giovedì 12 febbraio 2009

OR - - 12 febbraio 2009 -- Il «Messiah» di Händel per celebrare l'ottantesimo anniversario dello Stato della Città del Vaticano

Sobrietà potente
Puro intreccio tra fede e musica


In occasione dell'ottantesimo anniversario della fondazione dello Stato della Città del Vaticano, giovedì 12 alle 18 alla presenza di Benedetto XVI si tiene nell'Aula Paolo VI un concerto della Rté Concert Orchestra e dell'Our Lady's Choral Society, di Dublino, diretti da Proinnsías Ó Duinn. In programma il Messiah di Georg Friedrich Händel. 

di Gianfranco Ravasi 

Nella memoria musicale di tutti il Messiah di Händel è inchiodato in modo definitivo all'irruzione gloriosa e grandiosa dell'Alleluia in re maggiore, una vera e propria onda sonora che riesce, più di ogni riflessione teologica, a farci affacciare sull'eterno e sull'infinito, generando un brivido che pervade coro, orchestra e uditorio. Lo stesso musicista aveva contribuito a creare questa convinzione quando, alla richiesta di una descrizione sulla genesi di un simile gioiello musicale, era ricorso alla citazione paolina in cui l'Apostolo evocava una sua esperienza estatica, e aveva confessato di non sapere se avesse composto quel brano "se con il corpo o senza corpo:  Dio solo lo sa" (2 Corinzi 12, 3). 
In realtà questo lavoro - che fu eseguito ben trentasei volte durante la vita del suo autore e fu circondato da memorie e aneddoti esaltanti anche se storicamente dubbi (Händel alla "prima" dublinese avrebbe chiesto ai gentiluomini di parteciparvi senza lo spadino e alle dame senza borsette) - merita di essere seguito soprattutto come limpido modello di "oratorio", quindi contrassegnato da una chiara finalità catechetica e spirituale. Infatti, da un lato, il librettista Charles Jennens (1700-1773), un nobile campagnolo votato all'arte, lasciava cadere l'enfasi che l'aveva accompagnato nell'elaborazione del testo di un altro oratorio händeliano, il Saul, e puntava alla sobrietà potente del puro dettato biblico, costruendo così una trama in cui le pagine dei due Testamenti s'intrecciavano tra loro in un mirabile contrappunto teologico. 
D'altro lato, le note di Händel si distendevano sul testo sacro trasformandosi in una sorta di esegesi musicale, capace di far vibrare in quelle parole il loro messaggio cristologico. È ciò che si può nitidamente percepire anche attraverso l'antologia del Messiah proposta nella presente esecuzione, che raccoglie in un disegno armonico alcuni frammenti di quella solenne partitura che s'allarga nelle due ore e mezzo dell'esecuzione integrale. Cerchiamo, allora, in maniera essenziale di seguire questo itinerario testuale semplificato. 
La voce del tenore parte dalla profezia di Isaia (40, 4) che gli evangelisti adottano come strumento interpretativo della figura del Precursore Giovanni:  valli colmate e monti spianati aprono la "via sacra" sulla quale avanzerà il Messia, che il coro - sempre con le parole di Isaia (40, 5) - contempla come un'epifania gloriosa di luce e di canto. Nel cuore di questa teofania che brilla da lontano, ma che ha contorni planetari, è collocato il celebre annunzio isaiano e matteano della nascita dell'Emmanuele dalla madre vergine (Isaia 7, 14; Matteo 1, 23), annunzio affidato alla icastica incisività della pura e semplice proclamazione nel recitativo del contralto. 
È il momento della gioia e della luce (Isaia 40, 9 e 60, 1) che si diramano dall'alto di un monte attraverso la voce di un araldo-"evangelista" (per due volte si usa l'espressione "recare liete notizie", che nell'ebraico isaiano è mebasseret, l'equivalente del verbo greco euanghelizomai) e con la cascata di luce che avvolge come in un manto Gerusalemme. La sinfonia pastorale che segue, modulata sulla "piva" delle zampogne dei pastori italiani, è destinata a evocare il Natale di Cristo, illustrato dall'ingresso imponente del "re giusto e vittorioso" annunziato dal profeta Zaccaria (9, 9.10). Come è evidente, il musicista di Halle privilegia l'aspetto maestatico dell'Incarnazione. 
Si passa, così, al secondo atto dell'oratorio ove entra in scena la Passione di Cristo, sempre affidata al balenare delle profezie, lette implicitamente sulla base della narrazione evangelica. Neanche in questo caso la selezione, operata nell'esecuzione parziale proposta, impedisce di cogliere la trama di quei momenti drammatici e misteriosi. Entra, infatti, in scena il volto dell'"uomo dei dolori", quella figura misteriosa che Isaia aveva delineato nei quattro canti del Servo del Signore e nei cui tratti la tradizione cristiana aveva intuito il profilo messianico di Cristo:  non per nulla le parole del profeta, che descrivono una vicenda di sofferenza, di emarginazione e di tortura (Isaia 53, 3; 50, 6), sono precedute dalla voce potente del Battista che indica in quel volto "l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo". 
Il coro ribadisce, attraverso un'altra citazione desunta ancora dal celebre quarto carme isaiano del Servo del Signore, che Gesù l'innocente è "trafitto per i nostri delitti" (Isaia 53, 4-5). È poi il tenore, intervallato dal coro, ad aprire il libro dei Salmi per attingere a quelle suppliche che possono dipingere l'incubo della sofferenza, dell'insulto, della solitudine del Cristo paziente. Alla fine, un recitativo secco in mi minore del soprano - sempre ricavato dal citato quarto carme isaiano (53, 8) - presenta l'approdo estremo di quel martirio, che cancella Gesù "dalla terra dei viventi". 
Ormai, però, sta per sorgere l'alba della Pasqua. L'aria del soprano ci offre la speranza del Salmista, certo che il Signore "non abbandonerà la vita del suo santo nel sepolcro" e nella corruzione (16, 10). Ecco, allora, spalancarsi i portali del tempio dei cieli ove, tra le acclamazioni del coro, entra trionfalmente il Risorto, "il re della gloria" (salmo 24, 7-10). Lo zenit celeste a cui ci conduce l'Ascensione, modellata sulla tradizionale lettura allegorica del salmo 68 (19), fa da contrasto col nadir terrestre dell'agitarsi ribelle delle potenze ostili della storia umana che vanamente sfidano il cielo e il suo Signore, come ci ricorda il salmo messianico 2. Ormai è la vittoria del Salvatore a dominare la scena e a far scatenare l'immensa e possente acclamazione del famoso Alleluia impostata, oltre che su quella sorta di moto perpetuo alleluiatico a cui accennavamo, anche su un tessuto testuale desunto dall'Apocalisse (19, 6; 6, 15; 19, 16). 
È a questo punto che il sipario si apre sulla terza parte dell'oratorio nella quale irrompe la voce del soprano che, quasi danzando, intreccia la risurrezione gloriosa di Cristo con la nostra redenzione e lo fa attraverso le parole di un famoso passo, molto arduo nell'originale ebraico, tratto dal canto poetico lacerante di Giobbe. La versione latina di san Girolamo ha trasformato quelle parole oscure in una luminosa professione di fede nel Redentore sempre "vivo"; egli si erge sulla polvere della nostra mortalità umana e sullo sfaldarsi della nostra carne come segno di liberazione, di vita, di speranza (Giobbe 19, 25-26). 
La voce di Giobbe cede idealmente il passo all'Apostolo Paolo che, nell'affresco escatologico supremo del capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinzi, squarcia il velo del destino ultimo dell'umanità. L'estuario del fiume della nostra vita non è spalancato sul baratro del nulla o sull'aridità di un deserto di morte. È lo squillare della tromba, come ci ricorda il basso prima in un recitativo e poi in un assolo - sottolineati appunto dallo squillo della tromba solista - a scandire il nostro varcare la soglia che separa il tempo dall'eternità e lo spazio dall'infinito. "Incorrotti e trasfigurati", ci avvieremo in uno scenario di luce pasquale verso l'incontro, per essere sempre col Cristo risorto. 
Ed è il grandioso coro finale in re maggiore a suggellare l'architettura musicale e teologica del Messiah con un solenne atto di adorazione nei confronti dell'Agnello immolato e glorificato, Cristo Signore, assumendo le parole di uno dei tanti cori che costellano l'Apocalisse (5, 12-13). La "lode, onore, gloria e potenza" attribuite all'Agnello hanno come sigillo l'Amen finale tratteggiato secondo uno stile severo, ma anche avvolto dall'irrompere degli ottoni e dei timpani. L'opera händeliana è, perciò, un esempio alto del "cantare a Dio con arte", come suggeriva il Salmista (47, 8), un emblema dell'intreccio purissimo tra fede e musica, un modello di esegesi cristiana delle profezie messianiche anticotestamentarie, anzi, come aveva scritto il filosofo Friedrich Schleiermacher, "un annunzio compendioso dell'intero cristianesimo".



(©L'Osservatore Romano - 12 febbraio 2009)

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