domenica 15 febbraio 2009

Formicola - - Sacconi e la questione magistratura

Il ministro Sacconi, come è noto, è iscritto nel registro degl’indagati per il reato di violenza privata. Ciò a séguito di una denuncia dei radicali, che gli rimproverano di aver ricordato ai proprietari di una clinica privata friulana le conseguenze amministrative in cui sarebbero incorsi, alla stregua della legislazione vigente, se nella loro «Casa di cura» si fosse «curata» l’uccisione per fame e per sete di Eluana Englaro. Ed è inutile, in questo specifico caso, ripetere la litania dell’«atto dovuto». Come ha ben sottolineato il sottosegretario Mantovano, non è affatto vero che ad ogni denuncia si provveda alla relativa iscrizione: molte, moltissime, vengono direttamente archiviate per manifesta infondatezza o perché concernono fatti non costituenti reato. E questa era la sorte che avrebbe meritato, con ogni evidenza, il libello d’accusa dei radicali.

Tale preteso «atto dovuto» conferma – se mai ve ne fosse ancora bisogno – l’esistenza di una «questione magistratura».

La questione è effettivamente tale ed è pure grave, tanto da indurre a liquidare come vuota querimonia ogni invocazione al distinguo fra questo e quel magistrato: la pretesa non mancherebbe di fondatezza se non fosse travolta dalla dimensione ormai alluvionale del problema. Infatti, esso non concerne questa o quella decisione, la giurisprudenza dell’una o dell’altra Corte, dell’una o dell’altra Procura, dell’uno o dell’altro magistrato. La «questione magistratura» è essenzialmente nel fatto che è dominante il rifiuto da parte dei giudici della propria terzietà e dell’indifferenza rispetto alla causa e persino alla funzione che svolgono, ciò che rende il giudizio effettivamente tale, siccome imparziale. Soccorrono, in proposito, le parole di un giurista autentico, Salvatore Satta (1902-1975): «Bisogna vedere se […] ci sia un dato, il quale rifletta […] proprio l’essenza del giudizio, per cui possa dirsi che se esso manca non ci sia giudizio; […] l’elemento costitutivo del giudizio […]: che […] sia reso da un terzo» (Il mistero del processo, pp. 31-32).

Tale terzietà viene immediatamente tradita – e con essa il giudizio e la funzione del giudice – non appena il processo è messo al servizio di qualcosa, di qualsiasi cosa, diventando «azione». E specificamente «azione Rivoluzionaria», in quanto finalizzata o a una pretesa di risanamento socio-politico, ovvero all’attuazione di nuovi «valori», cioè di punti di vista parziali e sostanzialmente ideologici, che il giudice scruta tra i segni dei tempi e ritiene alternativi quando non antagonisti a quelli «vecchi».

Così, a giudicare è una parte: «la parte che impersonalmente vorrei denominare dell’azione, e che […] si estende […] fino a comprendere forze e poteri di fatto, che del processo e del giudizio sono assai più insofferenti che non il potere legale. […] E come parte preme contro la sottile barriera di legno che […] divide dal giudice: se riesce […] a superarla spiritualmente, sarà la parte che giudicherà e non il giudice, cioè non si avrà giudizio» (Ibid., pp. 33-34). È per questo che, sin dai tempi dei giacobini, la Rivoluzione, invece di procedere per vie spicce allo sterminio dei propri nemici reali o immaginari e all’eliminazione di classi ed elementi ritenuti socialmente nocivi, allo scopo ha istituito i propri Tribunali: si trattava di dare, né più né meno, parvenza di giustizia all’azione Rivoluzionaria, alla volontà di potenza che si attua in termini di dominio sulla storia, sulla vita, sulla morte.

Oggi, che è tempo di Rivoluzione culturale, quest’azione si esercita evidentemente su un terreno e con modalità diversi. Corti e procure si occupano piuttosto della creazione normativa in materia di «nuovi diritti», contro il vecchio mondo, soprattutto quello politico, che è lento a riconoscerli. Procreazione, nascita e morte, matrimonio e famiglia, identità sessuale e «comune senso del pudore», fino alla pseudo cultura psichedelica e drogastica, sono stati e sono i campi di tale azione, che talvolta ha travolto il diritto vigente, altre volte lo ha modificato progressivamente, sempre lo ha riscritto con le sentenze modulandolo sull’io desiderante e ribelle alla legge naturale.

Dalla sentenza Roe vs. Wade, con la quale la Corte Suprema degli USA nel 1973 ha totalmente liberalizzato l’aborto, a quelle più recenti della Cassazione italiana sul caso Englaro, che hanno aperto la strada all’eutanasia riducendola ad affare privato, i «nuovi diritti» sono stati una creazione della giurisprudenza: i giudici, prima dei legislatori – e spesso contro le loro decisioni –, sono stati l’avanguardia della istituzionalizzazione della Rivoluzione culturale e antropologica in Occidente, agendo come parti nei relativi giudizi in funzione dei «valori» che intendevano attuare.

E come è facile rilevare – anche solo pensando alle decisioni delle Corti e dei Tribunali in vari Stati dell’Unione in tema di «matrimonio» omosessuale, sempre sconfessate dal popolo ogni volta che è stato chiamato a pronunciarsi con un referendum –, la «questione magistratura», cioè la questione del giudice che sebbene privo di consenso e mandato popolare si fa parte nel processo politico e legislativo usurpando poteri che non gli appartengono, è planetaria.

Se poi la concorrenza con la politica e con i politici diventa sleale, e si serve dell’arma dell’incriminazione e della persecuzione penale – magari di chi, soltanto esercitando il proprio munus e avvalendosi delle norme vigenti, riconosce l’inapplicabilità e quindi la sostanziale illegittimità di una sentenza e cerca di arginarne le nefaste e antigiuridiche conseguenze –, allora provare a dare soluzione alla «questione magistratura» è affare particolarmente urgente.

Per la politica, e quindi per l’equilibrio tra i pubblici poteri e funzioni, è infatti ormai una pura e semplice questione di sopravvivenza.

Giovanni Formicola

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