1968
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Io sono Paolo Merolla, se siete qui credete di essere dei perdenti, infatti lo siete.
sabato 23 maggio 2009
1968
martedì 19 maggio 2009
Il grande Cardinale López Trujillo
I VALORI DELLA FAMIGLIA
E IL COSIDDETTO SESSO SICURO
Una riflessione di Sua Eminenza
il Card. ALFONSO LÓPEZ TRUJILLO
Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia
1º dicembre 2003
INDICE
PUNTI PRINCIPALI
lunedì 27 aprile 2009
La direzione finale del cosmo
Il 28 aprile presso l'istituto Veritatis Splendor si tiene una conferenza intitolata "La questione del finalismo nei processi della natura". Ne pubblichiamo alcuni stralci.
di Marc Leclerc
Pontificia Università GregorianaSecondo la visione del mondo che regge da quasi due secoli la concezione dominante delle scienze positive, queste costituiscono l'unica conoscenza legittima e verificabile, pur essendosi formate tramite il rifiuto sistematico di ogni causalità finale. Per il Circolo di Vienna, il ruolo della filosofia si limita praticamente a "eliminare le scorie metafisiche e teologiche accumulate da millenni" - secondo l'espressione del Manifesto del 1929 - per purificarne e liberarne le scienze sperimentali e consentire loro di raggiungere la piena maturità, nella perfetta autosufficienza.
Liberare l'uomo dall'illusione delle cause finali diviene un obiettivo essenziale dei neopositivisti. La natura è perfettamente obiettiva e può essere conosciuta a posteriori tramite esperimenti controllabili, con l'aiuto della logica e della matematica, prettamente analitiche e quindi "tautologiche", secondo questa epistemologia.
I tre aspetti indissociabili che costituiscono il postulato fondamentale della "concezione scientifica del mondo" sono l'esclusione sistematica di ogni finalità naturale che accompagna la struttura puramente obiettiva del metodo scientifico e dalla riduzione di ogni conoscenza a ciò che esso può determinare.
Di tale postulato, Jacques Monod offre un'espressione molto chiara e esplicitamente antifinalista, che chiamerà "il postulato d'obiettività": "La pietra angolare del metodo scientifico è il postulato dell'obiettività della natura. Cioè il rifiuto sistematico di considerare come capace di condurre a una conoscenza "vera" ogni interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di "proietti"". Esclusa dal metodo scientifico, unico capace di portare ad una vera conoscenza, la finalità nella natura si riduce ad una pura illusione antropomorfica. La "teleonomia" riconosciuta nel comportamento degli esseri viventi non può quindi che ridursi al risultato aleatorio di un meccanismo cieco.
Come superare l'aporia del positivismo, rifuggendo allo stesso tempo un finalismo ingenuo? Su questa via il pensiero critico di Joseph Maréchal (1878-1944) sembra insostituibile. La finalità dell'intelligenza ha un ruolo fondamentale in questo pensiero, che supera l'agnosticismo kantiano tramite l'analisi rigorosa delle implicazioni del dinamismo intellettuale, fondamento immediato della conoscenza obiettiva. In un dialogo fecondo fra la critica filosofica e le scienze sperimentali, Maréchal riannoda i legami tra la "conoscenza d'oggetto" nel senso fenomenale della parola, e l'affermazione necessaria dell'essere, livello questo in cui si può ritrovare criticamente una vera finalità naturale. Secondo Maréchal "ogni movimento tende verso un fine ultimo, secondo una legge, o forma specificatrice, che imprime a ogni tappa del movimento il segno dinamico del fine ultimo". "Questa finalità interna del movimento - precisa - lungi dall'entrare in conflitto con il determinismo causale, ne è, al contrario, la prima condizione razionale". Nell'ambito dell'affermazione realista, che supera le scienze avvolgendole per intero, lo studioso sostiene che "ogni divenire, ogni movimento che non sia un semplice spostamento passivo, tende, di per sé, verso un riposo finale o verso un fine ultimo".Per progredire in questa articolazione tra scienze e metafisica, si deve ricorrere alle prospettive complementari di Pierre Scheuer e di Gaston Isaye. Scheuer analizza il tipo di rapporto che unisce, nella distinzione, la metafisica alle scienze positive. Ecco l'intuizione centrale: la metafisica è "immanente per modum formae al sapere scientifico, nel modo in cui l'anima è immanente al corpo".
Sembra essenziale di riconoscere detta immanenza della metafisica alle scienze, in modo di preservare queste ultime dalla tentazione ricorrente di pretendere all'autofondazione, all'autosufficienza. Una tentazione illusoria come rivela la storia recente delle scienze alla ricerca dei propri fondamenti. Infatti se bisogna evitare la pura giustapposizione di campi senza comunicazione, il rischio maggiore sarebbe che la scienza si erga indebitamente in una forma di metafisica, interamente dogmatica, pretendendo dire l'ultima parola de omni re scibili. A questo punto la scienza si muta in ideologia, che è il suo contrario.
Per ritrovare il cammino della vera finalità della natura, integrando i dati principali delle scienze, occorre sviluppare la prospettiva d'interazione accennata da Scheuer. In questo senso si è mosso Gaston Isaye (1903-1984), che ha delineato un'interazione reciproca, senza circolo vizioso, tra le scienze e la filosofia.
La chiave si trova nella giustificazione dell'induzione. Non si può dedurre legittimamente, da premesse scientifiche, alcuna conclusione di portata metafisica, e nemmeno il contrario. Se si vogliono evitare la pura giustapposizione sterile di campi, come pure le confusioni dannose, l'unica via praticabile sembra quella induttiva, da definire precisamente, via che permetterà in particolare alla riflessione filosofica di raccogliere tutti gli insegnamenti che può ricevere, non solo dalla forma, ma anche dai principali risultati della ricerca scientifica. Bisognerà però giustificare l'induzione, prima all'interno delle scienze sperimentali, poi a livello dell'interpretazione metafisica del sensibile.
Per Isaye l'induzione appare come un primo principio della conoscenza sperimentale. In questo caso ogni dimostrazione si rivela impossibile, pena la petizione di principio. Tuttavia, come per il principio di non contraddizione, ciò non significa che debba rimanere arbitraria o che sia legittimo di farne a meno. L'esempio più chiaro è forse quello della percezione induttiva dell'intenzione soggiacente al comportamento degli altri esseri umani: l'intenzione in quanto tale non è sensibile, ma l'induciamo legittimamente dalla percezione sensibile di certi comportamenti osservabili, nel mondo fenomenale. Certo ci possiamo sbagliare sulle intenzioni particolari di qualcuno, ma non sul carattere fondamentalmente intenzionale di ogni comportamento umano deliberato. È poi sulla stessa base induttiva che si potrebbe stabilire l'esistenza di una finalità naturale reale, partendo da ciò che si osserva al livello dei fenomeni del mondo vivente, quali descritti dalla biologia.
Per concludere, vorremmo indicare brevemente alcuni punti di riferimento per una rilettura critica della finalità nella natura. Come punto di partenza, bisogna considerare la finalità deliberata dei nostri propri comportamenti e le sue condizioni di possibilità. L'esistenza di tale finalità è evidente: la induciamo inevitabilmente dal comportamento altrui. D'altra parte, la realtà di una finalità naturale nell'uomo, intrinseca alla stessa natura della sua intelligenza e della sua volontà, è stata ampiamente stabilita dalle analisi di Maréchal. Questa finalità naturale si manifesta anche al livello della vita biologica nell'uomo, che ne costituisce una condizione di possibilità e l'accomuna nello stesso tempo al mondo animale: ogni atto umano dell'intelligenza e della volontà è condizionato dalla sua natura di essere vivente, legato a tutti gli altri e sottomesso alle stesse leggi fondamentali. La finalità intelligibile dell'uomo appare difatti come il fine prossimo della sua costituzione biologica, essa stessa attraversata da una finalità naturale, anteriore a ogni uso della libertà. Un segno indubitabile di questa finalità spontanea, inconscia e non deliberata, sta nel fenomeno del sogno, che condividiamo con gli altri mammiferi. Nell'uomo, il suo senso particolare legato al linguaggio, è rivelato tra l'altro dall'analisi freudiana dell'inconscio, supponendo certo che questi abbia una finalità obiettiva e decifrabile, per chi ne possieda le chiavi.
In ogni caso, la nostra vita biologica, condizione necessaria ma non sufficiente della nostra esistenza consapevole, non è pensabile se non in stretto legame con tutto il mondo vivente, esso stesso condizionato dalla struttura globale dell'universo: ritroviamo così il principio antropico su un altro piano. La nostra finalità, vista in modo retrospettivo, è quindi sospesa a quella di tutto il mondo vivente, dove sembra legittimo leggere la nostra emergenza come un fine particolare. Il mondo della vita appare come il risultato di un'immensa evoluzione, che sulla Terra è durata almeno tre miliardi e mezzo di anni. In quanto condizione di possibilità della nostra presenza come esseri finalizzati, questo ampio processo sembra attraversato da un'analoga finalità.
Infine, la condizione fisica di possibilità dell'evoluzione del mondo vivente, come della sua apparizione sulla Terra, è costituita dall'intera evoluzione cosmologica, partendo dalle sue condizioni iniziali nel modello standard del big bang. Sembra quindi legittimo di leggere questa ultima a partire dalla nostra situazione, quindi all'interno di una finalità reale, che dà senso e unità all'insieme del processo e dei complessi meccanismi in cui esso si realizza.
L'insieme delle scienze positive, animate dall'interno da una ricerca metafisica che le fonda superandole, ci offrono sulle condizioni biologiche e cosmologiche della nostra esistenza un ampio organismo sempre più integrato di conoscenze decisive, di cui la riflessione filosofica non potrebbe fare a meno. I pochi elementi di una critica realista qui suggeriti, nella linea di Maréchal, Scheuer e Isaye, indicano una delle direzioni che potrebbe prendere una feconda interazione tra ricerca scientifica e riflessione filosofica, permettendoci di superare in atto le aporie ricorrenti del positivismo e delle sue vicissitudini. Tale articolazione critica ci acconsente di riconoscere una vera unità finale del cosmo, supponendo una teleologia criticamente fondata.
(©L'Osservatore Romano - 27-28 aprile 2009)
martedì 21 aprile 2009
Sant'Anselmo, vescovo e dottore della Chiesa
Storia di un malinteso
Negli ultimi decenni una cospicua serie di monografie e di saggi pubblicati a livello internazionale ha testimoniato l'interesse degli studiosi per una rilettura attenta e fedele all'ispirazione euristica e metodologica del Proslógion di Anselmo d'Aosta, in particolare dell'unico argomento (unum argumentum) sviluppato nei capitoli 2-4 dell'opera. Anselmo nel Proemio all'opera lo presenta come l'argomento unico, che per essere provato non necessita di altro che di sé solo. Ritenendo condivisibile la tesi degli interpreti più recenti - tra cui spiccano Michael Corbin, Jean-Luc Marion, Pavel Evdokimov, Coloman Etienne Viola - i quali individuano una notevole divergenza tra l'argomento sviluppato da Anselmo nel Proslógion e la rielaborazione compiuta nella successiva storia della filosofia, che l'ha costretto nella denominazione di "argomento ontologico", intendiamo qui proporre una lettura puntuale dei tre capitoli menzionati dell'opera anselmiana, rimarcandone successivamente la distanza dalla rielaborazione fatta dai sostenitori dell'argomento ontologico.
Nel Proslógion Anselmo si dichiara insoddisfatto delle argomentazioni dialettiche su Dio, la creazione e la Trinità, elaborate in una precedente opera intitolata Monólogion, perché troppo ampie e frammentate; nel frattempo la ricerca di un argomento dalla forza probativa più concentrata ha avuto successo e, nel suo nucleo dialettico essenziale, esso coincide con una precisa nozione di Dio come "ciò di cui non si può pensare il maggiore". Anselmo ricava la formula dalla tradizione - in particolare da Agostino e da Boezio - ma la ritiene anche una valida sintesi dei connotati del Dio della rivelazione biblica, e perciò la introduce con il verbo "crediamo", che vale sia per dire di un dettato della fede, sia per esplicitare una denominazione coestesa con la struttura del pensiero, riscontrabile in ogni tradizione culturale o religiosa che attribuisca un significato alla parola "Dio".
Di fronte a questa nominazione di Dio, Anselmo passa a valutare la posizione dell'insipiente - desunta da un passaggio del Salmo 13 - il quale afferma che Dio non esiste, e si domanda che cosa può significare l'affermazione "Dio non esiste". Perché l'affermazione raggiunga un livello di comprensione da parte dell'intelletto, l'insipiente deve riferirsi al termine Dio intendendolo come ciò di cui non si può pensare il maggiore; pertanto il senso del suo dire si traduce nell'affermazione che Dio esiste solo nell'intelletto: infatti, se di esso negasse l'esistenza anche nell'intelletto, l'insipiente non potrebbe attribuire più alcun significato alla parola Dio, né alla sua negazione.
In questa direzione circoscritta, la negazione dell'esistenza di Dio - riportata, in positivo, all'affermazione che Dio esiste solo nell'intelletto e non nella realtà - implica una contraddizione: è contraddittorio dire che ciò di cui non si può pensare il maggiore sia ciò che esiste solo nell'intelletto, poiché io posso pensarlo esistente anche nella realtà, e così facendo penso qualcosa di "maggiore".
Non resta perciò che respingere la posizione dell'insipiente perché inficiata da manifesta contraddizione. Anselmo si appella all'evidenza: non siamo di fronte ad una dimostrazione vera e propria, articolata in premessa maggiore e minore; l'esistenza nella realtà (in re) non significa esistenza empirica, ma esistenza in generale o esistenza reale, e la forza probativa della conclusione è demandata al principio di non-contraddizione, ossia è immediatamente evidente l'aporeticità della tesi dell'insipiente, il quale, confinando ciò di cui non si può pensare il maggiore nel solo intelletto, finisce con affermare che non è ciò di cui non si può pensare il maggiore. La contraddizione è tolta solo affermando che ciò di cui non si può pensare il maggiore deve essere pensato esistente e nel pensiero e nella realtà.
Nel successivo capitolo terzo Anselmo presenta una seconda argomentazione, volta a rafforzare la conclusione precedente, facendo vedere che, in ultima istanza, si deve concludere che Dio esiste in modo così vero che non può nemmeno essere pensato non esistente, sia per cogenza della ragione dialettica, sia secondando l'istanza teologica, connessa con la "logica della rivelazione": dire che Dio non esiste significa dire - senza poterlo pensare - che ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore, ossia equivale a dire: Dio non è Dio; Dio è un idolo; Dio è pari a una qualsiasi cosa creata, di cui si può pensare il maggiore:
L'ultimo interrogativo del capitolo terzo, apparentemente retorico, è assai importante: se è così evidente alla mente razionale che Dio esiste più di ogni altra cosa, perché l'insipiente dice che Dio non esiste? In realtà lo dice, precisa Anselmo, ma non può pensarlo, e quindi l'insipiente è realmente uno stolto, che non sa quello che dice, e che vorrebbe negare la struttura originaria della mente, ossia la sua capacità di pensare il massimo del pensabile, un massimo che non può essere trasceso né da altro essere, né dal pensiero. Anselmo si assesta in una posizione teoretica che proclama l'evidenza della coincidenza di "ciò di cui non si può pensare il maggiore" con l'essere che non può non essere pensato esistente, e ciò vale solo per la formula dell'unico argomento; è altresì evidente che esso è più grande di tutto quanto si possa pensare, ossia che deve essere pensato come impensabile.
L'unico argomento di Anselmo, denominato a partire dal secolo XVIII "argomento ontologico", ha avuto diverse valutazioni e riprese nella storia della filosofia: l'hanno criticato Gaunilone, Tommaso d'Aquino, Kant; l'hanno considerato valido, con rielaborazioni, Duns Scoto, Leibniz, Wolff, Hegel.
La presentazione dell'argomento ancor oggi prevalente nei manuali di storia della filosofia è così riassumibile: Anselmo vorrebbe dare una vera e propria dimostrazione dell'esistenza di Dio, partendo dal concetto di Dio come essere supremo dalla perfezione insuperabile. Paradigmatica la formulazione dell'argomento che si riscontra nella Quinta Meditazione Metafisica di Cartesio, che intende Dio come l'essere perfettissimo: all'essere che assomma in sé la totalità delle perfezioni pensabili non può mancare la perfezione dell'esistenza nella realtà. La lettura cartesiana riconduce cioè l'argomento all'idea che dall'essenza di Dio si ricavi la sua esistenza; questa lettura è stata quella sempre proposta dagli avversari dell'argomento di Anselmo, a cominciare da Gaunilone, che ha ritenuto insostenibile la prova, perché l'idea del perfettissimo può essere una proiezione vuota del pensiero, pari a quella di un'isola sperduta nell'oceano piena di ogni dovizia. Ma siffatta lettura è stata considerata inautentica e illegittima dallo stesso Anselmo, nella risposta a Gaunilone: "In primo luogo, spesso mi fai dire che l'ente maggiore di tutti è nell'intelletto e che, se è nell'intelletto, esiste anche nella realtà, altrimenti l'ente maggiore di tutti non sarebbe maggiore di tutti; ma una tale argomentazione, in tutto ciò che io ho detto, non si trova in alcun luogo" (Risposta di Anselmo a Gaunilone, 5).
In questo modo Anselmo evidenzia il cardine del suo argomento, che non ricorre all'idea di perfettissimo, ma all'idea di essere intrascendibile detto con formula negativa: "Ciò di cui non si può pensare il maggiore".
La formulazione dell'unico argomento attesta cioè l'evidenza dell'esistenza di Dio, provando paradossalmente che essa non deve essere "dimostrata", dal momento che si "prova" con evidenza che chi la nega è "insipiente", ossia si assesta nell' impossibilità di pensare.
(©L'Osservatore Romano - 20-21 aprile 2009)
(©L'Osservatore Romano - 20-21 aprile 2009)
Versioni di una morale
Nel pomeriggio di lunedì 20 aprile viene presentato a Milano, all'Università Cattolica del Sacro Cuore, il libro di Margherita Pelaja e Lucetta Scaraffia Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia (Roma-Bari, Laterza, 2008, pagine XI+322, euro 18). Pubblichiamo quasi per intero il primo intervento, dopo il quale sono previsti quelli di don Ferdinando Citterio e di Adriano Pessina.
di Maria Luisa Betri
Università di MilanoNon vi è dubbio che l'avventurarsi nell'analisi del rapporto fra Chiesa e sessualità nella storia, nell'ambito di un lungo, anzi di un lunghissimo periodo, dalle origini del cristianesimo fino ai giorni nostri, implichi una buona dose di coraggio e una padronanza più che sicura della "cassetta degli strumenti" storiografici. Certamente, né l'uno né l'altro requisito difettano alle due autrici di questo volume, un volume che intriga, avvince, invita a riflettere e a discutere, soprattutto là dove sembrano affiorare più esplicitamente alcune venature ideologiche.
Una delle cifre più visibili di questo libro è il dualismo, già insito nella fase della sua progettazione e costruzione per mano di due studiose che, da versanti contrapposti - l'una sul fronte laico, l'altra su quello cattolico - e lungo percorsi e prospettive interpretative differenti, non privi di dissonanze, convergono comunque a tratteggiare un grande quadro, ricco di suggestioni. E anche la forte motivazione da cui ha preso le mosse questo lavoro - riesaminare e verificare il consolidato stereotipo della ostinata sessuofobia che avrebbe connotato il cristianesimo prima e il cattolicesimo poi - nasce dalla constatazione dell'altrettanto tenace luogo comune del contrapporsi al piacere e al sesso, come speculare condanna, della colpa e del peccato. "Sensibilità più libere, analisi circostanziate dei testi e delle politiche - si legge nell'introduzione - possono di volta in volta articolare, smentire, porre in relazione con territori e finalità diverse, fino a sgretolare forse il potenziale interpretativo di un assunto così generico".
Insomma, in una complessa architettura, tematica e cronologica al tempo stesso, il volume ha inteso individuare i tratti distintivi dell'atteggiamento del cristianesimo e della Chiesa cattolica nei confronti della sessualità, nelle sue molte declinazioni, dandone conto "nelle trasformazioni, nelle permanenze, nelle flessibilità".
In origine - come mette in rilievo Scaraffia, la cui analisi si è mossa prevalentemente sul piano teologico e culturale - sta il modo nuovo di concepire il rapporto sessuale tra uomo e donna, modo nuovo legato al mistero dell'Incarnazione, al mistero di Dio che si fa uomo: poiché l'Incarnazione "promuove il corpo allo stesso livello dello spirito", l'amplesso fra un uomo e una donna, metafora del rapporto fra l'anima e Dio, fra la Chiesa e Cristo, assume un profondo significato spirituale. Nel cambiamento della concezione del corpo umano, ora reso sacro come "tempio di Dio", la sessualità, in cui corpo e spirito si intrecciano, viene individuata come strumento nel cammino lungo la via della salvezza.
I capitoli iniziali ripercorrono le vicende dalla fase fondativa delle origini fino a tutto il primo millennio cristiano e oltre: scelte di castità, modalità differenti di rinuncia ascetica alla pratica sessuale, uso metaforico della sessualità per parlare del sacro e le sue varie declinazioni iconografiche nell'arte sacra, il lungo iter che giunse a imporre l'obbligo del celibato ecclesiastico, ribadito solennemente a metà Cinquecento dal Concilio di Trento, per rimanere in vigore fino a oggi, e l'affermazione di un modello di matrimonio, fondato sull'inviolabilità del vincolo, e unico ambito legittimo di appagamento del desiderio.
Malgrado le autrici, in apertura di volume, dichiarino il taglio compilativo del loro lavoro, in queste pagine l'interesse a intrecciare la storia del diritto con la storia sociale, a mettere in relazione i comportamenti con le norme e l'applicazione delle norme lascia intravvedere un retroterra di conoscenze di un'ampia casistica ricostruita sullo scavo di carte d'archivio. Il governo della sessualità da parte della Chiesa viene quindi a fondarsi su "una normativa del particolare e del possibile", nella quale l'universalità di regole e dettati intransigenti si miscela a mediazioni in ogni singolo caso, in una inesauribile disponibilità a valutarne il suo contesto e le sue conseguenze, sia nella sfera individuale della coscienza, sia nelle sue ricadute sociali e politiche, per cui al rigore degli enunciati segue spesso una politica di più clemente tolleranza. "Versioni di una morale flessibile", dunque, nella politica di un disciplinamento che si rivela "impossibile" a eliminare comportamenti e pulsioni incoercibili. Tuttavia l'accento posto sulle intenzioni e sui desideri, più che sugli atti in sé, rende i testi della casistica uno strumento di costruzione di una nuova morale: "Un sistema normativo della coscienza, in cui il singolo è al centro di valutazioni e negoziazioni che declinano di volta in volta l'applicabilità della legge universale del bene e del male".La trasformazione epocale muove dallo scorcio del Settecento, quando gli albori del processo di secolarizzazione, nella transizione verso il mondo contemporaneo, cominciano a erodere l'egemonia della Chiesa nel governo della morale, in una società - scrive Scaraffia - che da eteronoma, strutturata dalla religione, si rende autonoma, dandosi leggi proprie ai fini dell'autogoverno, sviluppando un'autocomprensione, in antitesi alla religione, su tutti i temi della vita umana, e quindi anche sul comportamento sessuale. Il quale rientra sempre più ampiamente nel discorso della scienza, della medicina innanzitutto e dell'igiene, e via via della biologia, dell'antropologia, della sociologia, della psicanalisi. Con il crescente estendersi dello sguardo e del controllo medico sul corpo della società, al fine di risanarlo debellandone le patologie e di eliminare o separare le componenti di emarginazione e devianza, la sfera della sessualità, sottratta al controllo e al disciplinamento di matrice religiosa, sarà progressivamente sussunta nel sistema medico-scientifico. Valga come esempio per tutti il caso della masturbazione, oggetto di una vasta trattatistica medica che, tra Settecento e Ottocento, ne enumera con dovizia di particolari quelle che ritiene le nefaste, invalidanti conseguenza patologiche, dalla cecità all'epilessia, in un evidente dislocamento dalla categoria di peccato, e dunque dalla dannazione dell'anima, a quella della malattia, dai degradanti effetti sul corpo.
Nella temperie positivista permeata di laicismo e anticlericalismo tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, la critica alla morale sessuale cristiana si fa più incalzante e polemica, articolandosi nei termini di una vera e propria "questione" sessuale, spesso dibattuta nelle pagine di una pubblicistica divulgativa, in cui si rivendica una pratica sessuale più libera nella sua naturale spontaneità, purché rispettosa di precise regole eugenetiche.
L'ultimo, denso capitolo del volume ripercorre le fasi del confronto, spesso lacerante e conflittuale, della Chiesa del Novecento, e in particolare nel secondo dopoguerra, con le trasformazioni del comportamento sessuale e con le istanze provenienti dalla società moderna, in particolare in materia di controllo delle nascite, di pratiche anticoncezionali e di emancipazione delle donne. Nel corso degli anni Cinquanta si va profilando un'incrinatura tra donne e Chiesa, che si coglie in "mutamenti quasi invisibili nella loro percezione di sé; insofferenze taciute verso un modello ancorato al destino biologico e riproduttivo, aspettative confuse e progettualità da elaborare su percorsi esistenziali che sembrano aprirsi agli scenari dell'istruzione e del lavoro". Tutto ciò contribuisce a "scavare un solco tra il modello cattolico e i soggetti femminili". Il mondo cattolico si divide sulla legittimità della separazione della sessualità dalla riproduzione, all'interno del legame matrimoniale, mentre negli anni Sessanta si profilano le avvisaglie di quella "liberazione sessuale" che si sarebbe pienamente manifestata nel decennio successivo, nel quale il declino dell'influenza della Chiesa si manifesta anche negli esiti dei referendum sul divorzio (1974) e sull'aborto (1981). "La più formidabile crisi della Chiesa cattolica del XX secolo", come qualcuno l'ha definita, e in queste pagine vivamente ricostruita nella dialettica tra innovatori, autorità magisteriale del Pontefice e mondo cattolico, è vissuta nelle tormentate fasi di elaborazione ed emanazione dell'enciclica Humanae vitae, che conferma l'insegnamento tradizionale della Chiesa in tema di matrimonio e condanna recisamente l'intervento umano nella procreazione, suscitando delusione e vibrate critiche. Le cui tesi per altro saranno riprese sviluppate nel pontificato di Giovanni Paolo II, che era stato uno dei consulenti di Paolo VI.
Ma la posizione attuale della Chiesa nei confronti della sessualità è veramente oppressiva e "antimoderna"? La risposta è elusa dalle autrici, giustamente contrarie alla storia che giudica. Dopo l'Humanae vitae, comunque, si sono resi più espliciti i termini del conflitto, non nella banale contrapposizione tra oppressione e libertà, bensì tra una visione "laica" che colloca anche l'atto sessuale nella sfera esclusiva della libertà individuale, e la concezione cattolica che "lo giudica e lo definisce come momento importante del percorso spirituale di ogni credente, un incontro tra anima e corpo che non si può sottrarre al rispetto delle regole religiose. L'una basata su un'analisi scientifica della sessualità e dell'autonomia del soggetto intesa come valore dominante, l'altra fondata sulla costituzione dell'individuo come soggetto morale in un sistema di norme definite".
L'auspicio espresso in chiusura, e che apre, ovviamente, alla discussione, è che "il comportamento sessuale torni a essere problema collettivo", che su di esso, materia oggi più che mai complessa e controversa, si torni insomma a ragionare superando gli steccati ideologici.
venerdì 17 aprile 2009
Sul ring metafisico del Grande Nord
Pubblichiamo un estratto dall'ultimo quaderno "La Civiltà Cattolica" in uscita in questi giorni.
di Antonio Spadaro
La biografia di Jack London (1876-1916) è complessa, eppure nella molteplicità delle avventure di terra e di mare, negli alti e bassi affettivi e ideologici, vibra la stessa personalità, insieme riflessiva e avventurosa, che ama immergersi nella lettura e nella scrittura così come esporsi a imprese che richiedono forza di muscoli e di volontà. La sua scrittura e la sua vita sono parte della medesima avventura. Non sappiamo esattamente come nacque la sua vocazione letteraria, certo è che ebbe a che fare con la voglia di conquistarsi uno spazio vitale, sin dagli anni della sua infanzia, per difendere il quale il piccolo London era disposto a venire alle mani. E subito la sua prima piccola avventura, la caccia alle foche del 1893, divenne un racconto.
Da quel momento in poi ogni esperienza di vita diventò materia dei suoi racconti: la realtà è più grande della pura fantasia astratta.
La prima seria avventura che ispirò London fu quella che lo condusse nel Klondike alla ricerca dell'oro. Un vero e proprio viaggio iniziatico alla ricerca di qualcosa che sembra una metafora del significato dell'esistenza, qualcosa per la quale abbia senso essere in vita. Questa ricerca non può che essere vissuta a contatto con la wilderness, con una natura selvaggia che mette l'uomo alle corde, privo del riparo della vita agiata o protetta.
Il pensiero di Darwin, che a London giunge attraverso l'acerbo e militante entusiasmo per il filosofo Herbert Spencer, lo conduce alla visione esasperata di una lotta per la sopravvivenza dove vince sempre il migliore, il più adatto alla vita, il fittest, che alla fine è il cane. A questa ideologia si unisce l'idea nietzschiana del superuomo divenuta all'epoca moda, abbinata all'immagine dell'uomo di successo e del self-made man. L'eruzione vitalistica, muscolare, essenzialmente virile, nutre l'immaginario del giovane London, che è sempre alla ricerca di una vita vissuta fino in fondo in pienezza, anche se in forme parossistiche.
Il "Grande Nord" è stato per London una fucina di ispirazione. Oltre ai due romanzi [Il richiamo della foresta e Zanna Bianca] molte altre pagine ci parlano di cani, lupi, distese di ghiaccio, corsa all'oro. È come se la carta geografica della Gold Rush delimitasse il territorio di un ring metafisico ed esistenziale, dove i personaggi - siano essi uomini o animali, ma persino elementi della natura - pur rimanendo pienamente reali e concreti, diventano posizioni dello spirito, portatori delle tensioni fondamentali e primigenie della natura umana.
Un racconto come, ad esempio, Love of Life (L'amore per la vita) rappresenta drammaticamente il confronto tra l'uomo solo e ferito con l'immensità di una distesa di ghiaccio. Il protagonista cammina con il suo compagno Bill. Sono entrambi deboli e stanchi, col loro carico di masserizie e d'oro sulle spalle. L'uomo si sloga una caviglia e chiede aiuto all'altro che invece se ne va per la sua strada. Davanti all'uomo ferito resta l'immensità della "paurosa e terribile desolazione" pronta a schiacciarlo. Comincia a tremare ma non si ferma né si lascia vincere dal pensiero dell'abbandono. Si convince che Bill lo avrebbe atteso più avanti: "Era costretto ad aggrapparsi a questa convinzione, altrimenti non avrebbe avuto senso tutta quella fatica, e si sarebbe lasciato cadere per morire". Se l'uomo perde la "compagnia" si lascia morire. E il racconto prosegue in un'atmosfera di sospensione e solitudine tra i morsi della fame e gli espedienti per sopravvivere ai lupi: "I loro ululati vagavano avanti e indietro per quella desolazione, tessendo nell'aria un velo di minaccia così tangibile che si trovò con le braccia tese nell'aria per fendere questa minaccia e ricacciarla indietro, come le pareti di una tenda sbattuta dal vento". Such was life, eh? Questa era la vita?, si chiede.
Nel suo tragitto l'uomo incrocia le tracce di un altro uomo. Poi vede un mucchio di ossa. Era ciò che era rimasto di Bill dopo il passaggio dei lupi. L'uomo prosegue come un fantasma, guidato dalla visione, a chilometri di distanza, del mare e di una nave che assume i tratti di un miraggio irraggiungibile. L'ultimo atto sarà la lotta con un lupo, stremato tanto quanto l'uomo: una lotta estrema, lenta, affannata di due corpi senza più energie. L'uomo l'avrà vinta ma senza alcun trionfo. E sarà salvato dai marinai della nave Bedford che lo aiuteranno a riprendere fiducia nella vita.
Ciò che colpisce, fra l'altro, in "L'amore per la vita" è la proiezione di un dramma in un contesto che amplifica il senso di attesa e di sospensione. Il racconto si tende all'estremo in attesa di un compimento che sembra un miraggio. E questo caratterizza altri racconti di London. Pensiamo, ad esempio, a The Sun-dog Track (La pista del sole), dove i personaggi compiono un viaggio faticoso ed estenuante senza che il lettore ne capisca il senso e il motivo, se non nelle battute finali, dove accade un omicidio, che però resta appeso a se stesso, privo di spiegazioni.
Ma accanto a questi racconti dal sapore "metafisico" ve ne sono altri che rappresentano vivaci casi umani, spesso aperti a domande rilevanti, a casi di coscienza. Così nel racconto The Priestly Prerogative (Il privilegio del sacerdote), dove protagonista è un gesuita, padre Roubeau. London deve aver preso spunto dalla figura di William Judge, un gesuita chiamato "il santo di Dawson", che forniva rifugio e cure ai cercatori d'oro nel Klondike, il quale probabilmente gli salvò la vita quando venne colpito dallo scorbuto.
Ma ancor di più il racconto The God of His Fathers (Il Dio dei suoi padri), che mette in scena il confronto tra due uomini: Baptiste the Red, figlio di un gentleman inglese e della figlia di un capo indiano, e Hay Stockard, uno yankee in cerca d'oro e di fortuna.
Il dialogo tra i due verte sulla religione. Il capo meticcio esprime tutto il suo rancore nei confronti della Chiesa e contro il Dio degli uomini bianchi, che la sua esperienza, segnata da discriminazioni, persecuzioni e ostacoli, aveva identificato come malvagio.
Così Baptiste the Red è chiaro: "Per ogni uomo bianco che viene al mio villaggio, che sia chiaro che io lo obbligherò a rinnegare il suo Dio. Tu sei il primo e ti faccio grazia". Ma il giorno dopo ecco arrivare un pastore missionario che manda su tutte le furie Stockard: sapeva che sarebbe stato fonte di guai con il capo meticcio.
"A te, Hay Stockard, bestemmiatore filisteo, i miei saluti. Nel tuo cuore alberga l'ingordigia di Mammona, nella tua mente i diavoli astuti, nella tua tenda questa donna con la quale vivi in stato di adulterio; eppure di tanti peccati diversi, anche qua in questo deserto, io, Sturges Owen, apostolo del Signore, ti offro il perdono e allontano da te ogni iniquità": è questo il saluto del missionario.Stockard lo conosce e lo spinge ad andar via, ma senza successo: il pastore si dice disposto anche al martirio. Baptiste si infuria e non intende ragioni: se il cercatore d'oro vuole andare libero gli deve consegnare il pastore. Stockard deve fare una scelta, ma "l'etica grossolana del suo cuore" non gli permette lo scambio, nonostante Owen sia per lui soltanto un peso imbarazzante.
Non resta che lo scontro, che svelerà il segreto dei cuori. Owen si dice disposto solamente a due cose: o al miracolo della conversione di Baptiste o a morire martire. Il suo coraggio nasceva dal fanatismo e, con l'imminenza dello scontro, cominciava a vacillare: la debolezza fiaccava i suoi propositi. Stockard era mosso da altro, più elementare, ma solido. In quel frangente, a rischio della vita, si decide a "dare una sistemata" alle sue cose: si fa sposare davanti a Dio con la sua donna e fa battezzare il suo bambino. Segue la battaglia tremenda e selvaggia, favorevole agli indiani. Ma Baptiste è ammirato dal coraggio di Stockard, ferito e irto di frecce, e vuole salvargli la vita: "Ecco un vero uomo! Nega il tuo Dio e avrai salva la vita!", gli urla mentre gli viene condotto il missionario appena scalfito da un graffio al braccio ma in un'estasi di paura. Il missionario rinnega il suo Dio e viene lasciato libero di andare con cibo e canoa. Adesso era il turno di Stockard. "Hai tu un Dio?", gli grida Baptiste. "Sì, il Dio dei miei padri", risponde il cercatore d'oro. "Battista il Rosso diede il segnale, e la lancia sfrecciò colpendolo in pieno petto". Nel racconto la coscienza sembra obbedire a messaggi lontani che vengono "dai padri" e che marcano convinzioni che sono ben più solide di fanatismi posticci. La testimonianza di Stockard fonde insieme la dignità dei propri princìpi e una fede abbracciata in extremis, ma avvertita come un istinto insopprimibile.
Il Novecento ha visto emergere scrittori di grande popolarità, ma di incerta fortuna critica. Jack London è tra coloro che, come Tolkien, pur avendo schiere innumerevoli di lettori non hanno avuto una simile fortuna in ambito critico. Spesso l'ansia di sperimentazione ha fatto apprezzare autori come Joyce, Proust o Beckett per la loro tecnica e non per la loro capacità di leggere ed esprimere le tensioni essenziali della vita. London è stato invece un narratore incostante, ma di razza, lontano da ansie formalistiche e attratto dal gusto di raccontare storie. Persino i concetti in lui alla fine non producono discorsi ma racconti e personaggi. La penna di London è radicalmente narrativa, anche se si nutre di idee, per altro apprese troppo avidamente e passionalmente per essere chiare e distinte. Per questo, in un'epoca che scopre le sue profondità nel labirinto joyciano o della memoria proustiana, o della desolazione eliotiana, l'artigianato letterario di London è apparso volgare e crudo oppure adatto ai più giovani, purché in edizioni ridotte e purgate. Eppure proprio questa crudezza fa delle sue pagine un appassionante "corpo a corpo" e non una palestra di stile. La natura selvaggia diventa il terreno per verificare i significati dell'esistenza: prova e raffina le motivazioni, saggia i cuori, facendo cadere ciò che non ha fondamento. La prima sfida è contro la vita intesa come una cosa ovvia: "È facile vedere l'ovvio, compiere le azioni previste. La tendenza delle vite individuali è statica, piuttosto che dinamica, e questa tendenza è trasformata in impulso dalla civiltà, dove si vede solo l'ovvio, e dove raramente accade l'imprevisto".
London sfida il lettore con l'imprevisto, lo interroga su come abitare il mondo e su come affrontare la vita, cogliendone l'aspetto selvaggio, primordiale. È questa, forse, la più rilevante e impegnativa eredità che London ha lasciato alle generazioni successive.
(©L'Osservatore Romano - 18 aprile 2009)