lunedì 8 marzo 2010

Il canto di Tolkien per gli uomini monchi

Sul tema della morte e dell'immortalità nei romanzi dello scrittore britannico

Dal libro La falce spezzata. Morte e immortalità in J. R. R. Tolkien (Milano, Marietti, 2009, pagine 320, euro 22) 
l'Osservatore Romano del 7 marzo 2010 pubblica la sintesi - realizzata dall'autore, Andrea Monda - di uno dei saggi. Eccola qui.

"Di che cosa parla?" è la domanda più semplice che si possa fare di fronte a un romanzo. Ma anche più complicata. È la domanda tipica dei lettori giovanissimi, ma se poi l'opera è anche di qualità si rivela la più complessa a cui rispondere:  se il romanzo - e questo vale anche per un film - è un buon romanzo, l'unico modo per rispondere a quella domanda sarebbe raccontarlo; è quando si riesce facilmente a scindere il "messaggio" dalla storia che c'è da preoccuparsi, potrebbe essere il segnale di una loro reciproca fragilità, se messaggio e storia possono vivere da soli, possono facilmente anche morire da soli. Da questo punto di vista Il Signore degli anelli riceve un'altra conferma della sua raffinata qualità:  alla domanda "di che cosa parla?" non è facile rispondere. Come si può leggere anche negli altri capitoli del presente saggio, è Tolkien stesso che si pone questa domanda per rispondere, a più riprese, sempre allo stesso modo:  della morte e l'immortalità.
In particolare nella lettera che scrive a Rhona Beare il 14 ottobre 1958:  "potrei dire che se il racconto tratta di "qualcosa" (oltre che di se stesso), questo qualcosa non è, come tutti sembrano supporre, il "potere". La ricerca del potere è solo il motivo che mette in moto gli avvenimenti, ed è relativamente poco importante, penso. Il racconto riguarda principalmente la morte, e l'immortalità; e le scappatoie:  la longevità e la memoria". È interessante analizzare quelle che lo scrittore inglese definisce come "scappatoie", la longevità e la memoria. Per Tolkien il suo romanzo tratta essenzialmente "di se stesso", cioè è da prendere sul serio quando dice "ho voluto scrivere una storia avvincente in un'atmosfera e su uno sfondo che io personalmente trovo interessanti".
Non è (solo) il pudore o la modestia che lo spingono a parlare così; è la verità, confermata anche dallo straordinario successo mondiale che ha accompagnato i suoi libri. Di questa storia avvincente il tema centrale non è il potere ma il tema "umano per eccellenza":  la morte e l'immortalità.
A fronte del dilemma, del "bivio" costituito dal binomio "morte/immortalità", l'uomo è portato, istintivamente, naturalmente, a provare angoscia e scappare. Tutto questo, angoscia e fuga, è frutto della confusione creata dal Nemico, cioè della Caduta (altro grande tema sotteso all'intera opera tolkieniana).
Il riferimento diretto qui è quello al racconto biblico e alla dottrina cattolica a cui Tolkien attinge a piene mani, non solo come uomo nella sua vita privata, ma anche inevitabilmente come scrittore.
Le "scappatoie" che interessano a Tolkien sono quelle della memoria e della longevità, che ha voluto rappresentare non solo attraverso l'avvincente trama della storia, ma anche mediante alcune figure, in particolare quelle degli elfi, degli hobbit e dei Numenoreani (gli alleati con Sauron nella seconda Era, Isildur, Denethor e così via fino ad Aragorn, l'ultimo longaevus). Sono tutte figure che corrono il terribile pericolo di "confondere la vera immortalità con la longevità senza limite" ma a tutto questo rispondono altre figure, come quella del citato Aragorn, come quella di Arwen, come quelle degli hobbit Bilbo e Frodo, come Gandalf, i quali riescono, spesso "aiutati" dal misterioso aiuto della Provvidenza, a non cedere alla "scappatoia", ad affrontare la morte accettandola con abnegazione perché essa "non è il Nemico" ma, anzi, un dono del Dio creatore. In fondo la forza di queste persone che superano la morte accettandola, sta nella loro debolezza. Concludendo questo saggio su Tolkien vorrei, quasi in omaggio allo scrittore-filologo che ha inventato nuove parole come eu-catastrofe e sub-creatore, coniare una nuova parola:  "monchitudine". Con questo nuovo (non bello, l'ammetto) termine voglio indicare la cifra poetica di Tolkien, sottolineare il contenuto più squisitamente tolkieniano della sua letteratura. Tolkien canta il fatto che gli uomini sono monchi.
È una condizione questa che emerge spesso nelle sue storie, soprattutto nei racconti del Silmarillion il cui protagonista si chiama Beren il Monco ma anche nel Signore degli anelli il cui protagonista, Frodo, si trova al termine della storia:  senza un dito (Frodo dalle nove dita, così viene ricordato nelle canzoni) e ferito, apparentemente in maniera inguaribile. Gli hobbit sono i "monchi" per eccellenza:  sono i mezzi-cresciuti come dice Barbalbero, sono i Mezziuomini come li chiamano gli elfi. È evidente la forza anche spirituale di questa immagine, la potenza di questa metafora:  nel cuore del xx secolo che inizia con la morte di Dio e l'avvento del super-uomo preannunciato da Nietzsche, ecco che un oscuro scrittore-filologo di Oxford si mette a cantare l'umile grandezza del mezzo-uomo, dei piccoli hobbit della Terra di Mezzo, che vivono nei buchi, nel terreno perché hanno la virtù più grande, cioè più piccola:  l'umiltà, da humus, terreno.
Tutto è dimezzato in Tolkien, anche la terra è "di mezzo", perché nulla sulla terra è (ancora) compiuto, il compimento è al di là, sta per avvenire, è un avvento che ancora non si è realizzato. Per questo non c'è spazio duraturo nella Terra di Mezzo per la pigra malinconia e quella longevità che è solo un disperato "aggrapparsi al tempo".
Riconoscere la propria costitutiva "monchitudine" vuol dire evitare le strade facili e le scappatoie. Chi non vuole riconoscersi monco, ma si riterrà "compiuto", "a posto", allora sarà inevitabilmente portato a essere forte, tiranno verso gli altri, rimanendo debole verso se stesso, cercando per sé le scorciatoie o le scappatoie, che però si rivelano surrogati del vero cammino, che non conducono se non alla perdizione. Con la sua storia avvincente Tolkien ci vuole dire che chi vorrà indugiare nelle scappatoie della longevità e della memoria, senza aprirsi al futuro con umile speranza, senza cogliere la novità che quotidianamente irrompe nella storia degli uomini, sarà destinato ad un'esistenza di rimpianto nostalgico e di amara disperazione.
Non è mai consigliabile applicare etichette agli scrittori, tantomeno se poi l'etichetta è quella pesante e ingombrante di "profeta"; eppure, al termine di questa breve riflessione sul tema della morte e dell'immortalità (e delle loro scappatoie) viene quasi spontaneo pensare che alcuni aspetti della società contemporanea siano stati inconsapevolmente prefigurati dalle suggestioni presenti tra le righe delle storie inventate da Tolkien, in particolare tutti quegli aspetti, che oggi vengono catalogati sotto il nome di "questioni bioetiche".
Se riflettiamo sulle condizioni attuali della vita biologica degli esseri umani (nel mondo occidentale e sviluppato) si può in effetti pensare che per molti aspetti ci troviamo in una situazione simile a quella della Terra di Mezzo:  oggi, grazie ai grandi progressi della scienza e della tecnica medica, la lunghezza della vita è molto aumentata, le malattie sono state in buona parte debellate e il dolore è stato massicciamente ridotto. Tutto questo ha portato a una rimozione degli ultimi tabù rimasti, il dolore e la morte, che non figurano più all'interno del paesaggio umano quotidiano. Fino ai tempi di Tolkien le guerre, le carestie, le epidemie rendevano la morte e la sofferenza presenti in modo pervasivo nella quotidianità delle famiglie degli uomini. Tolkien muore nel 1973 e da allora i tempi sono cambiati molto e molto velocemente, per rendersene conto è sufficiente riflettere sulle questioni (sociali, giuridiche, etiche) che sono emerse negli ultimi anni relativamente al fine della vita:  eutanasia, accanimento terapeutico, testamento biologico. I segnali sono diversi e anche di segno opposto:  si va da un "aggrapparsi al tempo" rifiutando il fatto della morte - è il caso dell'accanimento terapeutico - a un rimuovere lo scandalo del dolore e dell'angoscia con le pratiche eutanasiche.
Viene da chiedersi se Tolkien, di fronte a tali fenomeni, opposti ma di fatto convergenti verso risultati equivalenti, avrebbe usato il termine escapes, scappatoie. Una società di longevi che rimuovono la morte assomiglia molto al mondo descritto da Tolkien nella sua storia avvincente, una società che, inoltre, dominata da mezzi di comunicazione come ad esempio la televisione, vive sempre di più di passato invece di aprirsi alla novità che la vita reale porta con sé. Non c'è dubbio infatti che la televisione offra ai suoi fruitori uno sguardo retrospettivo su ciò che è già avvenuto e non si contano i programmi autoreferenziali in cui la televisione guarda soltanto dentro se stessa.

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