giovedì 19 febbraio 2009

OR - - Fossero solo canzonette

Peripezie sanremesi

di Marcello Filotei

"Secondo lei il neo eletto presidente degli Stati Uniti Barack Obama avrà un compito arduo?". L'espressione interdetta del presidente dell'assemblea generale delle Nazioni Unite Miguel d'Escoto Brockmann di fronte alla domanda di Paolo Bonolis vale da sola il prezzo dell'abbonamento Rai. Una sintesi dell'atmosfera del festival di Sanremo, che il conduttore rende più frizzante con citazioni di letture dal sussidiario. Dalle Termopili a Pavese, Bonolis ce la mette tutta per garantire alla kermesse canora una vernice di alto spessore culturale, ma con risultati disarmanti. Surreale sembra soprattutto scomodare il gregoriano per poi presentare sul palco personaggi che, complice la diretta, sembrano a disagio proprio con il canto. Qualcuno pretenderà che per esibirsi occorrano doti vocali e tecnica, ma si tratta di critici musicali ormai superati e senza speranza. Con buona pace degli ottimi professori dell'orchestra chiamati anche a tamponare improvvise falle canore.
Gli educatori dei futuri cantanti, che inoculano il loro sapere attraverso la televisione, hanno già provveduto a riformare i gusti del pubblico e le aspirazioni adolescenziali con metodi moderni: "Metticela tutta e tira fuori le emozioni". Sotto la doccia funziona sempre, in qualche caso anche in sala d'incisione, ma se si tratta di affrontare contemporaneamente un microfono e un pubblico le emozioni bisogna saperle gestire, a volte tenerle a bada, poi, magari, provare pure a trasmetterle. È un po' quello che succede quando si devono porre domande a una carica istituzionale mondiale: avere intorno qualcuno che abbia un'idea generica della personalità e del ruolo che ricopre l'interlocutore aiuta, ma in fondo si può sempre ripiegare su un tranquillizzante: "Faccia un bell'augurio agli italiani". In cambio si riceve un prevedibile "il mio augurio è che il popolo italiano si possa divertire, perché abbiamo tutti bisogno della musica per rinnovare il nostro spirito", che è pur sempre qualcosa.
E allora, facendo proprio l'auspicio che viene dal Palazzo di Vetro, il festival di Sanremo potrebbe tentare di recuperare una sana dimensione di promotore di musica popolare. Puccini lo eseguono già in tutti i teatri dell'opera del mondo, in continuazione, non c'è bisogno che un'artista straordinaria come Mina, nascosta dietro i riverberi dei mixer digitali, renda insapore una delle arie più note della lirica. Largo alla musica popolare, in tutti i suoi risvolti, ma scritta da chi sa ancora tracciare sul pentagramma un motivetto di facile presa, o un ritmo irresistibile. Rap, pop, rock, melodico, jazz, etno, va bene tutto, ma il microfono sia offerto solo a quanti ne garantiscano l'incolumità - ma non sembra che siano poi molti - e la bacchetta del direttore solo a chi assicuri di avere frequentato non le polverose aule dei conservatori, ma almeno le peripezie bandistiche del maestro Antonio Scannagatti, il cigno di Caianello reso immortale da Totò.

domenica 15 febbraio 2009

Tornielli - - «È stata una esecuzione è Dio padrone della vita»

«Dio se l’è portata via, ha voluto dimostrare che è lui il padrone della vita...». Padre Livio Fanzaga, l’instancabile animatore di Radio Maria, è colpito e commosso dalla notizia della morte di Eluana Englaro. Dai microfoni del network più ascoltato, durante la seguitissima rassegna stampa quotidiana, il religioso ha trattato innumerevoli volte il caso della giovane donna in stato vegetativo da 17 anni. Invitando a pregare e a reagire perché l’epilogo non fosse quello che ci si attendeva. Anche lui, adesso, di fronte all’annuncio inaspettato e improvviso, nonostante sia abituato a parlare per ore, stenta a trovare le parole. Qual è stata la prima reazione alla notizia della morte di Eluana?
«Ho provato un grande dispiacere, accompagnato però da uno sguardo di fede.
È stata messa in atto un’esecuzione capitale e mi è sembrato che Dio abbia voluto dimostrare di essere lui il vero padrone della vita, scompaginando i piani degli uomini. Ha preso Eluana e se l’è portata in cielo». Quello che si è concluso ieri è il primo caso italiano di sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione a seguito di una sentenza... «Quanto è avvenuto è davvero molto grave e speriamo che rimanga l’unico caso del genere. Si tratta infatti della prima condanna a morte dell’Italia repubblicana, portata avanti – devo dirlo – con una sconcertante mancanza di pietà e di misericordia.
È grave che questa condanna sia arrivata attraverso sentenze importanti, come quella della Corte d’Appello di Milano e della Cassazione, e mi addolora profondamente che il tentativo messo in atto dal governo non sia andato a buon fine. C’è stata un’esecuzione, c’è stata un’uccisione. E chi ha ucciso ne risponderà a Dio.
C’è una pagina del vangelo di Matteo che ci dice come ciascuno di noi sarà giudicato da Gesù che ci dirà: avevo fame, e non mi avete dato da mangiare, avevo sete, e non mi avete dato da bere...». Padre Livio, ora che Eluana non c’è più che cosa accadrà? «Credo sia importante riuscire a trarre il bene dal male.
È accaduto un grande male. Il bene sarà una legge sul fine vita che assicuri alimentazione e idratazione a tutti i malati, come si propone di fare il disegno di legge presentato dal governo. Sarebbe grave attendere ancora. Mettiamo a frutto il sacrificio di Eluana, per dare garanzie a tanti ammalati e per dare un segnale anche a livello istituzionale: alimentazione e idratazione non sono cure, non possono essere sospese.
Di questo passo ci costruiamo da soli l’inferno». Che cosa pensa di Beppino Englaro, il padre di Eluana, che ha combattuto fino in fondo la sua battaglia per portare la figlia alla morte? «Lo rispetto, non lo giudico pur non essendo d’accordo con lui. Un padre è un padre, Eluana era figlia unica.
Ho conosciuto e seguito varie coppie di genitori che hanno vissuto la tragedia della perdita di un figlio, anche di un figlio unico. Ho assistito a sofferenze tremende, indicibili, che solo la fede ha potuto lenire, facendo riemergere poco a poco queste persone dall’abisso in cui erano precipitate. C’è un dolore immenso che ha sconvolto quella famiglia. Il padre di Eluana non ha la fede, penso sia esasperato dal dolore.
Di fronte alla tragedia che gli è capitata ha reagito in un modo che non possiamo approvare, ma che possiamo cercare di capire. Non giudico Beppino Englaro. Non lo condanno. Ma non posso condividere ciò che ha voluto fare e ciò che le sentenze dei giudici hanno consentito di fare, perché quanto è accaduto a Udine, lo ripeto, è stata la soppressione di una vita umana alla quale si è tolto cibo e acqua».

© Il Giornale - 13/02/2009

Formicola - - Sacconi e la questione magistratura

Il ministro Sacconi, come è noto, è iscritto nel registro degl’indagati per il reato di violenza privata. Ciò a séguito di una denuncia dei radicali, che gli rimproverano di aver ricordato ai proprietari di una clinica privata friulana le conseguenze amministrative in cui sarebbero incorsi, alla stregua della legislazione vigente, se nella loro «Casa di cura» si fosse «curata» l’uccisione per fame e per sete di Eluana Englaro. Ed è inutile, in questo specifico caso, ripetere la litania dell’«atto dovuto». Come ha ben sottolineato il sottosegretario Mantovano, non è affatto vero che ad ogni denuncia si provveda alla relativa iscrizione: molte, moltissime, vengono direttamente archiviate per manifesta infondatezza o perché concernono fatti non costituenti reato. E questa era la sorte che avrebbe meritato, con ogni evidenza, il libello d’accusa dei radicali.

Tale preteso «atto dovuto» conferma – se mai ve ne fosse ancora bisogno – l’esistenza di una «questione magistratura».

La questione è effettivamente tale ed è pure grave, tanto da indurre a liquidare come vuota querimonia ogni invocazione al distinguo fra questo e quel magistrato: la pretesa non mancherebbe di fondatezza se non fosse travolta dalla dimensione ormai alluvionale del problema. Infatti, esso non concerne questa o quella decisione, la giurisprudenza dell’una o dell’altra Corte, dell’una o dell’altra Procura, dell’uno o dell’altro magistrato. La «questione magistratura» è essenzialmente nel fatto che è dominante il rifiuto da parte dei giudici della propria terzietà e dell’indifferenza rispetto alla causa e persino alla funzione che svolgono, ciò che rende il giudizio effettivamente tale, siccome imparziale. Soccorrono, in proposito, le parole di un giurista autentico, Salvatore Satta (1902-1975): «Bisogna vedere se […] ci sia un dato, il quale rifletta […] proprio l’essenza del giudizio, per cui possa dirsi che se esso manca non ci sia giudizio; […] l’elemento costitutivo del giudizio […]: che […] sia reso da un terzo» (Il mistero del processo, pp. 31-32).

Tale terzietà viene immediatamente tradita – e con essa il giudizio e la funzione del giudice – non appena il processo è messo al servizio di qualcosa, di qualsiasi cosa, diventando «azione». E specificamente «azione Rivoluzionaria», in quanto finalizzata o a una pretesa di risanamento socio-politico, ovvero all’attuazione di nuovi «valori», cioè di punti di vista parziali e sostanzialmente ideologici, che il giudice scruta tra i segni dei tempi e ritiene alternativi quando non antagonisti a quelli «vecchi».

Così, a giudicare è una parte: «la parte che impersonalmente vorrei denominare dell’azione, e che […] si estende […] fino a comprendere forze e poteri di fatto, che del processo e del giudizio sono assai più insofferenti che non il potere legale. […] E come parte preme contro la sottile barriera di legno che […] divide dal giudice: se riesce […] a superarla spiritualmente, sarà la parte che giudicherà e non il giudice, cioè non si avrà giudizio» (Ibid., pp. 33-34). È per questo che, sin dai tempi dei giacobini, la Rivoluzione, invece di procedere per vie spicce allo sterminio dei propri nemici reali o immaginari e all’eliminazione di classi ed elementi ritenuti socialmente nocivi, allo scopo ha istituito i propri Tribunali: si trattava di dare, né più né meno, parvenza di giustizia all’azione Rivoluzionaria, alla volontà di potenza che si attua in termini di dominio sulla storia, sulla vita, sulla morte.

Oggi, che è tempo di Rivoluzione culturale, quest’azione si esercita evidentemente su un terreno e con modalità diversi. Corti e procure si occupano piuttosto della creazione normativa in materia di «nuovi diritti», contro il vecchio mondo, soprattutto quello politico, che è lento a riconoscerli. Procreazione, nascita e morte, matrimonio e famiglia, identità sessuale e «comune senso del pudore», fino alla pseudo cultura psichedelica e drogastica, sono stati e sono i campi di tale azione, che talvolta ha travolto il diritto vigente, altre volte lo ha modificato progressivamente, sempre lo ha riscritto con le sentenze modulandolo sull’io desiderante e ribelle alla legge naturale.

Dalla sentenza Roe vs. Wade, con la quale la Corte Suprema degli USA nel 1973 ha totalmente liberalizzato l’aborto, a quelle più recenti della Cassazione italiana sul caso Englaro, che hanno aperto la strada all’eutanasia riducendola ad affare privato, i «nuovi diritti» sono stati una creazione della giurisprudenza: i giudici, prima dei legislatori – e spesso contro le loro decisioni –, sono stati l’avanguardia della istituzionalizzazione della Rivoluzione culturale e antropologica in Occidente, agendo come parti nei relativi giudizi in funzione dei «valori» che intendevano attuare.

E come è facile rilevare – anche solo pensando alle decisioni delle Corti e dei Tribunali in vari Stati dell’Unione in tema di «matrimonio» omosessuale, sempre sconfessate dal popolo ogni volta che è stato chiamato a pronunciarsi con un referendum –, la «questione magistratura», cioè la questione del giudice che sebbene privo di consenso e mandato popolare si fa parte nel processo politico e legislativo usurpando poteri che non gli appartengono, è planetaria.

Se poi la concorrenza con la politica e con i politici diventa sleale, e si serve dell’arma dell’incriminazione e della persecuzione penale – magari di chi, soltanto esercitando il proprio munus e avvalendosi delle norme vigenti, riconosce l’inapplicabilità e quindi la sostanziale illegittimità di una sentenza e cerca di arginarne le nefaste e antigiuridiche conseguenze –, allora provare a dare soluzione alla «questione magistratura» è affare particolarmente urgente.

Per la politica, e quindi per l’equilibrio tra i pubblici poteri e funzioni, è infatti ormai una pura e semplice questione di sopravvivenza.

Giovanni Formicola

giovedì 12 febbraio 2009

OR - - 12 febbraio 2009 -- Il «Messiah» di Händel per celebrare l'ottantesimo anniversario dello Stato della Città del Vaticano

Sobrietà potente
Puro intreccio tra fede e musica


In occasione dell'ottantesimo anniversario della fondazione dello Stato della Città del Vaticano, giovedì 12 alle 18 alla presenza di Benedetto XVI si tiene nell'Aula Paolo VI un concerto della Rté Concert Orchestra e dell'Our Lady's Choral Society, di Dublino, diretti da Proinnsías Ó Duinn. In programma il Messiah di Georg Friedrich Händel. 

di Gianfranco Ravasi 

Nella memoria musicale di tutti il Messiah di Händel è inchiodato in modo definitivo all'irruzione gloriosa e grandiosa dell'Alleluia in re maggiore, una vera e propria onda sonora che riesce, più di ogni riflessione teologica, a farci affacciare sull'eterno e sull'infinito, generando un brivido che pervade coro, orchestra e uditorio. Lo stesso musicista aveva contribuito a creare questa convinzione quando, alla richiesta di una descrizione sulla genesi di un simile gioiello musicale, era ricorso alla citazione paolina in cui l'Apostolo evocava una sua esperienza estatica, e aveva confessato di non sapere se avesse composto quel brano "se con il corpo o senza corpo:  Dio solo lo sa" (2 Corinzi 12, 3). 
In realtà questo lavoro - che fu eseguito ben trentasei volte durante la vita del suo autore e fu circondato da memorie e aneddoti esaltanti anche se storicamente dubbi (Händel alla "prima" dublinese avrebbe chiesto ai gentiluomini di parteciparvi senza lo spadino e alle dame senza borsette) - merita di essere seguito soprattutto come limpido modello di "oratorio", quindi contrassegnato da una chiara finalità catechetica e spirituale. Infatti, da un lato, il librettista Charles Jennens (1700-1773), un nobile campagnolo votato all'arte, lasciava cadere l'enfasi che l'aveva accompagnato nell'elaborazione del testo di un altro oratorio händeliano, il Saul, e puntava alla sobrietà potente del puro dettato biblico, costruendo così una trama in cui le pagine dei due Testamenti s'intrecciavano tra loro in un mirabile contrappunto teologico. 
D'altro lato, le note di Händel si distendevano sul testo sacro trasformandosi in una sorta di esegesi musicale, capace di far vibrare in quelle parole il loro messaggio cristologico. È ciò che si può nitidamente percepire anche attraverso l'antologia del Messiah proposta nella presente esecuzione, che raccoglie in un disegno armonico alcuni frammenti di quella solenne partitura che s'allarga nelle due ore e mezzo dell'esecuzione integrale. Cerchiamo, allora, in maniera essenziale di seguire questo itinerario testuale semplificato. 
La voce del tenore parte dalla profezia di Isaia (40, 4) che gli evangelisti adottano come strumento interpretativo della figura del Precursore Giovanni:  valli colmate e monti spianati aprono la "via sacra" sulla quale avanzerà il Messia, che il coro - sempre con le parole di Isaia (40, 5) - contempla come un'epifania gloriosa di luce e di canto. Nel cuore di questa teofania che brilla da lontano, ma che ha contorni planetari, è collocato il celebre annunzio isaiano e matteano della nascita dell'Emmanuele dalla madre vergine (Isaia 7, 14; Matteo 1, 23), annunzio affidato alla icastica incisività della pura e semplice proclamazione nel recitativo del contralto. 
È il momento della gioia e della luce (Isaia 40, 9 e 60, 1) che si diramano dall'alto di un monte attraverso la voce di un araldo-"evangelista" (per due volte si usa l'espressione "recare liete notizie", che nell'ebraico isaiano è mebasseret, l'equivalente del verbo greco euanghelizomai) e con la cascata di luce che avvolge come in un manto Gerusalemme. La sinfonia pastorale che segue, modulata sulla "piva" delle zampogne dei pastori italiani, è destinata a evocare il Natale di Cristo, illustrato dall'ingresso imponente del "re giusto e vittorioso" annunziato dal profeta Zaccaria (9, 9.10). Come è evidente, il musicista di Halle privilegia l'aspetto maestatico dell'Incarnazione. 
Si passa, così, al secondo atto dell'oratorio ove entra in scena la Passione di Cristo, sempre affidata al balenare delle profezie, lette implicitamente sulla base della narrazione evangelica. Neanche in questo caso la selezione, operata nell'esecuzione parziale proposta, impedisce di cogliere la trama di quei momenti drammatici e misteriosi. Entra, infatti, in scena il volto dell'"uomo dei dolori", quella figura misteriosa che Isaia aveva delineato nei quattro canti del Servo del Signore e nei cui tratti la tradizione cristiana aveva intuito il profilo messianico di Cristo:  non per nulla le parole del profeta, che descrivono una vicenda di sofferenza, di emarginazione e di tortura (Isaia 53, 3; 50, 6), sono precedute dalla voce potente del Battista che indica in quel volto "l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo". 
Il coro ribadisce, attraverso un'altra citazione desunta ancora dal celebre quarto carme isaiano del Servo del Signore, che Gesù l'innocente è "trafitto per i nostri delitti" (Isaia 53, 4-5). È poi il tenore, intervallato dal coro, ad aprire il libro dei Salmi per attingere a quelle suppliche che possono dipingere l'incubo della sofferenza, dell'insulto, della solitudine del Cristo paziente. Alla fine, un recitativo secco in mi minore del soprano - sempre ricavato dal citato quarto carme isaiano (53, 8) - presenta l'approdo estremo di quel martirio, che cancella Gesù "dalla terra dei viventi". 
Ormai, però, sta per sorgere l'alba della Pasqua. L'aria del soprano ci offre la speranza del Salmista, certo che il Signore "non abbandonerà la vita del suo santo nel sepolcro" e nella corruzione (16, 10). Ecco, allora, spalancarsi i portali del tempio dei cieli ove, tra le acclamazioni del coro, entra trionfalmente il Risorto, "il re della gloria" (salmo 24, 7-10). Lo zenit celeste a cui ci conduce l'Ascensione, modellata sulla tradizionale lettura allegorica del salmo 68 (19), fa da contrasto col nadir terrestre dell'agitarsi ribelle delle potenze ostili della storia umana che vanamente sfidano il cielo e il suo Signore, come ci ricorda il salmo messianico 2. Ormai è la vittoria del Salvatore a dominare la scena e a far scatenare l'immensa e possente acclamazione del famoso Alleluia impostata, oltre che su quella sorta di moto perpetuo alleluiatico a cui accennavamo, anche su un tessuto testuale desunto dall'Apocalisse (19, 6; 6, 15; 19, 16). 
È a questo punto che il sipario si apre sulla terza parte dell'oratorio nella quale irrompe la voce del soprano che, quasi danzando, intreccia la risurrezione gloriosa di Cristo con la nostra redenzione e lo fa attraverso le parole di un famoso passo, molto arduo nell'originale ebraico, tratto dal canto poetico lacerante di Giobbe. La versione latina di san Girolamo ha trasformato quelle parole oscure in una luminosa professione di fede nel Redentore sempre "vivo"; egli si erge sulla polvere della nostra mortalità umana e sullo sfaldarsi della nostra carne come segno di liberazione, di vita, di speranza (Giobbe 19, 25-26). 
La voce di Giobbe cede idealmente il passo all'Apostolo Paolo che, nell'affresco escatologico supremo del capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinzi, squarcia il velo del destino ultimo dell'umanità. L'estuario del fiume della nostra vita non è spalancato sul baratro del nulla o sull'aridità di un deserto di morte. È lo squillare della tromba, come ci ricorda il basso prima in un recitativo e poi in un assolo - sottolineati appunto dallo squillo della tromba solista - a scandire il nostro varcare la soglia che separa il tempo dall'eternità e lo spazio dall'infinito. "Incorrotti e trasfigurati", ci avvieremo in uno scenario di luce pasquale verso l'incontro, per essere sempre col Cristo risorto. 
Ed è il grandioso coro finale in re maggiore a suggellare l'architettura musicale e teologica del Messiah con un solenne atto di adorazione nei confronti dell'Agnello immolato e glorificato, Cristo Signore, assumendo le parole di uno dei tanti cori che costellano l'Apocalisse (5, 12-13). La "lode, onore, gloria e potenza" attribuite all'Agnello hanno come sigillo l'Amen finale tratteggiato secondo uno stile severo, ma anche avvolto dall'irrompere degli ottoni e dei timpani. L'opera händeliana è, perciò, un esempio alto del "cantare a Dio con arte", come suggeriva il Salmista (47, 8), un emblema dell'intreccio purissimo tra fede e musica, un modello di esegesi cristiana delle profezie messianiche anticotestamentarie, anzi, come aveva scritto il filosofo Friedrich Schleiermacher, "un annunzio compendioso dell'intero cristianesimo".



(©L'Osservatore Romano - 12 febbraio 2009)

OR - - 12 febbraio 2009 -- Il problema non è la teoria ma l'ideologia

di Marc Leclerc
Pontificia Università Gregoriana 

Il 12 febbraio 2009 il mondo fa memoria del bicentenario di Charles Darwin. Il grande naturalista inglese, che ha influenzato la storia delle scienze così come la comprensione che abbiamo della nostra stessa umanità, rimane per certi versi un personaggio enigmatico, oggetto, suo malgrado, di discussioni e di polemiche senza fine. Il suo contributo decisivo al trasformismo biologico, l'importanza della sua nuova teoria dell'evoluzione per via della selezione naturale, sono troppo noti per dovervi soffermare a lungo. 
Certo, come per ogni teoria nascente, la sua rimaneva incompleta, oggetto di dibattiti scientifici, che la successiva costituzione della sintesi moderna, nel corso del ventesimo secolo, non chiuderà, anzi li intensificherà ancora, con l'aggiunta di molti elementi non previsti da Darwin, sia nel prolungamento o nella conferma delle sue ipotesi, sia, a volte, in senso diverso. 
Tutto questo è nomale processo della ricerca scientifica, sviluppandosi senza fine assegnabile. 
Il dibattito attuale tuttavia non coinvolge solo il mondo scientifico, con l'argomentazione che gli è propria. Coinvolge ormai l'opinione pubblica, i media, le scuole, il mondo politico, le religioni e pure la Chiesa. La ragione sembra semplice:  la teoria di Darwin, nelle varie interpretazioni che se ne possono dare, tocca all'intelligenza che l'uomo contemporaneo ha di se stesso. 
Aldilà delle posizioni personali del suo autore - spesso ambigue, ma riconducibili alla fin fine ad una forma di agnosticismo aperto - buona parte della posterità ha capito l'applicazione della sua teoria all'origine della specie umana come una forma di "compimento della rivoluzione copernicana", anzi come una riduzione dell'uomo  alla pura animalità, in una  prospettiva  esplicitamente  materialista.  Tale visione dell'uomo contrastava  direttamente  la concezione religiosa, cristiana in particolare, della creazione di un essere non solo corporeo, anzi pure spirituale, dove risplende, sotto il velo, l'imago Dei
Una parte cospicua dei problemi viene dal fatto che molti, sia partigiani, sia avversari di Darwin, hanno confuso la sua teoria scientifica dell'evoluzione - da discutere a livello scientifico tra persone competenti - con la sua riduzione ad un sistema ideologico, ad una visione del mondo che per forza coinvolge tutti gli uomini, sentendosi profondamente messi in questione nella loro stessa identità, rivendicando quindi il proprio diritto a partecipare al dibattito. 
Come scriveva giustamente l'allora cardinale Ratzinger, la polemica è nata non dalla teoria dell'evoluzione in quanto tale, ma dall'erezione indebita di alcuni suoi elementi aphilosophia universalis, a "chiave d'interpretazione dell'intera realtà". In particolare, i due elementi di cui Jacques Monod farà il titolo stesso del suo famoso saggio, Il caso e la necessità (1970)Il carattere aleatorio di piccole mutazioni imprevedibili, associate alla necessità ineluttabile della selezione naturale e delle leggi della genetica votate a conservare le variazioni le più favorevoli, bastano, in questa visione riduttrice, a spiegare il mondo vivente in tutta la sua varietà, compreso l'uomo. Ed alcuni non esitano a generalizzarlo all'intera realtà, secondo la concezione democritea che Monod ha riportato sulla prima pagina del suo saggio:  "Tutto ciò che esiste nell'universo è il frutto del caso e della necessità". 
A queste confusioni si sono poi aggiunte tutte quelle nate dal così detto "darwinismo sociale", a volte presentato come "teoria scientifica" tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, volto in realtà a giustificare le più varie e meno giustificabili ideologie, specialmente attorno al concetto di guerra, di cui alcuni intendevano dimostrare la "necessità". Antonello La Vergata ha ben analizzato questo fenomeno nel suo libro Guerra e darwinismo sociale (2005):  si tratta chiaramente di una pura strumentalizzazione senza alcun fondamento scientifico e con ben pochi legami con il pensiero e l'opera di Charles Darwin. L'autore de L'origine delle specie e de La discendenza dell'uomo applicava sì la sua teoria della selezione naturale all'emergenza della nostra specie, ma non al funzionamento delle attuali società umane, sottolineando invece come un carattere benefico per la specie l'acquisizione di facoltà morali e religiose che portano l'uomo a proteggere i più deboli, al contrario delle assurde pretese del darwinismo sociale. 
Darwin si rivela quindi più umanista di parecchi suoi seguaci. Più aperto e più rigoroso, pure. Era uno scienziato, un osservatore acuto che su base delle proprie osservazioni faceva delle ipotesi, che si sforzava poi di controllare il più possibile. Ma, dopo di lui, c'è chi ha voluto fare del neodarwinismo un sistema rigido, chiuso su se stesso, onnicomprensivo e fuori discussione, la forma moderna della spiegazione materialista della realtà. In  questo  contesto si potrebbe capire  l'origine delle reazioni, certo eccessive, di un creazionismo direttamente  contrapposto a tale evoluzionismo. 
Invece le realtà che possiamo riconoscere, ciascuna al proprio livello, come evoluzione e creazione, non presentano tra loro la minima opposizione, anzi si rivelano del tutto complementari. L'evoluzione biologica risulta per prima da un insieme impressionante di fatti convergenti, dell'ordine della paleontologia, della sistematica e della biologia molecolare. Le varie specie viventi hanno un'origine comune, costituiscono un immenso "albero" con infinite ramificazioni, derivando da specie più semplici e meno numerose, quanto i batteri o le alghe blu, formatesi più di tre miliardi e mezzo di anni fa - giacché se ne ritrovano i "fossili chimici" nelle più antiche rocce conosciute sulla terra. In secondo luogo, le teorie dell'evoluzione provano a descrivere i meccanismi essenziali tramite i quali le specie sono derivate le une dalle altre. Darwin ha proposto quello basilare della selezione naturale, che si mostra operante e verificabile a livello della microevoluzione, su tempi che ci sono accessibili. La sua applicazione alla macroevoluzione pone ancora qualche problema, e verisimilmente si dovranno aggiungere una serie d'altri meccanismi complementari, dove in particolare il ruolo della cooperazione, della simbiosi in sistemi molto integrati, non si lascia ridurre alla sola selezione naturale. 
Ma  si tratta qui, sempre, di meccanismi,  sia  conosciuti,  sia da scoprire. 
Tutt'altro è il piano della riflessione filosofica sul fatto dell'evoluzione come sulle sue teorie esplicative. Cosa significa l'evoluzione biologica, aldilà dei meccanismi che l'hanno permessa e che la scienza ha il compito di studiare? Qualsiasi siano i processi evolutivi, la questione della creazione rimane aperta, e toccherà ad una filosofia coerente provare a darle una risposta soddisfacente. Tale filosofia potrà a sua volta fungere da mediatrice tra dati e teorie scientifici da una parte, e pensiero teologico della creazione dall'altra. Di particolare importanza sarà la riflessione sul posto dell'uomo nell'evoluzione come nella creazione. L'uomo, come essere vivente, può trovare il proprio posto nell'evoluzione delle specie, che, in una rilettura post factum, ha preparato così a lungo la sua venuta. Ma l'uomo non può ridursi, senza contraddizione, al puro prodotto dell'evoluzione delle specie - in altre parole, l'uomo non è riducibile alla propria animalità. Perché nessun sistema formale può stabilire la non contraddizione dei propri assiomi (corollario del teorema d'incompiutezza di Gödel). Ora una buona critica filosofica mostra che l'uomo, invece, può giustificare i primi principi della sua conoscenza. L'essere umano dispone di una capacità di riflessione, di autocoscienza, di libertà che trascendono necessariamente la pura animalità, e che non possono essere il semplice prodotto dell'evoluzione. Come afferma giustamente la teologia cattolica, ogni persona umana è l'oggetto di un atto creatore singolare da parte di Dio, anche se s'inserisce naturalmente nella specie dell'homo sapiens, apparsa alla fine di un immenso processo evolutivo di cui si cominciano a scoprire alcuni dei segreti.




(©L'Osservatore Romano - 12 febbraio 2009)