa aveva annunciato con forza una dottrina ricca di contenuti religiosi ma anche di aperti significati politici, predicando il diritto alla libertà e i diritti sindacali dell'uomo contemporaneo.
Chi, come me, aveva dedicato un lungo tempo allo studio e alla critica del comunismo sovietico, non poté non accogliere come un atto carico di straordinarie conseguenze la nomina di un Papa polacco da parte del conclave. Quando fu annunciato il nome del nuovo Papa, di cui ben conoscevamo il grande coraggio di cui aveva dato prova nell'annunciare la fede nel suo Paese, fu spontaneo il commento: "Questo è il principio della fine dell'Unione Sovietica". Non ho mai avuto dubbi sul fatto che la stessa riflessione, ai vertici dei servizi segreti di Mosca, sia stata all'origine dell'attentato fallito.
So di avere soltanto sfiorato, con queste parole, alcuni aspetti della figura di un grande Papa, di un grande uomo, che meritò l'affetto di tanti che non condividevano la sua fede religiosa, ma ammiravano la sua fede, e se ne sentivano ispirati. Egli è e sarà sempre vivo e presente nella nostra coscienza.



(©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2008)

La Chiesa in Spagna rilancia la famiglia

Il cardinale Rouco Varela ha presentato il piano pastorale 2008-2010 dell'arcidiocesi di Madrid

Madrid, 15. "Ritornare a trasmettere la fede in Gesù Cristo e richiamare l'attenzione intorno alla famiglia, comprendendo perché essa rappresenta la strada umana più importante e imprenscindibile per conoscere Cristo e la sua legge nel cammino per il mondo". È l'impegno che scaturisce dal Piano pastorale triennale incentrato sulla famiglia dell'arcidiocesi di Madrid, presentato in occasione di una solenne celebrazione nella cattedrale dell'Almudena a Madrid.
A presiederla è stato l'arcivescovo di Madrid e presidente della conferenza episcopale di Spagna, il cardinale Antonio María Rouco Varela.
Alla messa hanno partecipato numerosi sacerdoti e fedeli delle parrocchie e dei movimenti apostolici e membri dei diversi istituti di vita consacrata
Il piano sul tema "La famiglia vive. Con Cristo è possibile" è suddiviso in tre parti distinte, una per ogni anno di durata complessiva: nel 2008, in particolare, l'obiettivo generale è "aiutare le famiglie a essere ciò che sono chiamate a essere secondo il piano di Dio".
Per i prossimi anni, 2009-2010, gli obiettivi saranno invece: "La famiglia come Chiesa domestica" e "La famiglia, speranza della società".
Nell'omelia il cardinale ha sottolineato che è importante prendere coscienza di quanto accade attualmente nel mondo ai danni dei nuclei familiari. In particolare, la situazione è stata definita dal porporato "grave, critica e coinvolge tutti". Secondo l'arcivescovo di Madrid "la radice della crisi è rappresentata dalla crisi della fede" e, per tale motivo, ha ribadito che occorre porre l'accento proprio sulla trasmissione della fede, per salvaguardare i principi che tutelano i coniugi e i figli.
La crescente secolarizzazione della società, è stato sottolineato, ha posto le basi per il diffondersi di un nichilismo esistenziale che mina alle basi la tradizionale concezione dell'unione tra un uomo e una donna. Ricordando più volte che la crisi che colpisce il matrimonio è grave, il cardinale ha messo in luce la forte volontà della Chiesa di agire per contrastare il fenomeno. "Quando non si vuole conoscere la verità più elementare su ciò che è il matrimonio, l'unione di un uomo e di una donna - ha affermato - quando non ci sono idee chiare, dove andremo a finire ? Quando si crede che possano coltivarsi interessi a base di altre formule di vita, è allora che stiamo toccando la radice della crisi, la crisi della fede". E ha osservato: "È di somma urgenza ricordare che la famiglia è fonte di vita e di speranza per l'umanità".
Il cardinale ha, tra l'altro, scritto una lettera pastorale specifica intitolata "La Famiglia: vita e speranza dell'umanità" che accompagna il piano come base per il lavoro di questi tre anni. Nella missiva si evidenzia che l'istituzione familiare si sente esposta al pubblico disprezzo, agli annunci di una sua imminente scomparsa e, in ultimo, a evidenti attacchi alla sua natura e stabilità. Per questo, è aggiunto, "è arrivata l'ora di proporre un piano integrale di pastorale familiare per l'arcidiocesi, che sia capace di potenziare con un nuovo impeto la coscienza dell'essere e della missione cristiana delle famiglie".
Il vicario per la pastorale dell'arcidiocesi di Madrid, don Angelo Matesanz, ha poi illustrato i cinque obiettivi intorno ai quali si è sviluppato il piano pastorale: vivere la vocazione del matrimonio; migliorare la preparazione al matrimonio; educare all'amore; potenziare i gruppi di matrimonio e prestare aiuto in situazioni speciali.
Il piano spiega che la pastorale familiare consiste in modo particolare nel ridare agli uomini la fiducia nell'amore capace di costruire una vita. Per la Chiesa esiste dunque l'urgenza di formare, in tale contesto, un soggetto cristiano, di fronte alla fragilità di tante persone. È l'amore vero che si riceve come una promessa, è specificato, a permettere di vivere di speranza. In un mondo che vive dell'immediato e che fonda le sue speranze sulle soluzioni tecniche e sugli accordi sociali, si osserva, si è persa la genuina speranza nata dall'amore.
La società non pone le basi giuste per affrontare con serenità l'avvenire: le coppie guardano al futuro con timore e si fa fatica a promettere un amore per sempre. Il piano, a tale proposito, pone l'accento sul fatto che è proprio su questo aspetto che si devono incentrare l'annuncio e l'accompagnamento della Chiesa che è - ribadisce il documento - esperta nel vivere la speranza nata dalle promesse di Dio che giungono nella parte più intima dell'amore umano. Si tratta pertanto - è aggiunto - di aiutare ogni uomo a vivere la propria vocazione all'amore nelle diverse circostanze della vita.
Nel piano emerge che la costruzione di quell'autentica "comunità di vita e di amore" che è il matrimonio, esige sempre la "purificazione del cuore", come ricordava il servo di Dio Giovanni Paolo II quando parlava della "redenzione del cuore" come un passo imprenscindibile per la vocazione all'amore. Un concetto che è stato indicato nuovamente da Papa Benedetto XVI - è scritto ancora nel documento - insistendo "sul cuore che vede", come un'esigenza interna dell'amore, che trascende la sfera meramente affettiva e consente di conoscere la capacità propria dell'amore a costruire la vita.
Un passo della pastorale, tra gli altri, è dedicato alle situazioni irregolari. Bisogna rivolgere un'attenzione particolare - si osserva - alle famiglie che subiscono la perdita di una persona cara e a quelle che si trovano in una situazione di rottura, con tutte le difficoltà insite nel divorzio, soprattutto per quel che riguarda la sana educazione dei figli, gli abbandoni e ogni genere di violenza. È una gamma crescente di situazioni - è specificato - che richiedono un aiuto specifico, che non sempre i sacerdoti e la comunità parrocchiale riescono a offrire.
A tale proposito si evidenzia la necessità di coordinare in maniera più efficace i Centri di orientamento familiare già esistenti e di crearne altri nuovi, che offrano un aiuto reale ed effettivo ai casi difficili che - è ricordato nel piano - come l'esperienza insegna, se c'è buona volontà da entrambe le parti e il momento è quello giusto, si possono risolvere quasi sempre positivamente. Il documento su questo sottolinea che la comunione ecclesiale è particolarmente importante per agire conformemente al magistero della Chiesa e sotto la guida dei suoi pastori.
Nel piano si conclude che non sono valide le soluzioni semplicistiche che occultano il fulcro del problema. Perciò, rivolgere un'attenzione reale a queste situazioni è molto importante per la presenza e l'immagine della Chiesa di fronte agli uomini.

OR - Ancora violenze a Mossul Danneggiata una chiesa

La solidarietà dei musulmani

Baghdad, 15. "Le ragazze dell'orfanotrofio gestito dalle suore caldee di Mossul erano a pranzo quando hanno sentito un gran rumore e un forte vociare". È monsignor Slemon Warduni, ausiliare del patriarcato di Babilonia dei Caldei a raccontare a "Baghdadhope" ciò che è successo a Mossul lunedì pomeriggio quando l'esplosione di un ordigno ha danneggiato una delle porte d'ingresso della chiesa caldea dedicata alla santa martire Meskenta.
"È una chiesa che risale al x secolo d.C. - aggiunge monsignor Warduni - e si trova vicino all'orfanotrofio delle suore caldee, all'arcivescovado e al vecchio edificio del seminario di San Pietro. Una chiesa antichissima che era stata restaurata dal compianto arcivescovo Rahho che l'aveva molto a cuore".
Per fortuna nell'esplosione non ci sono stati morti o feriti, ma solo danni materiali. Subito dopo l'attentato alcuni giovani volontari si sono prodigati a richiudere la porta danneggiata dall'ordigno.
Da alcuni mesi Mossul è stata presa di mira da parte di bande organizzate che seminano terrore e violenze tra le popolazioni cristiane della città.
"Il Governo - ha sottolineato l'ausiliare di Babilonia dei Caldei - ha inviato i soldati per porre fine alle violenze e continuano le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei cristiani. Lunedì pomeriggio, nella chiesa della Vergine Maria di Baghdad ho avuto un lungo incontro con molti musulmani. C'erano una trentina di persone inviate da Muqtada Al Sadr venute a esprimere la propria solidarietà e a offrire aiuto per le famiglie che hanno dovuto abbandonare Mossul, e altri rappresentanti degli sceicchi della città di Ramadi che hanno pubblicamente espresso il proprio dolore e la propria condanna degli eventi di Mossul. Almeno una decina di emittenti televisive - ha proseguito monsignor Warduni - hanno ripreso l'incontro e queste manifestazioni pubbliche di fratellanza e solidarietà rafforzano i legami tra le parti sane del Paese, aperte al dialogo e contrarie alla violenza contro i suoi cittadini".
Nei giorni scorsi anche il patriarca di Babilonia dei Caldei, il cardinale Emmanuel iii Delly, aveva sottolineato che: "Per quattordici secoli abbiamo convissuto con spirito di tolleranza e fraternità, condividendo la vita e costruendo insieme la nostra amata patria. Non dobbiamo lasciare che le forze oscure che vengono dall'esterno smembrino la nostra unità nazionale".
E a proposito di forze oscure che minano la stabilità del Paese e in particolare quella di Mossul, non si riesce a spiegare come mai è stata danneggiata la chiesa di Meskenta che si trova nella parte vecchia della città, nel quartiere di Hay Al Mayassa, mentre gli episodi di violenze dei giorni scorsi sono avvenuti tutti nella zona nuova.
"Non si sa chi abbia danneggiato la chiesa di Meskenta - ha spiegato monsignor Warduni -, certo è presto per dire se la violenza contro i cristiani raggiungerà anche la parte vecchia di Mossul. Sicuramente però non è incoraggiante per le famiglie che ancora sono in città. Preghiamo perché questo episodio possa essere opera isolata di qualche fanatico, e che chiuda un periodo orribile per la città di Mossul di cui sempre si è descritto il panorama come quello di una città dove accanto ai minareti svettavano i campanili, a dimostrazione dell'antichissima convivenza delle diverse religioni".
Intanto, secondo fonti irachene, una trentina di famiglie cristiane di Mossul sono fuggite verso Baghdad dove hanno trovato ospitalità presso parenti e amici, e aiuto da parte delle chiesa di Mar Giwargis. Al momento sono quattordici le vittime cristiane che hanno perso la vita a Mossul.

OR - La strategia del caso pietoso

di Lucetta Scaraffia

In Spagna - in questi anni all'avanguardia di tutte le decisioni più discusse di tipo bioetico - è nato Javier, quasi tre chili e mezzo alla nascita, il primo bambino selezionato per poter curare il fratello, colpito da una rara malattia ereditaria, la beta talassemia maior. Secondo i medici, il sangue del suo cordone ombelicale servirà a realizzare un trapianto di midollo osseo al fratello, in modo che il bimbo cominci a produrre globuli rossi sani. "Le possibilità di guarigione del piccolo dopo il trapianto sono molto alte", dicono gli stessi medici.
Javier è stato selezionato, quindi, nella speranza di poter dare a suo fratello Andrés la possibilità di continuare a vivere, ha annunciato il Servizio sanitario spagnolo in una nota. Commettendo un errore, o almeno un'esagerazione: la malattia da cui è affetto Andrés non è infatti mortale, ma lo costringe a una vita molto difficile, perché dovrebbe cambiare il sangue con una trasfusione ogni quindici o trenta giorni. Ma, dicendo che si tratta della vita, il caso assume un aspetto più drammatico e diventa sempre più difficile criticare la selezione eugenetica che ha garantito la nascita di un fratellino sano, cioè non affetto dalla stessa malattia genetica di Andrés.
Javier infatti è frutto di una diagnosi genetica pre-impianto: una tecnica che consente di verificare se un embrione è sano o meno dal punto di vista genetico, prima che sia trasferito nell'utero materno. Per questo tipo di diagnosi - che in Italia è vietata - l'embrione ottenuto con la fecondazione in vitro viene esaminato geneticamente per verificare che non sia portatore di alcuna malattia. Il metodo ha consentito di concepire un bebè sano, ma anche un donatore idoneo perché il fratello venga curato mediante un trapianto di midollo, che ha un identico profilo di compatibilità. L'intero processo, che è il primo in Spagna, è avvenuto tutto all'interno della struttura pubblica, dalla diagnosi pre-impianto fino al trapianto.
Il termine esatto per definire la selezione che ha portato alla nascita di Javier è eugenetica, come sempre quando si seleziona chi deve nascere secondo caratteristiche predeterminate. Dal momento però che la selezione non è stata fatta per il bambino che doveva nascere né per rispondere a un particolare desiderio dei genitori, ma piuttosto per curare un fratello già nato, molti la considerano eticamente accettabile. Come se fosse un'opera buona, un atto di altruismo per salvare una vita.
Non è chiaro tuttavia chi sia l'autore di questo atto di bontà: non certo il bambino che nasce, che non ha chiesto di nascere né tanto meno di essere selezionato, e neppure gli embrioni che sono stati scartati perché non servivano a curare il fratello. Nessuno di loro al momento della scelta era dotato di autonomia morale.
Ovviamente, non sono autori della buona azione neppure i genitori, che hanno sacrificato altri possibili figli per guarirne uno già esistente: non si può considerare un atto di bontà una scelta che di fatto si fa pagare ad altri. Né tanto meno i medici, i quali non fanno che applicare una tecnica conosciuta per rispondere alla richiesta dei genitori e ai bisogni di un bambino già nato.
Non si tratta quindi di un'azione altruista, ma, né più né meno, di un atto eugenetico, e dunque, in quanto tale, condannabile. E di un tipo di scelta eugenetica particolarmente grave, perché in questo modo un bambino viene considerato un mezzo - Javier è stato fatto nascere per guarire il fratello - e non un fine, come deve invece essere considerato ogni essere umano.
Operare scelte eugenetiche cominciando da casi come questo, in cui un bambino viene messo al mondo per aiutare il fratello a vivere, potrebbe nascondere l'intenzione di far accettare le pratiche di selezione degli embrioni anche per scopi meno nobili della salute di un figlio, fino ad arrivare alla scelta di sesso, qualità fisiche e intellettuali. Questo nuovo episodio fa dunque parte della strategia del caso pietoso, messa in atto sistematicamente per far passare pratiche di tipo eugenetico, come quando si intervistano genitori affetti da anemia mediterranea, sottolineando il loro calvario di malati che desiderano un figlio sano.
Sono tutti tentativi di allontanare dalla pratica eugenetica le nere ombre che ha lasciato su di essa il nazismo; in sostanza si tratta di operazioni che vorrebbero capovolgere il significato di un atto in sé egoistico - indipendentemente da chi lo compie, lo Stato o un privato - e che per di più implica l'esclusione dalla vita di altri esseri umani. È un modo di fare confusione sulle reali intenzioni di tali scelte e per far passare presso l'opinione pubblica l'idea che la selezione eugenetica è una pratica buona e accettabile, spingendo alla commozione per la guarigione di esseri umani inconsapevoli e innocenti.



(©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2008)

martedì 14 ottobre 2008

Parola di Dio e sacramento della penitenza

Il cardinale Tarcisio Bertone durante gli interventi liberi al Sinodo dei vescovi

"È importante che ogni confessore senta" la responsabilità di invitare il penitente alla lettura delle Sacre Scritture "e si assuma questo impegno. Forse il Sinodo potrebbe rivolgere un invito specifico a questo riguardo". Lo ha auspicato il cardinale Tarcisio Bertone aprendo la serie dei quindici interventi liberi con cui sabato pomeriggio, 11 ottobre, si è chiusa la prima settimana dei lavori sinodali.
Il segretario di Stato, anticipando un tema che è stato ripreso dal Papa durante la canonizzazione del giorno successivo, ha iniziato dalla premessa di "una ripresa della pratica del sacramento della penitenza individuale specialmente dall'Anno Santo del 2000". Una ripresa che però deve fare i conti con una crisi senza precedenti e che impone una seria e approfondita analisi delle cause e l'individuazione di soluzioni pratiche. In tal senso il porporato ha parlato del rapporto tra Parola di Dio e sacramento della penitenza, che - ha detto - "è facile tematizzare nelle celebrazioni penitenziali, che solitamente precedono il rito per la riconciliazione di più penitenti", mentre appare "molto più difficile realizzare questo collegamento esplicito nella riconciliazione di un singolo penitente". Il cardinale Bertone ha messo in rilievo come non si veda la realizzazione concreta di tale collegamento e che, sebbene l'Instrumentum Laboris ne accenni solo brevemente al numero 36, il rito della Penitenza promulgato nel 1973, al n. 17 lo postula in modo esplicito. Esso parte dal principio: "È la Parola di Dio che illumina il fedele a conoscere i suoi peccati, lo chiama alla conversione e gli infonde fiducia nella misericordia di Dio. Quindi il sacerdote, o anche il penitente stesso, legge secondo l'opportunità un testo della Sacra Scrittura; la lettura può essere fatta anche nella preparazione al Sacramento (oltre l'esame di coscienza!)".
Il segretario di Stato ha poi enunciato le tante esemplificazioni che il rito offre al numero 43: "Si possono richiamare anche le letture bibliche del giorno liturgico, o dire a memoria qualche versetto in cui si parla della misericordia di Dio, o in cui si invita la persona a pentirsi o a convertirsi", ha detto ricordando la propria esperienza di giovane assistente salesiano, quando era tenuto a imparare a memoria, ogni settimana, dieci versetti del Nuovo Testamento. Ha anche fatto riferimento alla settimana dedicata alla lettura della Bibbia a Santa Croce in Gerusalemme, da lui stesso chiusa poche ore prima di intervenire nell'Aula del Sinodo, sottolineando come l'iniziativa abbia favorito anche una ripresa delle confessioni.
Negli altri interventi liberi sono stati trattati vari argomenti, tra i quali l'identità tra azione e Parola, la necessità di guardare alle cose dal basso, con gli occhi degli ultimi, la lotta in Africa alle cosiddette "sette della prosperità" che si fondano sul "culto del milionario istantaneo", dove le vittime vengono adescate attraverso la manipolazione dei testi biblici. Da qui l'auspicio di traduzioni approvate dalle Conferenze episcopali e la possibilità di accedere gratuitamente ai testi sacri, grazie alla generosità delle Chiese più ricche, sulla scia di quanto avviene in Oceania. Dall'Asia sono giunti suggerimenti per la "formazione dei formatori" mentre è di un vescovo degli Stati Uniti la proposta di formare "professionisti della Parola" tra il laicato, definito "il gigante dormiente che si sta risvegliando". Salvaguardia dell'ambiente, validità giuridica della Parola, eventuali congressi biblici gli altri temi. Molto applaudite infine le parole del cardinale Arinze, il quale ha avuto una deroga al limite di tempo previsto, per annunciare alcune novità liturgiche in applicazione della Sacramentum caritatis, l'esortazione apostolica scaturita dal precedente Sinodo.
Alla presenza di 209 padri sinodali, l'undicesima congregazione generale è stata caratterizzata dai tredici interventi preordinati, moderati dal presidente delegato di turno, il cardinale brasiliano Odilo Pedro Scherer. Tra i temi svolti dai padri sinodali in questa fase il fenomeno della globalizzazione connesso con la sfida delle moderne tecnologie; i rischi del secolarismo; le antiche e nuove povertà, le molte emarginazioni nel mondo, di fronte all'annuncio del Vangelo.
Rispetto alla visione teocentrica dell'uomo e delle sue azioni in questo mondo - ha detto in proposito il vescovo di Estelí (Nicaragua), monsignor Juan Abelardo Maria Guevara - si è sviluppata una visione sempre più antropocentrica interessata alla realtà immediata, individuale e concreta. "Si tratta - ha aggiunto - di un ateismo pratico". Ciò ci costringe "ad un grande sforzo intellettuale che - ha detto ancora - si presenta come una sfida secondo le parole di Giovanni Paolo ii "quella di saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento"".
Particolare attenzione è stata rivolta dai padri sinodali al problema della povertà e dell'emarginazione del mondo. La Chiesa, è stato detto, mentre continua la sua incessante opera di evangelizzazione e promozione umana deve, attraverso la Parola di Dio, anche esortando a rimuovere le cause strutturali di queste piaghe.
È stata inoltre affrontata la questione dell'evangelizzazione in alcuni paesi dell'America Latina le cui culture indigene hanno camminato per lungo tempo parallelamente al percorso evangelico. Con "risultati" già evidenziati dalla Conferenza di Aparecida: "Molti battezzati e pochi evangelizzati".
Diversi i problemi affrontati in alcune zone dell'Africa segnate da molteplici negatività e da una serie di conflitti interni, dove troppo spesso l'evangelizzazione è segnata da interpretazioni riduttive della fede, da orientamenti esoterici e gnostici, da una lettura fondamentalista e al contempo magica, simbolica e ideologica della Bibbia e del Vangelo. Lo ha evidenziato il vescovo di Kinkala, Repubblica del Congo, monsignor Louis Portella Mbuyu, il quale "di fronte a questa situazione complessa" ha indicato come una delle urgenze pastorali nel suo paese quella di "Aiutare, incoraggiare i fedeli di Cristo a leggere la Parola di Dio, a meditarla a pregarla in quanto può "ricreare" l'uomo africano che porta ancora in sé le conseguenze del passato".
I lavori dei padri sinodali sono ripresi questa mattina, lunedì 13. Durante la congregazione, la dodicesima, presieduta dal cardinale William Joseph Levada alla presenza di 234 padri sinodali, sono stati svolti 29 interventi. Il richiamo alla conoscenza della dottrina sociale della Chiesa, "grammatica della convivenza umana", la riflessione sullo stretto nesso che lega Parola e comunità dei fedeli, le iniziative seguite alla Giornata mondiale della gioventù di Sydney, sono stati i temi posti particolarmente in rilievo. Il cardinale George Pell, arcivescovo di Sydney, ha ricordato una delle iniziative lanciate durante la Gmg 2008, il sito in rete "Cristo per il terzo millennio". Troppe omelie sono "insipide e poco interessanti" ha detto senza mezzi termini il vescovo Joseph Aké, di Yamoussoukro, proponendo iniziative per migliorare la formazione del clero. Il vescovo ha citato poi l'episodio evangelico dell'incontro tra Gesù e la Samaritana, che può spiegare la dinamica dell'inizio della fede nel cuore dell'uomo; non sono le parole che convincono ma l'incontro con qualcuno che ci ama. La comunità ecclesiale è altrettanto decisiva per la fede del singolo della conoscenza della Parola; l'ha ribadito nel suo intervento il patriarca di Venezia Angelo Scola, riflettendo sull'autentico significato della pia lectio; non solo studio del testo divino, e neanche reazione immediata all'ascolto, ma un dialogo continuo che si illumina di senso solo condividendo la vita della Chiesa. Troppe volte l'Antico Testamento viene strumentalizzato e usato per veicolare messaggi politici hanno sottolineato il vescovo libanese Guy-Paul Noujaim e Christo Proykov, presidente della Conferenza episcopale della Bulgaria, che ha criticato anche "l'uso e l'abuso di testi apocrifi che diffondono una visione caricaturale di Gesù".
Monsignor Antony Devotta, vescovo di Tiruchirapalli, nel suo intervento è tornato sulla situazione dell'India per sottolineare che "non esiste solo una persecuzione diretta nei confronti dei cristiani, come avviene in questi giorni", ma "anche una persecuzione indiretta non meno dolorosa". "Chi si converte al cristianesimo, - è stata la denuncia del Presule - specialmente se appartiene ai ceti più popolari, viene discriminato e privato dei benefici economici". Il presule si è poi soffermato sul ruolo fondamentale svolto dai laici nell'evangelizzazione, definendoli come il "nostro tesoro più grande" e la speranza della Chiesa nel mondo globalizzato. I laici non solo possono dare un contributo rilevante all'annuncio del Vangelo, ma possono aiutare a comprendere e a interpretare la Parola di Dio.
Delle difficoltà dei cristiani di vivere in pace con altre culture e religioni ha parlato anche il cardinale Sfeir, il quale ha descritto la situazione del Libano. Fino a quaranta anni fa il Paese era caratterizzato dalla convivenza islamo-cristiana, mentre negli ultimi anni ingerenze esterne hanno complicato ancor più la situazione. Per questo motivo, la presenza e la vita dei cristiani in Libano diventa sempre più difficile, tanto che a migliaia hanno abbandonato il Paese. A questo proposito, il cardinale ha lanciato un grido di allarme, in quanto "se la tendenza a emigrare verso l'Occidente rimarrà invariata, nel giro di qualche decennio il Libano e l'Oriente perderanno la presenza significativa dei cristiani. La speranza della comunità ecclesiale libanese e fatta propria dal porporato è riposta nell'intercessione dei fratelli maggiori nella fede, ai quali i fedeli si rivolgono".
Questo pomeriggio i padri sinodali si recano nella basilica di San Paolo fuori le Mura dove saranno accompagnati a visitare la tomba dell'Apostolo. Successivamente assisteranno a un concerto offerto dalla Fondazione pro musica e arte sacra, eseguito dai Wiener Philharmoniker, diretti da Christoph Eschenbach, i quali eseguiranno la sesta sinfonia di Anton Bruckner.



(©L'Osservatore Romano - 13-14 ottobre 2008)

I settanta volti della Bibbia

Uno sguardo sull'esegesi

di Gianfranco Ravasi

"Come un martello frantumando la roccia sprigiona molte scintille, così anche un solo passo delle Scritture dà luogo a diversi significati per cui ogni versetto si apre a molteplici letture". Questa suggestiva dichiarazione del trattato talmudico sul Sinedrio (34 e 35) risuona ripetutamente e secondo iridescenze diverse nella tradizione giudaica: "La Bibbia ha settanta volti (...) In ogni parola sacra brillano molte luci (...) Dio ha pronunciato una parola, due ne ho ascoltate". Né era stata da meno la tradizione patristica che con san Gregorio Magno nelle sue Omelie su Ezechiele ripeteva che "le parole della Sacra Scrittura sono pietre squadrate" (ii, 9, 8), le cui facce differenti rivelano diversi profili, un po' come dirà, secoli dopo, Gandhi a proposito della verità: "Essa è simile al diamante: è una sola, ma ha molte facce".
Nella sua Dottrina cristiana, sant'Agostino affermava che "dalle stesse parole della Scrittura si ricavano più sensi (...) perché le stesse parole vanno intese in più modi" (iii, 27, 38). Tutte queste dichiarazioni sono alla base della complessità dell'ermeneutica biblica che da sempre ha adottato una pluralità interpretativa prospettica, a partire dai celebri quattro sensi della tradizione medievale. A questo riguardo è significativa la trascrizione aggiornata che ne aveva fatto Hans Urs von Balthasar nel saggio Con occhi semplici. Verso una nuova coscienza cristiana (Herder-Morcelliana, 1970), quando scriveva: "I quattro sensi scritturistici celebrano una loro nascosta risurrezione nella teologia odierna: infatti il senso letterale pare come quello da far emergere in quanto storico-critico; quello spirituale in quanto kerigmatico, quello tropologico in quanto esistenziale e quello anagogico come l'escatologico".
La pluralità dei significati - soprattutto per quanto concerne il cosiddetto "senso letterale" - viene spesso raggiunta anche attraverso la molteplicità delle strumentazioni esegetiche che si sono affinate in questi ultimi decenni, ridimensionando un po' il metodo "storico-critico" che era il dominante, se non l'esclusivo, fino a esercitare talora - come è stato detto - una sorta di "imperialismo" critico. È facile intuire in questa moltiplicazione della metodologia esegetica l'ormai prevalente "specializzazione" a cui sono approdate le scienze moderne e sospettarne subito il rischio, quello dell'unilateralità, dell'assolutizzazione del "parziale", del considerare la "faccia" messa in luce come l'unica dell'intero diamante della verità, cioè della pagina sacra.
A noi, nello spazio ristretto di questa panoramica, interessa soprattutto delineare i percorsi fondamentali seguiti dai vari approcci, che esemplificheremo tenendo conto soprattutto delle letture dei testi evangelici. Si tratta quasi di quattro grandi viali che, però, possono essere calpestati in forme diverse, con mezzi di trasporto differenti. La prima arteria è quella della "nuova critica letteraria". Anche in ambito profano, accanto al tradizionale metodo storico e filologico, si sono accostate nuove forme di analisi dei testi. Ne ricordiamo tre come particolarmente significative. C'è innanzitutto l'analisi "retorica" che, pur partendo dall'analoga pratica classica iniziata con Aristotele e proseguita con famose figure della grecità, latinità e cristianità - tanto per fare qualche esempio, pensiamo a Demostene, a Cicerone, Quintiliano e a Severino Boezio - si è sviluppata ora secondo canoni di nuovo conio, tant'è vero che si è soliti parlare di "nuova retorica" (lo studioso Charles Perelman).
Essa, andando oltre la mera inventariazione delle figure e degli artifici oratori, mette l'accento sul fatto che nel linguaggio c'è una dimensione non meramente "informativa" ma anche "performativa", cioè di convincimento e coinvolgimento dell'altro, dimensione capitale soprattutto nel discorso religioso. In questa luce i Vangeli sono esemplari perché sono stati elaborati proprio a partire da un kèrygma, cioè da un annunzio che voleva essere persuasivo e convincente e che era impostato per raggiungere l'adesione dell'ascoltatore. È, quindi, importante tener conto delle strategie usate da Gesù e dagli evangelisti per comunicare a uditori differenti il messaggio del Regno di Dio, ed eventualmente anche per continuarne l'applicazione nei nuovi contesti attuali - esemplare è già il caso della "retorica" di Paolo.
Un altro tipo di analisi letteraria è quella "narrativa". Essa è decisiva in tutta la Bibbia che è una descrizione efficace della storia della salvezza e lo è, a maggior ragione, nei Vangeli che sono il racconto della vita, delle opere e del messaggio di Gesù. Lo stesso Cristo per parlare del Regno di Dio ricorre spesso a uno strumento narrativo, la parabola. La narratologia contemporanea è, però, complessa e si dedica a individuare il punto di vista del narratore - che può essere l'autore "reale" che ha composto il racconto o l'autore "implicito", cioè la figura che emerge come protagonista - e il punto di vista del lettore "reale" e di quello "implicito", cioè colui che l'autore vuole avere, quasi plasmandolo nel corso della lettura.
Questa della comunicazione narrativa, che s'intreccia con la precedente retorica, ha una metodologia che merita di essere studiata e applicata proprio per un annunzio che sia coerente con la matrice storica e non meramente teorica della rivelazione cristiana e che sia efficace nei suoi risultati di attenzione e di adesione. In qualche modo l'analisi narrativa dei Vangeli s'intreccia anche con la terza forma di esegesi letteraria che vorremmo presentare, quella "semiotica" che ebbe come punto di avvio il cosiddetto "strutturalismo" dello svizzero Ferdinand de Saussure (1857-1913). Affidato spesso a un linguaggio esoterico e iniziatico, dotato di itinerari diversificati secondo le varie scuole - gli esegeti che lo applicano prediligono la "scuola di Parigi" fondata dal francese lituano Algirdas J. Greimas - questo approccio si fonda soprattutto sulla "sincronicità" e sull'"immanenza" del testo.
Detto in termini molto semplificati, anziché inseguire le lunghe ricerche storico-critiche sulla genesi di uno scritto, sugli autori, sui destinatari, sui contesti culturali e sociali e così via (la "diacronia"), ci si ferma al testo in sé, preso come un tutto in sé, costruito secondo una rete di relazioni la cui individuazione ci permette di isolarne l'impianto e il significato globale. Esemplari in questo senso sono le parabole evangeliche o i racconti di miracoli che, analizzati semioticamente senza il ricorso a ricerche storico-filologiche pesanti, rivelano il loro progetto e il loro messaggio già nella superficie testuale - sempre in Francia, molti esegeti hanno offerto al riguardo risultati interessanti per la catechesi; tra questi segnaliamo il "Gruppo di Entrevernes" che ha pubblicato alcuni libri tradotti anche in italiano.
È giunto il momento di aprire un altro "viale", quello delle "scienze umane". Ci sono, infatti, alcune discipline moderne che si dedicano a studiare il fenomeno umano nel suo agire e svelarsi individuale e comunitario. Si sono, così, delineati anche alcuni metodi di interpretazione di quel fenomeno umano speciale che è l'opera letteraria. Anche per questa strada generale descriveremo tre diversi itinerari, condotti con strumenti o "veicoli" differenti. Iniziamo con l'analisi "sociologica" che, per quanto riguarda i Vangeli, è iniziata nei primi trent'anni del secolo scorso con la "Scuola di Chicago", ma che è diventata rilevante a partire dal 1970.
È, infatti, evidente che tutta la Bibbia presenta una particolare struttura sociale che ha caratteristiche specifiche e in evoluzione e che incidono sul messaggio. Dopo tutto la stessa storicità della rivelazione fa sì che essa sia incarnata in precise coordinate sociologiche. Significative al riguardo sono state le ricerche del tedesco Gerd Theissen con la sua Sociologia del cristianesimo primitivo (1979), che si è anche attenuto agli aspetti del folclore e del colore locale, tipici dell'epoca di Gesù. Naturalmente i metodi propri di ciascun orientamento sociologico possono condizionare i risultati acquisiti attraverso il vaglio dei dati. Fece, così, scalpore la cosiddetta "lettura materialista" dei Vangeli, come quella proposta in passato dal portoghese Ferdinando Belo per Marco. Se può essere rilevante determinare il "vissuto" concreto di Cristo e della Chiesa delle origini per comprenderne certi pronunciamenti, è però insufficiente la riduzione della loro vicenda - e di ogni altra - ai condizionamenti economico-sociali.
Affine, anche se con una sua autonomia di percorso, è l'analisi di "antropologia culturale" che allarga il ventaglio dei dati, interessandosi anche degli usi, dei costumi, delle feste, delle danze, dei miti, dell'arte, dei riti, dell'etnologia eccetera. Molti aspetti dell'insegnamento di Gesù, ivi compresa la categoria fondante del Regno di Dio o la concezione del tempo della salvezza, possono essere illuminati grazie a questo approccio. Tanto per fare un esempio molto specifico, che tra l'altro dimostra la connessione col metodo sociologico, pensiamo all'opera dell'americano Halvor Moxnes, The Economy of the Kingdom (1989), che esamina il Vangelo di Luca sulla base dello schema "patrono-benefattore e cliente-suddito", tipico dell'orizzonte greco-romano, superato però dalla nuova prospettiva cristiana ben marcata dal terzo evangelista.
Terza e celebrata analisi è quella "psicologico-psicanalitica" che, a partire da Freud e Jung, ha occupato un posto sempre più rilevante nella cultura contemporanea e che, perciò, è stata applicata anche alla religione e ai testi sacri. In particolare, oltre alla comprensione delle dinamiche proprie della conoscenza e coscienza religiosa, questo approccio ha favorito l'approfondimento dell'uso e del significato del simbolo che è la via regale della comunicazione religiosa. Molti sono stati i risultati positivi ottenuti anche per la penetrazione dell'esperienza di Gesù e della Chiesa così come è presentata dai Vangeli. Facile è intuire anche le degenerazioni riduttive. Il caso del tedesco Eugen Drewermann, sul quale è stato detto e scritto molto, è emblematico: le sue interpretazioni secondo gli archetipi junghiani di Marco (1987-88) e Luca (1986) e la sua Psicologia del profondo ed esegesi (1984) sembrano dissolvere la dimensione storica dell'annunzio cristiano riducendolo a pura interiorità psicologica.
Siamo, così, a una terza strada che potremmo definire "contestuale", cioè legata a sensibilità particolari di questi ultimi tempi. Più che di metodi propri, si tratta di attenzioni puntuali che vengono elaborate attraverso i vari strumenti delle scienze umane appena descritte. Facciamo cenno a due tipologie. La prima è quella della lettura della Bibbia legata alla "teologia della liberazione", cioè protesa alle necessità del popolo sfruttato e oppresso così che il Vangelo diventi sia alimento della fede ma anche della vita e dell'impegno per la giustizia. È noto che questa lettura ha avuto un'incidenza marcata soprattutto in America Latina e ha prodotto commenti biblici interessanti, tradotti anche in altre parti del mondo.
Il senso profondo del Dio che salva, l'insistenza sulla dimensione comunitaria della fede, l'urgenza della giustizia e dell'amore, il Vangelo come vessillo di speranza e di libertà sono componenti preziose. Il rischio di una riduzione della Bibbia a testo di impegno socio-politico e alla costituzione di una sorta di escatologia terrena è, però, lo scotto pagato in certe pratiche di questa lettura "liberazionista". Altrettanto contestuale è un altro modello interpretativo che vogliamo evocare e che ha ottenuto grande successo soprattutto nei Paesi anglosassoni.
Si tratta della lettura "femminista", iniziata negli Usa già sul finire dell'Ottocento con la Woman's Bible (1885 e 1898) e oggi ben più diffusa e organica, fino a estendersi alla liturgia e al linguaggio ecclesiale - il cosiddetto linguaggio "inclusivo", cioè non sessista. Molti sono i pregi di questa attenzione alla figura femminile come parte fondamentale non solo dell'essere creature umane, ma anche dello stesso profilo biblico di Dio. Lo stesso Gesù e la Chiesa delle origini superano la concezione maschilista della società greco-romana: "Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Galati, 3, 28). Evidenti, però, sono anche gli eccessi ai quali si è votata questa ermeneutica, quando cade in quella stessa unilateralità che denuncia, riguardo alla tradizionale esegesi "maschilista", rivelando certi furori esclusivisti e radicali.
Eccoci, così, all'ultimo percorso "basato sulla tradizione". La Bibbia coinvolge anche una platea di lettori che la fanno vivere, la attualizzano, la incarnano. Noi sappiamo che la tradizione cristiana è "assistita" dallo Spirito Santo, secondo una delle promesse di Cristo. Si è, così, convinti che la cornice della fede che accompagna la proclamazione della Bibbia sia importante per una lettura specificatamente teologica. Si è configurato per questa via l'approccio "canonico" alle Scritture secondo il quale ogni singolo testo biblico dev'essere interpretato all'interno dell'unica Rivelazione e dell'unico disegno divino e naturalmente dell'unica "Bibbia" o "Scrittura". Anche il Vangelo, perciò, dev'essere inteso nel suo rapporto alla Prima Alleanza e non isolato come unica e definitiva Parola divina o come testo storico-letterario a sé stante. Inoltre, dev'essere collocato all'interno della costante lettura della Chiesa.
Un aspetto particolare di queste interpretazioni "tradizionali" è quello della cosiddetta "storia degli effetti del testo" (Wirkungsgeschichte). Un testo, infatti, ha anche una sua appropriazione da parte dei lettori che lo fanno "esplodere" in tutte le sue potenzialità e ricchezze attraverso l'intuizione letteraria, artistica, ascetica, mistica, teologica. C'è una fecondità particolare in questo metodo perché mostra il fiorire della Parola di Dio e di Cristo nelle sue iridescenze e nelle applicazioni: pensiamo solo al contributo secolare offerto dall'arte per rendere più fragranti i dati evangelici così che alimentassero la fede e la vita, la comprensione e l'adesione dei cristiani.
In conclusione e in forma di suggerimento bibliografico, per tutte le questioni da noi trattate rimandiamo al prezioso documento della Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa (Libreria Editrice Vaticana 1993). "La Scrittura ha bisogno dell'interpretazione e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta". Queste parole rivolte da Benedetto XVI al mondo della cultura, lo scorso 12 settembre a Parigi, sono la sintesi del nostro viaggio molto semplificato e sintetico nel mondo dell'esegesi contemporanea e sono anche un appello rivolto all'intera comunità ecclesiale perché continui a cercare la Parola nelle parole, a scoprire il Logos, cioè il Verbo eterno e divino, nella sarx, ossia nelle espressioni storico-culturali nelle quali e attraverso le quali si è manifestato e si manifesta.



(©L'Osservatore Romano - 13-14 ottobre 2008)