giovedì 15 gennaio 2009

OR - - Donate al Papa reliquie dei genitori di Teresa di Lisieux

Donate al Papa reliquie dei genitori di Teresa di Lisieux


Nel giorno in cui inizia a Città del Messico il vi Incontro mondiale delle famiglie, l'udienza generale di mercoledì 14 gennaio, nell'Aula Paolo vi, è stata caratterizzata dalla presenza di reliquie di due coniugi esemplari: Luigi Guérin e Zelia Martin, genitori di nove figli, tra i quali santa Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo. Davanti a circa 4.000 fedeli, Benedetto XVI ha fatto riferimento ai due sposi beati, indicandoli come due profondi interpreti del mistero dell'amore di Cristo. Le reliquie dei beati Guérin-Martin erano accompagnate da un gruppo di pellegrini italiani e francesi guidati dal vescovo di Sées, monsignor Jean-Claude Boulanger, da monsignor Bernard Lagoutte, rettore del santuario di Lisieux e dal carmelitano scalzo Antonio Sangalli, vice postulatore della causa di canonizzazione. Vi era anche Pietro Schilirò con la famiglia, il bambino guarito nel giugno 2002 per intercessione dei genitori di santa Teresa, il cui miracolo riconosciuto è servito per la loro beatificazione. I pellegrini hanno donato al Papa un reliquiario in argento e metallo dorato, opera di oreficeria veronese, contenente due reliquie dei beati unite da un anello nuziale. L'urna è adornata con delle scene simboliche della vita dei due coniugi, rappresentati da due rose. Nove gigli, invece, simboleggiano i nove figli nati dal loro matrimonio: cinque di essi sono fioriti, mentre quattro sono chiusi, per ricordare i piccoli morti prematuramente. Sul basamento del reliquiario sono state poste tre frasi di santa Teresa del Bambino Gesù, con le quali tratteggiava il ritratto spirituale dei suoi genitori.
Dalla Spagna circa 700 fedeli provenienti dalle diocesi di Santiago di Compostela, Alicante, Saragoza, con il gruppo de "Il mistero di Elche", dal celebre santuario nei pressi di Valencia che, con autosacramentali medievali, canta l'assunzione della Vergine Maria. Li accompagnavano gli arcivescovi di Santiago de Compostela, Julián Barrio Barrio, di Zaragoza, Manuel Ureña Pastor, e i vescovi di Orihuela-Alicante, Rafael Palmero Ramos, e Orense, Luis Quinteiro Fiuza.
Da 57 Paesi di 5 Continenti e di 23 lingue diverse, hanno partecipato all'udienza 95 giovani delle "Gen 2" del movimento dei Focolari. Queste ragazze dai 18 ai 30 anni rappresentano i circa 1.700 giovani che hanno concluso i convegni annuali di formazione presso il Centro Mariapoli di Castel Gandolfo. Guidate da Giuseppina Pisani, responsabile centrale delle "Gen 2", una ragazza vietnamita e una dell'Angola hanno offerto al Papa un dono delle loro terre e lo hanno salutato a nome di tutti i giovani del movimento.



(©L'Osservatore Romano - 15 gennaio 2009)


Nel giorno in cui inizia a Città del Messico il vi Incontro mondiale delle famiglie, l'udienza generale di mercoledì 14 gennaio, nell'Aula Paolo vi, è stata caratterizzata dalla presenza di reliquie di due coniugi esemplari: Luigi Guérin e Zelia Martin, genitori di nove figli, tra i quali santa Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo. Davanti a circa 4.000 fedeli, Benedetto XVI ha fatto riferimento ai due sposi beati, indicandoli come due profondi interpreti del mistero dell'amore di Cristo. Le reliquie dei beati Guérin-Martin erano accompagnate da un gruppo di pellegrini italiani e francesi guidati dal vescovo di Sées, monsignor Jean-Claude Boulanger, da monsignor Bernard Lagoutte, rettore del santuario di Lisieux e dal carmelitano scalzo Antonio Sangalli, vice postulatore della causa di canonizzazione. Vi era anche Pietro Schilirò con la famiglia, il bambino guarito nel giugno 2002 per intercessione dei genitori di santa Teresa, il cui miracolo riconosciuto è servito per la loro beatificazione. I pellegrini hanno donato al Papa un reliquiario in argento e metallo dorato, opera di oreficeria veronese, contenente due reliquie dei beati unite da un anello nuziale. L'urna è adornata con delle scene simboliche della vita dei due coniugi, rappresentati da due rose. Nove gigli, invece, simboleggiano i nove figli nati dal loro matrimonio: cinque di essi sono fioriti, mentre quattro sono chiusi, per ricordare i piccoli morti prematuramente. Sul basamento del reliquiario sono state poste tre frasi di santa Teresa del Bambino Gesù, con le quali tratteggiava il ritratto spirituale dei suoi genitori.
Dalla Spagna circa 700 fedeli provenienti dalle diocesi di Santiago di Compostela, Alicante, Saragoza, con il gruppo de "Il mistero di Elche", dal celebre santuario nei pressi di Valencia che, con autosacramentali medievali, canta l'assunzione della Vergine Maria. Li accompagnavano gli arcivescovi di Santiago de Compostela, Julián Barrio Barrio, di Zaragoza, Manuel Ureña Pastor, e i vescovi di Orihuela-Alicante, Rafael Palmero Ramos, e Orense, Luis Quinteiro Fiuza.
Da 57 Paesi di 5 Continenti e di 23 lingue diverse, hanno partecipato all'udienza 95 giovani delle "Gen 2" del movimento dei Focolari. Queste ragazze dai 18 ai 30 anni rappresentano i circa 1.700 giovani che hanno concluso i convegni annuali di formazione presso il Centro Mariapoli di Castel Gandolfo. Guidate da Giuseppina Pisani, responsabile centrale delle "Gen 2", una ragazza vietnamita e una dell'Angola hanno offerto al Papa un dono delle loro terre e lo hanno salutato a nome di tutti i giovani del movimento.



(©L'Osservatore Romano - 15 gennaio 2009)

martedì 13 gennaio 2009

OR - - Gli atti del Sinodo dei vescovi sull'Eucaristia

Strumento valido per attualizzare
quell'evento di Chiesa


di Nicola Gori

Sinodo dei Vescovi, XI Assemblea Generale Ordinaria. L'Eucaristia: fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa è il titolo del volume curato da Roberto Nardin, dove sono raccolti tutti gli atti e i documenti dell'XI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi del 2005, dedicata all'Eucaristia. Il volume, con la prefazione del segretario generale del Sinodo dei vescovi, arcivescovo Nicola Eterovic, edito dalla Pontificia Università Lateranense (Città del Vaticano, 2008, pp. 1032, euro 60), è la sintesi scrupolosa del grande lavoro di raccolta di documentazione fatta da dom Roberto Nardin, olivetano, utilizzando tutte le fonti possibili dall'ufficio stampa del Sinodo allo stesso nostro giornale.
Il testo è diviso in quattro parti: l'annuncio del tema, i Lineamenta, l'Instrumentum laboris, gli interventi dei padri sinodali durante le sedici congregazioni, più le riunioni dei circoli minori, l'elaborazione delle 50 proposizioni, e via via le informazioni sull'attività del Sinodo, gli eventi e le cerimonie, le riunioni della segreteria generale. Infine, ci sono note bibliografiche, appendici e indici.
In pratica, gli atti e i documenti fanno prendere cognizione dei lavori di tutto il processo sinodale e le più minute occasioni che accompagnano e segnano il cammino dell'evento ecclesiale, l'undicesimo della serie. Così, si tocca con mano lo speciale carisma di comunione e di collegialità che ha visto presente e partecipe attiva una parte dell'episcopato mondiale attorno al Pontefice, che presiede ai lavori stessi "nella salvaguardia e nell'incremento della fede e dei costumi, nell'osservanza e nel consolidamento della disciplina ecclesiastica".
In questo modo, il lettore interessato - per lo studioso è indispensabile - dispone di uno strumento essenziale ed unico che lo fa partecipe in toto dell'avvenimento e gli consente di leggere in ognuno degli interventi rispecchiata - sul tema unico e centrale della vita della Chiesa - la voce diretta della Chiesa insieme. Sia per gli interventi del Papa, sia per le carte ufficiali, sia per le singole testimonianze e opinioni di tanta parte dell'episcopato mondiale. Senza contare i contributi significativi dei delegati fraterni ai fini ecumenici. E poi, le problematiche sollevate dai Padri sinodali attraversano ogni Paese e continente, in ambito rigorosamente teologico come in direzione pratica e organizzativa pastorale, in ordine ai quesiti anche culturali di ogni area del mondo.
Tenendo conto che i diversi intervenuti consentono di cogliere problemi e situazioni che, pur applicandosi a tematiche specifiche - e l'Eucaristia è naturalmente il fuoco centrale - si allargano alle più varie manifestazioni e preoccupazioni di tanti, che sul tema dell'Eucaristia sono ovviamente portati ad ampliarne i termini e gli orientamenti validi per tutta la vita della Chiesa universale. Anche già trattati in altri sinodi o come anticipazione e prospettive nuove, conseguenti allo studio del tema in oggetto, ma passibili di promuoverne altri, imminenti o futuri.
In questi testi sull'Eucaristia s'incontra spesso, ad esempio, il problema della conoscenza o della diffusione della Parola di Dio - tema del Sinodo 2008 - con quello strettamente collegato della liturgia, al quale, fra l'altro, fa capo il sentito comune bisogno di esperti diffusori delle Scritture, ben preparati e ben formati, come anche di bravi predicatori (quante volte si legge che le omelie dovrebbero cambiare con riforme e nuovi orientamenti). Ogni intervento ci dà il polso della visione teologica, oltre ai magistrali contributi del relatore generale, il Patriarca di Venezia cardinale Angelo Scola, che insiste, con molta chiarezza e profondità di argomentazione sulla triplice linea del testo pontificio circa "l'Eucaristia, mistero da credere, Eucaristia, mistero da celebrare, Eucaristia, mistero da vivere", importantissimo rilievo ai fini della "trasformazione morale" che dall'Eucaristia, anche attraverso i sacramenti, deve passare alla vita di ogni cristiano.
Sulla scia di una riflessione meditata e consapevole a proposito dei documenti conciliari, il volume offre approfondimenti e considerazioni nei quali il lettore e l'esperto studioso possono incontrare e collaborare criticamente con testi e interventi, sul piano di ipotesi e prospettive teologiche e pastorali, con la fede e la carità, ma anche con la accertata competenza dei partecipanti alla ricerca essenziale della verità.



(©L'Osservatore Romano - 14 gennaio 2009)

OR - - Cristiani con le stellette per combattere la povertà

L'ordinario militare Pelvi per la Giornata mondiale per la pace

Roma, 13. "Seguire Cristo è combattere la povertà iniqua: ecco la via del dialogo tra popoli, culture e religioni, che non permetterà di convivere serenamente in una civiltà dove sta ritornando l'istinto di potere e di violenza che credevamo di aver soppresso a forza di dolce indifferenza, scegliendo i nostri piaceri prudenti o le nostre astensioni tollerabili". Lo ha detto l'arcivescovo Vincenzo Pelvi, ordinario militare per l'Italia, nell'omelia della celebrazione eucaristica per la Giornata mondiale della pace che tradizionalmente per i militari viene spostata alla seconda domenica di gennaio.
Richiamando espressamente il tema scelto da Benedetto XVI per tale Giornata - "Combattere la povertà, costruire la pace" - monsignor Pelvi ha ricordato il particolare impegno delle forze armate, in special modo in occasione delle missioni all'estero, "in vista di una società più equa e saggia". E l'impegno diretto dell'Ordinariato che attraverso i cappellani "motiva e sostiene progetti di carità a vantaggio dei più deboli".
Dalla sequela di Gesù "modello e misura della solidarietà" - ha ricordato Pelvi - sgorga l'impegno per "i fratelli e le sorelle che sono nella povertà". Occorre perciò "costruire quell'uguaglianza, che non è uguale ripartizione dei beni, ma contributo volontario che assicuri a ciascuno ciò di cui ha bisogno". E la Chiesa "non può che scegliere di essere povera" e di impegnarsi con passione "nel combattere la povertà che opprime tanti uomini e donne e minaccia la pace". Tanto più se pensiamo "alle dimensioni della miseria in cui versa la maggior parte dell'umanità, anche a causa della crescente crisi economica mondiale".
La pace è dunque "una condizione che esige il massimo della privazione, dello sforzo e del rischio per mantenere l'eroismo della propria vocazione cristiana". Ne sono consapevoli i soldati italiani, in particolare quelli impegnati nelle missioni all'estero, le quali si presentano come "preziose occasioni di crescita umana e spirituale nel bene comune". Questi militari "con i loro gesti di concreto aiuto e instancabile assistenza, rendono viva la famiglia umana, chiamata a tutelare i diritti di ogni uomo e di tutto l'uomo". E se questo è vero per quanto viene fatto dalle forze armate nei diversi teatri operativi - osserva ancora Pelvi - "non possiamo non considerare la ricaduta positiva e propositiva di pace che le missioni assumono in Italia, dove i nostri militari ritornano con un forte impegno di solidarietà". Le missioni diventano insomma una sorta di "scuola di carità" e finiscono per costituire un "canale di educazione alla pace che attraversa le nazioni". Infatti coloro che tornano dalle missioni umanitarie "ossigenano di gratuità i loro ambienti di vita e, impostando il quotidiano in maniera più generosa e attenta ai bisogni altrui, aprono i cuori delle loro famiglie a uno stile di sobrietà che apre il cuore e le braccia al mondo. Si riduce in tal modo il dislivello tra chi spreca il superfluo e chi manca persino del necessario". In questo senso - ha concluso Pelvi - le missioni "hanno un inizio e mai un termine" poiché, anche attraverso l'opera dei cappellani, si "prolungano in Italia attraverso gesti concreti che vanno dall'accoglienza presso le abitazioni dei militari di bambini all'adozione a distanza di famiglie; alla creazione di iniziative per il sostegno di fasce deboli della popolazione all'assistenza sanitaria di malati curati presso strutture e famiglie in Italia".
A conclusione della celebrazione - alla quale hanno assistito i capi di stato maggiore delle cinque forze armate e il consigliere militare del Presidente della Repubblica - sono stati consegnati ai presenti il messaggio del Papa per la Giornata mondiale della pace e una copia del Vangelo fatto stampare in centomila esemplari dall'Ordinariato per tutti i militari italiani.

(©L'Osservatore Romano - 14 gennaio 2009)

OR - - La coscienza sul banco degli imputati

La coscienza sul banco degli imputati


di Johan Ickx

La Penitenzieria non è nata come un ufficio per la risoluzione dei casi di foro interno, e neanche la disciplina della riserva papale ne spiega a sufficienza le origini. Se tali affermazioni sono comuni anche tra gli storici moderni, occorre dire che l'errore è dovuto al fatto - come afferma il Boudinhon - che si è voluto esaminare il passato d'una istituzione partendo dal suo ruolo attuale, mentre è chiaro che non è possibile applicare alla storia delle origini della Penitenzieria i principi giuridici che la reggono al presente. Questo errore spiega come non si sia ricercata l'origine storica delle numerose facoltà attribuite fin dai primi tempi della Penitenzieria, e che non riguardavano in nessun modo la riserva papale. Per quanto si voglia andar lontano nella storia di questo ufficio, esso ebbe poteri assai vasti, indipendenti dai casi riservati e riguardante soprattutto, ma non esclusivamente, il foro esterno.
È da ritenersi quindi che la Penitenzieria sia nata come ufficio burocratico per la risoluzione nel foro esterno dei casi (e non dei peccati) riservati alla Sede Apostolica, e di altri delitti ritenuti dai vescovi particolarmente gravi, per i quali esisteva già da tempo sia la riserva episcopale che la pratica dei pellegrinaggi penitenziali a Roma. Che le assoluzioni fossero date nel foro esterno è dimostrato dal fatto che esse non erano segrete, le suppliche venivano registrate e i canonisti d'ufficio, gli auditores experti in iure, trattavano queste censure nel diritto penale della Chiesa e non in quello della disciplina del sacramento della Penitenza. Il Boudinhon afferma giustamente che la Penitenzieria ai suoi inizi era une sorte de bureau des menues faveurs du pape (Chouet). Il cardinale Gaucelmo nel chiedere le facoltà a Clemente vi in Avignone nel 1342 così si esprime: Isti sunt casus pro quibus Maior Paenitentiarius ad continuam instantiam diversarum personarum Vestrae Sanctitati omni die vel quasi pro animarum salute oportet iuxta sibi commissi officii exercitium vestre Penitenziarie debitum continue infestare.
Si può collocare la prima apparizione sulla scena storica della figura di un cardinale penitenziere intorno all'anno 1179. È notevole il fatto che questi cardinali, almeno all'inizio, erano stati dei legati a latere, e quindi investiti di un ampia delega della plenitudo potestatis pontificia - come ha spiegato bene monsignor Agostino Maccarone - per delle missioni importanti dal punto di vista ecclesiale, ruolo che anche i penitenzieri minori avranno da svolgere nel XIII secolo: infatti questi risultano abilitati a giudicare, riformare, assolvere, condannare, scomunicare e deporre. Si presume che siano stati personaggi di spicco e di stretta fiducia dei Papi (è troppo presto per dirlo, ma forse si dovrebbe cercare addirittura un legame attraverso gli studi fatti nelle grandi scuole di allora; in particolare Parigi potrebbe offrire una chiave di lettura). Il cardinale stesso per molti decenni deve essere stato un primus inter pares tra i penitenzieri, dei quali non cessava mai il ministero, neanche durante la sede vacante. Peraltro, non si trovano mai le parole confessarius, confessio e così via, ma sempre paenitentiarius (nella descrizione dei sigilli da Meyer appare chiaramente non un confessore, ma un magistrato-giudice). Abbiamo anche notato come fu l'evoluzione del diritto a spingere i vescovi e i tribunali locali, più di prima, alla comune prassi di rivolgersi a Roma, e non viceversa, proprio perché era in pericolo l'intera costruzione sociale e i fondamenti sui quali questa era creata.
Si è visto che l'apparizione della figura del penitenziere maggiore si collega perfettamente al contesto della riforma gregoriana in atto e all'evoluzione nel diritto canonico in quel tempo. Infatti, il cambiamento nel diritto canonico del XII secolo è importante per l'Occidente medievale come lo è stata la rivoluzione copernicana per i tempi nostri. Nel diritto da un lato si vede riflesso l'ordine sociale che sta cambiando, con una netta divisione tra clero e laici e la scoperta, o meglio la ratificazione di un foro "della coscienza", umanizzando così un diritto troppo a lungo rimasto "barbaro" o "romano antico", anche se erano in atto delle usanze che puntavano in quella direzione di umanizzazione sotto la spinta della teologia cristiana, prima ancora che la base giuridica ben definita fosse fondata.
Abbiamo potuto dimostrare che fu proprio in quel contesto della nascita del diritto canonico (e civile) moderno, che anche presso la curia romana urge la necessità di "giudici professionali", e si sottolinea "giudici", che si occupino degli errori più grandi, se non di quelli "enormi", per i quali si faceva ricorso al Papa o che il Papa riservava per sé. Per il fatto che quest'ultimi potevano avere un impatto sociale o erano di natura tale da poter capovolgere l'ordine pubblico, furono tolti fuori dal foro interno e pertanto i penitenzieri, come giudici, e più tardi la penitenzieria, come tribunale, si occupavano esclusivamente del foro esterno. Quando questi esperti giudiziari circoscrivevano in modo sempre più dettagliato il foro esterno, essendo così in grado di definire anche il foro interno, allora si imbattevano su un terzo terreno che era sempre esistito e di natura completamente privata e personale: se un errore poteva suscitare scandalo pubblico o meno, in altre parole se era occulto o noto, in ultima istanza contava l'attitudine, la disposizione del peccatore o criminale dinanzi a Dio, e questo era il terreno della coscienza, del tutto segreta. L'unicità del tribunale della penitenzieria sta proprio nel fatto che si occupava di quel terreno, ed è stata la singolarità della Chiesa ad aver dato via libera alla sua nascita tra il 1150 e il 1250: un tribunale della coscienza, con le cui sentenze il penitente, indifferentemente se doveva scontare una pena per la società o meno, poteva riscuotere - come il cavaliere di Gascogne intorno all'anno 1000 - la sua colpa verso il suo Creatore.



(©L'Osservatore Romano - 14 gennaio 2009)

OR - - Contro la decadenza della quotidianità

In un simposio a Roma si ripercorre la storia della Penitenzieria Apostolica

Dagli interventi del primo giorno del simposio romano pubblichiamo ampi stralci della prolusione inaugurale del cardinale Penitenziere maggiore e le conclusioni della relazione dell'archivista della Penitenzieria.

di James Francis Stafford

In queste giornate di studio guarderemo con attenzione ai misteri del peccato e del perdono. È un mondo nel quale si scruta dentro "un abisso spalancato sulla totale deviazione dell'irriconciliabilità e dell'ostilità". Un mondo, dove il diabolico e la negatività - il diavolo, "omicida fin dall'inizio" (Giovanni, 8-44), il male istintivo dell'uomo - disputano attivamente con la verità. E la risposta è Cristo stesso, la sua stessa manifestazione, la sua epifania. Una risposta che esprime una reazione ineffabile al peccato. "Questo è il calice del mio sangue (...) versato per voi e per tutti in remissione dei peccati" (II preghiera eucaristica).
Cinque anni fa, durante l'inverno del 2003, subito dopo essere stato nominato Penitenziere Maggiore da Papa Giovanni Paolo ii, ho trascorso settimane di meditazione intensa e di preghiera sull'ontologia del perdono e della riconciliazione nella Chiesa cattolica.
Le parole e il linguaggio del perdono sono centrali nel mistero della riconciliazione cristiana. Con grande sorpresa, ho scoperto che nel medioevo questa esperienza fu enorme. Ho ritrovato infatti l'espressione culminante dell'esperienza cattolica della riconciliazione negli ultimi canti del Purgatorio di Dante. Solo il linguaggio rende possibile la comunicazione della riconciliazione tra noi. Nel considerare come il linguaggio sia la causa dell'essere umano, e per contro, secondo Agostino, il male sia la privatio boni - privazione del bene - è necessario che articoliamo la nostra deficienza ontologica secondo la riconciliazione.
La libertà umana porta con sé l'illimitata sfida con la nostra responsabilità. Lentamente ho realizzato come la teologia della riconciliazione preveda la Croce di Gesù al suo centro. È la contraddizione del male. Mi sono soffermato specialmente su Gesù abbandonato dal Padre. L'illogico del peccato è "catturato dalla logica dell'amore della Trinità". Era divenuto impossibile per me comprendere il mistero dell'inferno e il perdono del Padre accettando il commercium admirabile di Gesù senza penetrare nel mistero dell'abbandono di Gesù da parte del Padre nel venerdì santo e nel sabato santo.
Desidero brevemente rifarmi al contesto storico del nostro convegno.
Nell'anno 1179 Papa Alessandro III (1159-1181) riunì circa trecento padri provenienti dalle varie province ecclesiastiche dell'Europa e vennero anche vescovi latini che vivevano in Oriente per partecipare al iii concilio ecumenico Lateranense. Secondo fonti autorevoli, la Penitenzieria Apostolica è stata istituita proprio in questo periodo; quindi, a mio avviso, la realizzazione di un simposio proprio nel 2009 costituisce l'evento più idoneo a commemorare l'inizio canonico della Penitenzieria Apostolica, essendo l'ottocentotrentesimo anniversario della sua fondazione.
Alcune fonti riportano, che tale ministero penitenziale, esisteva già nella Roma papale, in tempi antecedenti al III concilio Lateranense. Il canone 15 del II concilio Lateranense tenuto nel 1139, definì la prima censura ecclesiastica riservata al Papa nella storia. Non sarebbe quindi improprio affermare che, nel periodo intermedio, i Papi abbiano nominato, per giudicare i vari casi, un delegato che fosse membro della "Curia romana". Questo termine iniziò a circolare appena prima del 1169. L'espressione "Curia romana" si trova, per la prima volta, in una lettera indirizzata al cardinale Enrico del titolo dei Santi Nereo e Achilleo dal teologo Gerhoh di Reicherberg che morì proprio nel 1169.
Secondo uno studio del 1968 menzionato da Nicolò Del Re, non è storicamente sbagliato sostenere che un simile ufficio esisteva già nella corte papale al tempo di Benedetto II. Il suo pontificato fu molto breve, 684-685.
È ben noto il rapido sviluppo della Curia romana nel XII secolo dopo il pontificato di Innocenzo ii e la compilazione del Decretum Gratiani. Meno nota è invece la causa di questa espansione. Secondo lo storico Geoffrey Baracough, con tale ricorso a Roma "all'inizio vi fu una proliferazione di province ecclesiastiche tanto quanto il papato stesso". La distruzione delle istituzioni civili e culturali nei secoli immediatamente precedenti lasciò un vuoto sia a livello regionale sia a livello locale che poté essere riempito soltanto da un'autorità pubblica sufficientemente forte in Europa: la Roma papale.
Alla morte Alessandro III nel 1181, un gruppo di cardinali, manifestò una certa opposizione; costoro si opponevano alla politica del defunto Papa che mirava a una ulteriore centralizzazione dell'autorità papale. Ne consegue che verranno eletti una serie di Papi fautori di politiche meno accentratrici. Essi perorano la causa che "il papato doveva essere appagato della sua preminenza ratione peccati e non adoperarsi direttamente per il potere politico". Tra questi cardinali vi era Giovanni Colonna di San Paolo colui che Papa Celestino iii aveva designato, senza successo, come suo successore immediatamente prima della sua morte avvenuta nel 1198. Infatti i cardinali elessero Giovanni Lotario di Segni che prese il nome di Innocenzo III che aveva una visione della Chiesa molto differente. Lo stesso Giovanni Colonna viene identificato come secondo Penitenziere maggiore. Questi viene definito come uno qui erat cardinalis qui confessiones pro Papa tunc recipiebat. Egli sarebbe stato subito uno dei primi sostenitori di Francesco d'Assisi nella Curia romana.
Il presente incontro di due giorni, è intitolato "La Penitenzieria Apostolica e il Sacramento della Penitenza: Percorsi storici-giuridici-teologici e prospettive pastorali". Tutti e quattro gli aggettivi sono importanti: storici, giuridici, teologici e pastorali. Vorrei porre l'accento sull'ultimo.
Sia nel passato che nel presente - realizzazione moderna - i Papi hanno affidato alla Penitenzieria Apostolica, l'autorità per il foro interno. Nei secoli scorsi essi avevano assegnato a questo ambito una certa priorità rispetto a quello esterno. Attualmente la sua competenza riguarda esclusivamente il foro interno e si occupa di problemi canonici e pastorali.
Molto evidente è la stretta connessione tra l'origine e lo sviluppo della Penitenzieria Apostolica e il ministero dei penitenzieri minori delle quattro maggiori basiliche romane, come si può ulteriormente notare nella profonda evoluzione del concetto del foro interno con la Chiesa. Questo sviluppo è stato centrale per la concezione esclusivamente occidentale dell'essere umano inteso come persona.
Lo spirito delle riforme dei Papi attraverso i secoli è stato sempre vicino alla principale illuminazione di sant'Agostino rintracciabile nel decimo capitolo delle Confessioni. Egli indica il principio fondamentale meta-antropologico che governa la visione dei Pontefici romani in relazione a questo dicastero e a tutte le riforme della Curia: "Tu sollevi chi riempi; io ora, non essendo pieno di te, sono un peso per me". Tra i più mostruosi peccati della razza umana, il penitente è chiamato a riconoscere che egli "è debitore con il suo umile e indivisibile servizio al Signore Dio" solo. Senza Dio non c'è dramma in grado di dare sostanza alla libertà strutturale dell'uomo. Come si può notare, lo stesso spirito è rintracciabile nella riforma del dicastero sotto Eugenio IV nel 1438. Con Sisto IV nel 1484; con san Pio V nel 1569, il quale fu particolarmente influenzato dagli interessi pastorali di san Carlo Borromeo. E anche nella riforma del grande canonista Benedetto XVI; e in san Pio X, con la sua vigorosa affermazione sul carattere pastorale dei ministeri della Curia romana fino alla più recente riforma operata da Giovanni Paolo II nel 1988.
Si può affermare, in breve, che durante la tarda era patristica e medievale, i teologi si rifacevano al foro esterno in vari modi: il foro della Chiesa, il giudizio della Chiesa, il foro esterno della Chiesa, il foro della controversa giurisdizione. Quando invece si faceva riferimento al foro interno, venivano usate indicazioni totalmente differenti e nuove, come ad esempio il "campo da solcare". Veniva descritto come il foro poenitentiae, foro Dei, iudicium conscientiae, iudicium animarum in foro poenitentiae, foro spirituale e penitenziale, e così via.
La Penitenzieria Apostolica tratta la decadenza della quotidianità. È proprio a questo che i Papi si riferivano quando, più di 830 anni fa, affidarono alla Penitenzieria Apostolica certi riservati, irregolarità e censure del foro interno. La Penitenzieria Apostolica si occupa anche dei vizi maggiori. Le vite delle persone sono segnate frequentemente da forme maggiori di eccessi e di difetti.
La loro origine è triplice come scrive san Giovanni: "La concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita" (1 Giovanni, 2-16). Il concilio di Trento nella sezione quattordicesima sul sacramento della Penitenza ha descritto le ragioni pastorali per tali riserve con le seguenti crude parole, "gran parte dei nostri padri hanno giudicato che sia molto importante per la disciplina dei cristiani che offese infamanti e anche più serie vengano assolte, non da un qualsiasi sacerdote, ma soltanto da coloro che sono di un rango più alto; quindi dai papi". Le irregolarità riservate e le censure, sono dunque messaggi al popolo di Dio, esse sono chiamate a svegliare, parlano con enorme urgenza: "Amico, c'è qualcosa di terribilmente sbagliato nella tua conoscenza di Dio. Perché "se tu non conosci Dio non puoi non conoscere la profondità del fardello della vita (sant'Agostino)"".
La Penitenzieria Apostolica cerca di richiamare le persone all'interiorità della loro vita cristiana. Esse devono riscoprire la complessità della vita quotidiana nel mondo nel quale sono parti centrali, secondo Sofocle. E scoprire ancora che l'uomo è il più strano di tutti (in greco, deinotàton). Questo carattere di stranezza "comprende i limiti estremi e gli scoscesi abissi dell'essere umano". L'uomo è il più strano degli strani. Lui è più strano nel senso che ha anche grande potere e usa questo potere. Può essere insopportabile al punto da causare terrore e panico. Molto spesso, le persone che si rivolgono alla Penitenzieria Apostolica hanno esercitato potere su qualcosa che loro percepiscono come insopportabile, opprimente. Tale grande potere può essere usato in modo improprio, violento - violenza contro se stessi o verso gli altri o verso Dio.
La Chiesa è stata sempre convinta che il penitente non può accostarsi alla conversione in modo solitario. La libertà umana è stata sempre coinvolta in un dialogo con la libertà divina. L'una è in conflitto con l'altra - ultimamente come Dio con Giacobbe, chiamato più tardi Israel - era il guado dello Jabbok (Genesi, 32,22-32). In lotta con tale oscurità interiore, l'individuo che si appella alla Penitenzieria Apostolica è chiamato a fare affidamento completamente e ultimamente a Dio e al "vero Mediatore, che nel segreto della grazia di (Dio) (Lui) si è mostrato agli uomini e si è dato agli uomini, l'uomo Gesù Cristo, apparso tra i mortali peccaminosi, e il Giusto immortale". Non esiste altra via. Soltanto in tale lotta con Dio in Cristo il penitente ritrova se stesso ancora come una persona.
L'arena della lotta può essere individuata nel decimo libro di sant'Agostino, Le Confessioni. Come ha dimostrato Wilhelm Dilthey, è proprio nelle Confessioni e nel iii concilio di Costantinopoli - con la definizione delle due volontà di Cristo - che l'Europa deve riscoprire le radici del suo concetto di persona umana. Non le potrà trovare in nessun altro continente. Queste sono le sorgenti principali dello sviluppo della comprensione europea dell'essere umano in quanto persona. L'intera storia dell'Occidente ha mostrato che soltanto con Dio come protagonista può l'uomo scoprire la sua dignità, la sua individualità e la sua libertà.
Al contrario, Martin Heidegger ha cercato di estrarre formalmente la parte religiosa dai capitoli decimo e undicesimo delle Confessioni. Al loro posto, egli ha proposto letteralmente "il Nulla" con unico protagonista dell'uomo nella realtà della vita. I fallimenti propri di Heidegger dal 1934 al 1945 nel suo abbraccio entusiastico del nazismo e nel suo fermo rifiuto di ripudiare il passato - comprese le relazioni adultere con Hannah Arendt - dimostrano l'ultima bancarotta della sua fenomenologia ateistica.
Sean J. McGrath ha commentato negativamente la formalizzazione del concetto di conversione del cristiano di Heidegger. "Che cosa poteva conoscere Agostino della storia e della realtà senza la coscienza di essere proteso a Dio? Al contrario, ci si chiede, cosa rimarrebbe dell'esperienza agostiniana in una prospettiva ateistica? Heidegger deve sostituire una x a Dio per mantenere il termine di teleologia esistenziale, senza negare il futuro e nemmeno l'esperienza del reale. Egli sostituisce il Dio di Agostino con la morte. Fritsch giustamente si chiede se la morte può essere per Heiddeger ciò che per Agostino rappresenta Dio".
Concludo con un testo, di Guido Saraceni, che riassume succintamente le mie speranze per questo simposio. Dopo aver considerato i vasti riferimenti in materia di diritto canonico sul foro interno, egli scrive "che se, poi, da codesti canoni, incontrati a ogni piè sospinto - che non possono non avere, spesso, sapor di dettaglio - si desideri salire a una visione più ampia e sintetica, nella quale sia possibile possedere un concetto scientifico, il più possibilmente generale e astratto, del foro interno, ci si accorge ben presto di dover assurgere, non alla visione di un singolo istituto e, nemmeno, di una intera branca di più vasta istituzione; ma a una sintesi costruttiva di primi principi, essenziali all'intera realtà costituzionale, storica e dogmatica, giuridica e, si voglia o no, teologica della Chiesa. Secondo quanto si desume dai testi, dalla prassi ecclesiastica, dalle elaborazioni - per quanto non definitive e non del tutto incontroverse - della dottrina".



(©L'Osservatore Romano - 14 gennaio 2009)

giovedì 8 gennaio 2009

All'udienza generale Benedetto XVI parla della visione paolina


È venuto il tempo
del vero culto


Nella Croce di Cristo si realizza "un contatto reale" tra miseria umana e misericordia divina: lo ha ricordato Benedetto XVI parlando della nuova visione paolina del culto durante l'udienza generale di mercoledì 7 gennaio, nell'Aula Paolo VI.

Cari fratelli e sorelle,
in questa prima Udienza generale del 2009, desidero formulare a tutti voi fervidi auguri per il nuovo anno appena iniziato. Ravviviamo in noi l'impegno di aprire a Cristo la mente ed il cuore, per essere e vivere da veri amici suoi. La sua compagnia farà sì che quest'anno, pur con le sue inevitabili difficoltà, sia un cammino pieno di gioia e di pace. Solo, infatti, se resteremo uniti a Gesù, l'anno nuovo sarà buono e felice.
L'impegno di unione con Cristo è l'esempio che ci offre anche san Paolo. Proseguendo le catechesi a lui dedicate, ci soffermiamo oggi a riflettere su uno degli aspetti importanti del suo pensiero, quello riguardante il culto che i cristiani sono chiamati a esercitare. In passato, si amava parlare di una tendenza piuttosto anti-cultuale dell'Apostolo, di una "spiritualizzazione" dell'idea del culto. Oggi comprendiamo meglio che Paolo vede nella croce di Cristo una svolta storica, che trasforma e rinnova radicalmente la realtà del culto. Ci sono soprattutto tre testi della Lettera ai Romani nei quali appare questa nuova visione del culto.
1. In Rm 3, 25, dopo aver parlato della "redenzione realizzata da Cristo Gesù", Paolo continua con una formula per noi misteriosa e dice così: Dio lo "ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue". Con questa espressione per noi piuttosto strana - "strumento di espiazione" - san Paolo accenna al cosiddetto "propiziatorio" dell'antico tempio, cioè il coperchio dell'arca dell'alleanza, che era pensato come punto di contatto tra Dio e l'uomo, punto della misteriosa presenza di Lui nel mondo degli uomini. Questo "propiziatorio", nel grande giorno della riconciliazione - "yom kippur" - veniva asperso col sangue di animali sacrificati - sangue che simbolicamente portava i peccati dell'anno trascorso in contatto con Dio e così i peccati gettati nell'abisso della bontà divina erano quasi assorbiti dalla forza di Dio, superati, perdonati. La vita cominciava di nuovo.
San Paolo, accenna a questo rito e dice: Questo rito era espressione del desiderio che si potessero realmente mettere tutte le nostre colpe nell'abisso della misericordia divina e così farle scomparire. Ma col sangue di animali non si realizza questo processo. Era necessario un contatto più reale tra colpa umana ed amore divino. Questo contatto ha avuto luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio vero di Dio, fattosi uomo vero, ha assunto in sé tutta la nostra colpa. Egli stesso è il luogo di contatto tra miseria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste del male compiuto dall'umanità, e si rinnova la vita.
Rivelando questo cambiamento, san Paolo ci dice: Con la croce di Cristo - l'atto supremo dell'amore divino divenuto amore umano - il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito. Questo culto simbolico, culto di desiderio, è adesso sostituito dal culto reale: l'amore di Dio incarnato in Cristo e portato alla sua completezza nella morte sulla croce. Quindi non è questa una spiritualizzazione di un culto reale, ma al contrario il culto reale, il vero amore divino-umano, sostituisce il culto simbolico e provvisorio. La croce di Cristo, il suo amore con carne e sangue è il culto reale, corrispondendo alla realtà di Dio e dell'uomo. Già prima della distruzione esterna del tempio per Paolo l'era del tempio e del suo culto è finita: Paolo si trova qui in perfetta consonanza con le parole di Gesù, che aveva annunciato la fine del tempio ed annunciato un altro tempio "non fatto da mani d'uomo" - il tempio del suo corpo resuscitato (cfr. Mc 14, 58; Gv 2, 19ss). Questo è il primo testo.
2. Il secondo testo del quale vorrei oggi parlare si trova nel primo versetto del capitolo 12 della Lettera ai Romani. Lo abbiamo ascoltato e lo ripeto ancora: "Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale". In queste parole si verifica un apparente paradosso: mentre il sacrificio esige di norma la morte della vittima, Paolo ne parla invece in rapporto alla vita del cristiano. L'espressione "presentare i vostri corpi", stante il successivo concetto di sacrificio, assume la sfumatura cultuale di "dare in oblazione, offrire". L'esortazione a "offrire i corpi" si riferisce all'intera persona; infatti, in Rm 6, 13 egli invita a "presentare voi stessi". Del resto, l'esplicito riferimento alla dimensione fisica del cristiano coincide con l'invito a "glorificare Dio nel vostro corpo" (1 Cor 6, 20): si tratta cioè di onorare Dio nella più concreta esistenza quotidiana, fatta di visibilità relazionale e percepibile.
Un comportamento del genere viene da Paolo qualificato come "sacrificio vivente, santo, gradito a Dio". È qui che incontriamo appunto il vocabolo "sacrificio". Nell'uso corrente questo termine fa parte di un contesto sacrale e serve a designare lo sgozzamento di un animale, di cui una parte può essere bruciata in onore degli dèi e un'altra parte essere consumata dagli offerenti in un banchetto. Paolo lo applica invece alla vita del cristiano. Infatti egli qualifica un tale sacrificio servendosi di tre aggettivi. Il primo - "vivente" - esprime una vitalità. Il secondo - "santo" - ricorda l'idea paolina di una santità legata non a luoghi o ad oggetti, ma alla persona stessa dei cristiani. Il terzo - "gradito a Dio" - richiama forse la frequente espressione biblica del sacrificio "in odore di soavità" (cfr. Lev 1, 13.17; 23, 18; 26, 31; ecc.).
Subito dopo, Paolo definisce così questo nuovo modo di vivere: questo è "il vostro culto spirituale". I commentatori del testo sanno bene che l'espressione greca (ten logiken latreían) non è di facile traduzione. La Bibbia latina traduce: "rationabile obsequium". La stessa parola "rationabile" appare nella prima Preghiera eucaristica, il Canone Romano: in esso si prega che Dio accetti questa offerta come "rationabile". La consueta traduzione italiana "culto spirituale" non riflette tutte le sfumature del testo greco (e neppure di quello latino). In ogni caso non si tratta di un culto meno reale, o addirittura solo metaforico, ma di un culto più concreto e realistico - un culto nel quale l'uomo stesso nella sua totalità di un essere dotato di ragione, diventa adorazione, glorificazione del Dio vivente.
Questa formula paolina, che ritorna poi nella Preghiera eucaristica romana, è frutto di un lungo sviluppo dell'esperienza religiosa nei secoli antecedenti a Cristo. In tale esperienza si incontrano sviluppi teologici dell'Antico Testamento e correnti del pensiero greco. Vorrei mostrare almeno qualche elemento di questo sviluppo. I Profeti e molti Salmi criticano fortemente i sacrifici cruenti del tempio. Dice per esempio il Salmo 50 (49), in cui è Dio che parla: "Se avessi fame a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode..." (vv 12-14). Nello stesso senso dice il Salmo seguente, 51 (50): "..non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi" (vv 18s). Nel Libro di Daniele, al tempo della nuova distruzione del tempio da parte del regime ellenistico (ii secolo a. C.) troviamo un nuovo passo nella stessa direzione. In mezzo al fuoco - cioè alla persecuzione, alla sofferenza - Azaria prega così: "Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. Potessimo essere accolti con cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di tori... Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito..." (Dan 3, 38ss). Nella distruzione del santuario e del culto, in questa situazione di privazione di ogni segno della presenza di Dio, il credente offre come vero olocausto il cuore contrito - il suo desiderio di Dio.
Vediamo uno sviluppo importante, bello, ma con un pericolo. C'è una spiritualizzazione, una moralizzazione del culto: il culto diventa solo cosa del cuore, dello spirito. Ma manca il corpo, manca la comunità. Così si capisce per esempio che il Salmo 51 e anche il Libro di Daniele, nonostante la critica del culto, desiderano il ritorno al tempo dei sacrifici. Ma si tratta di un tempo rinnovato, un sacrificio rinnovato, in una sintesi che ancora non era prevedibile, che ancora non si poteva pensare.
Ritorniamo a san Paolo. Egli è erede di questi sviluppi, del desiderio del vero culto, nel quale l'uomo stesso diventi gloria di Dio, adorazione vivente con tutto il suo essere. In questo senso egli dice ai Romani: "Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente...: è questo il vostro culto spirituale" (Rm 12, 1). Paolo ripete così quanto aveva già indicato nel capitolo 3: Il tempo dei sacrifici di animali, sacrifici di sostituzione, è finito. È venuto il tempo del vero culto. Ma qui c'è anche il pericolo di un malinteso: si potrebbe facilmente interpretare questo nuovo culto in un senso moralistico: offrendo la nostra vita facciamo noi il vero culto. In questo modo il culto con gli animali sarebbe sostituito dal moralismo: l'uomo stesso farebbe tutto da sé con il suo sforzo morale. E questo certamente non era l'intenzione di san Paolo. Ma rimane la questione: Come dobbiamo dunque interpretare questo "culto spirituale, ragionevole"? Paolo suppone sempre che noi siamo divenuti "uno in Cristo Gesù" (Gal 3, 28), che siamo morti nel battesimo (cfr. Rm 1) e viviamo adesso con Cristo, per Cristo, in Cristo. In questa unione - e solo così - possiamo divenire in Lui e con Lui "sacrificio vivente", offrire il "culto vero". Gli animali sacrificati avrebbero dovuto sostituire l'uomo, il dono di sé dell'uomo, e non potevano. Gesù Cristo, nella sua donazione al Padre e a noi, non è una sostituzione, ma porta realmente in sé l'essere umano, le nostre colpe ed il nostro desiderio; ci rappresenta realmente, ci assume in sé. Nella comunione con Cristo, realizzata nella fede e nei sacramenti, diventiamo, nonostante tutte le nostre insufficienze, sacrificio vivente: si realizza il "culto vero".
Questa sintesi sta al fondo del Canone romano in cui si prega affinché questa offerta diventi "rationabile" - che si realizzi il culto spirituale. La Chiesa sa che nella Santissima Eucaristia l'autodonazione di Cristo, il suo sacrificio vero diventa presente. Ma la Chiesa prega che la comunità celebrante sia realmente unita con Cristo, sia trasformata; prega perché noi stessi diventiamo quanto non possiamo essere con le nostre forze: offerta "rationabile" che piace a Dio. Così la Preghiera eucaristica interpreta in modo giusto le parole di san Paolo. Sant'Agostino ha chiarito tutto questo in modo meraviglioso nel 10° libro della sua Città di Dio. Cito solo due frasi. "Questo è il sacrificio dei cristiani: pur essendo molti siamo un solo corpo in Cristo"... "Tutta la comunità (civitas) redenta, cioè la congregazione e la società dei santi, è offerta a Dio mediante il Sommo Sacerdote che ha donato se stesso" (10, 6: Ccl 47, 27 ss).
3. Alla fine ancora una brevissima parola sul terzo testo della Lettera ai Romani concernente il nuovo culto. San Paolo dice così nel cap. 15: "La grazia che mi è stata concessa da parte di Dio di essere "liturgo" di Cristo Gesù per i pagani, di essere sacerdote (hierourgein) del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo" (15, 15s). Vorrei sottolineare solo due aspetti di questo testo meraviglioso e quanto alla terminologia unica nelle lettere paoline. Innanzitutto, san Paolo interpreta la sua azione missionaria tra i popoli del mondo per costruire la Chiesa universale come azione sacerdotale. Annunciare il Vangelo per unire i popoli nella comunione del Cristo risorto è una azione "sacerdotale". L'apostolo del Vangelo è un vero sacerdote, fa ciò che è il centro del sacerdozio: prepara il vero sacrificio. E poi il secondo aspetto: la meta dell'azione missionaria è - così possiamo dire - la liturgia cosmica: che i popoli uniti in Cristo, il mondo, diventi come tale gloria di Dio, "oblazione gradita, santificata nello Spirito Santo". Qui appare l'aspetto dinamico, l'aspetto della speranza nel concetto paolino del culto: l'autodonazione di Cristo implica la tendenza di attirare tutti alla comunione del suo Corpo, di unire il mondo. Solo in comunione con Cristo, l'Uomo esemplare, uno con Dio, il mondo diventa così come tutti noi lo desideriamo: specchio dell'amore divino. Questo dinamismo è presente sempre nell'Eucaristia - questo dinamismo deve ispirare e formare la nostra vita. E con questo dinamismo cominciamo il nuovo anno. Grazie per la vostra pazienza.



(©L'Osservatore Romano - 7-8 gennaio 2009)

Il messaggio di Natale del metropolita Cirillo

Il locum tenens del Patriarcato di Mosca ha ricordato la recente scomparsa di Alessio II

Mosca, 7. Nella ricorrenza della celebrazione del Natale secondo il calendario della tradizione ortodossa, il locum tenens del trono patriarcale di Mosca, il metropolita Cirillo di Smolensk e Kaliningrad, ha rivolto un messaggio augurale ai fedeli della sua Chiesa.
Rivolgendosi agli arcivescovi, ai presbiteri, ai diaconi, ai religiosi e religiose e a tutti i fedeli, il metropolita Cirillo augura "Misericordia a voi, pace e amore in abbondanza" citando la lettera di Giuda (1, 2).
Nel messaggio il presule ortodosso sottolinea che "proprio in questi giorni noi ricordiamo come il figlio di Dio discese tra gli uomini in modo che noi possiamo sentirci uniti lui". Tuttavia affinché ciò possa avvenire ancora oggi nella vita quotidiana "c'è bisogno che in ogni fedele ci sia una risposta al richiamo dell'Amore divino".
Nel messaggio Cirillo ricorda la recente scomparsa del Patriarca Alessio II: "Come il buon pastore del Vangelo, egli "ha dato la sua vita per le pecore" (Giovanni, 10, 11) confermato nella sua missione dal Supremo Pastore Cristo".
Il metropolita sottolinea il merito del Patriarca Alessio di avere preservato la Chiesa fondata da Dio dai pericoli dello scisma e della divisione. Le celebrazioni dei milleventi anni della conversione della Russia tenutesi a Mosca, a Kiev e a Minsk dimostrano la volontà dei fedeli di avere una sola Chiesa nella pienezza del Corpo di Cristo.
Il Metropolita Cirillo mette anche in evidenza nell'indirizzo del Natale che i cristiani ortodossi in Russia si trovano oggi ad affrontare nuove difficoltà in una società che non ricorda più quella ateista imposta nei tempi passati. I nuovi problemi di oggi sono invece di tipo economico e sociale e attualmente molti fedeli vivono il dramma della disoccupazione e della povertà.
"La Chiesa - afferma Cirillo nel messaggio - abbraccia con compassione tutti coloro che hanno difficoltà nella situazione di crisi attuale. Possa Dio dare forza e saggezza a tutti - dirigenti, imprenditori e semplici lavoratori - in modo che gli sforzi comuni e coordinati, l'aiuto reciproco e la ricerca delle giuste decisioni possano aiutare a superare le attuali difficoltà, preservare noi stessi e i nostri cari e mantenere la pace e l'armonia nella società".
Il messaggio reca un forte appello per le elezioni dei responsabili delle assemblee locali e per quella prossima del nuovo Patriarca di Mosca: "Soltanto l'amore crea la vera unità", è l'ammonimento contenuto nel testo.
In alcune dichiarazioni rilasciate nel corso di un'intervista alla Radio Vaticana l'arcivescovo Antonio Mennini, nunzio apostolico, rappresentante della Santa Sede nella Federazione Russa, ha sottolineato il grande cordoglio che la scomparsa del Patriarca di Mosca ha suscitato tra i fedeli della Chiesa ortodossa di Russia. "Io sono andato per qualche giorno sulla tomba del Patriarca Alessio II e ho visto che veramente c'è una folla costante, e non solo - e questo è significativo - di gente adulta o anziana, ma anche di molti giovani".
L'arcivescovo Mennini sottolinea che la tradizione ortodossa ricorda il quarantesimo giorno della scomparsa dell'illustre patriarca, che cade il 13 gennaio. "Questo - sottolinea monsignor Mennini - per un'associazione con il tempo trascorso da Gesù sulla terra dopo la Risurrezione, fino all'Ascensione".
Rispondendo alla domanda sugli echi in Russia dei ripetuti appelli di Benedetto XVI a una maggiore sobrietà in favore dei poveri che maggiormente sentono gli effetti negativi dell'attuale crisi economica, monsignor Mennini ha sottolineato che anche in questo grande Paese "la situazione economica sta peggiorando. Anche l'arcivescovo Cirillo ha recentemente parlato di questo, di come la Chiesa debba farsi carico delle attese soprattutto dei poveri.



(©L'Osservatore Romano - 7-8 gennaio 2009)

Da OR - Rilettura del «Diario di un curato di campagna» di Georges Bernanos


La solitudine dell'apostolo


Si è svolto a Imperia Porto Maurizio un convegno sul tema "... e la "Parola" si fece film". Pubblichiamo quasi per intero uno degli interventi.

di Enrico dal Covolo

Mi è stato chiesto di illustrare il tema teologico della solitudine dell'apostolo nel Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos (1936), trascorrendo attraverso tre personaggi: Gesù Cristo, Paolo di Tarso e il curato di Ambricourt, al quale Bernanos non ha "osato" dare un nome. In realtà la solitudine di Gesù e quella di Paolo le evocheremo appena, in forma di introduzione.
Il tema della solitudine di Cristo - che scorre carsicamente lungo i quattro Vangeli - raggiunge il suo acme nel racconto della Passione, soprattutto nel Vangelo più antico e più breve, quello di Marco. Sono due le scene che qui interessano in modo speciale, quella del Getsemani (14, 32-42) e quella della morte in croce (15, 33-39). In tutt'e due le scene Gesù è drammaticamente solo, fino al suo ultimo grido: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Marco 15, 34).
Eppure - nella più profonda afflizione dello spirito e nel silenzio "scandaloso" del Padre - Gesù continua a esprimere la certezza di essere Figlio, mentre il Padre rivela, misteriosamente, il suo volto paterno. "Abbà, Padre mio!": così, con il più tenero affetto, si rivolge a lui Gesù, proprio nel momento supremo della sua solitudine (Marco 14, 36).
Che cosa vuol dire tutto questo? Significa che l'apostolo non raggiunge il vero volto di Dio senza passare attraverso l'agonia del proprio intimo. (...) Nell'agonia del Getsemani, come sulla croce del Golgota, Gesù racconta al Padre la propria intima lacerazione, come sempre fanno i grandi uomini di Dio. E nel silenzio sconcertante di quel Dio, si staglia nel cuore dell'apostolo il volto del Padre.
Anche nell'epistolario paolino la solitudine dell'apostolo è sottolineata molte volte. Ma questo tema diventa più esplicito nella confessione amara di Paolo durante la sua prima prigionia a Roma, intorno all'anno 63: "Tutti mi hanno abbandonato", scrive Paolo a Timoteo (2 Timoteo 4, 16), uno dei principali episcopi della seconda generazione cristiana. (...) Quello dell'apostolo è un donarsi ostinato. Abbandonato e tradito "da", egli muore "per". Quella dell'apostolo è una solidarietà universale, nonostante l'incomprensione e il rifiuto dei suoi. Il vino della cena deve essere bevuto, il medesimo pane deve essere mangiato, lungo i secoli.
È stato osservato che tutto il cammino del curato di Ambricourt ripercorre una "imitazione di Cristo", spesso particolarmente evidente, altre volte più nascosta e simbolica, ma che in ogni caso va considerata come la "struttura profonda" delle confessioni del curato. (...) Se il cammino umano di Gesù è un cammino che culmina nella croce, quello del curato è segnato dal medesimo silenzio e dalla stessa notte.
Questo silenzio tenebroso, drammatico, è uno dei temi preferiti di Bernanos. È il tema del silenzio di Dio. "Ho scritto questo in una grande e piena angoscia del cuore e dei sensi. Tumulto d'idee, d'immagini, di parole. L'anima tace. Dio tace. Silenzio", confessa ad esempio il curato, in fondo a una pagina del suo diario: le righe sono cancellate parecchie volte, ma ancora decifrabili, annota Bernanos. (...) Anche qui, come abbiamo fatto già con il racconto della Passione secondo Marco, propongo di osservare soprattutto due scene.
La prima scena si riferisce al singolare incontro del curato con Serafita, una delle bambine del catechismo parrocchiale, nella quale lo spirito dell'infanzia si alterna con la malizia del mondo. Il curato rinviene faticosamente, nel buio della notte, al bordo di un campo bagnato dalla pioggia. Ha avuto una terribile emorragia. "Avete vomitato", gli spiega Serafita che l'ha scoperto per caso, mentre pascolava le mucche. "Avete la faccia impiastricciata, come se aveste mangiato delle more". E "mentre parlava", scrive il curato, la ragazzina mi passava uno straccio bagnato "sulla fronte, sulle guance. L'acqua fresca mi faceva bene. Mi sono alzato, ma tremavo sempre forte. Alfine quel brivido è cessato. La mia piccola Samaritana alzava la sua lanterna all'altezza del mio mento: per meglio giudicare il suo lavoro, suppongo".
Chi non legge, nella filigrana di questo racconto, un'immagine tanto cara alla tradizione cristiana, l'immagine della Veronica che deterge il volto insanguinato e sofferente di Gesù? Siamo nel cuore della via crucis, quella di Gesù, come quella del curato di Ambricourt. L'imitatio Christi è palese. La solitudine scandalosa del condannato a morte è consolata dal gesto misericordioso di una donna. Intanto, il cammino della croce continua.
La seconda scena è quella conclusiva. Narra l'agonia e la morte del curato, un po' a immagine dell'agonia di Gesù. Siamo nell'ultima pagina del romanzo, scritta in corsivo. Il diario è ormai finito, e chi scrive è un ex-prete. Nella sua casa, a Lilla, il curato di Ambricourt si è rifugiato per trascorrere la notte, dopo aver appreso la propria condanna a morte: un medico morfinomane gli ha appena svelato, brutalmente, lo stadio irreversibile del suo tumore. "Verso le quattro - annota l'ex-prete - non potendo dormire, sono andato discretamente sino alla sua camera, e ho trovato il mio disgraziato compagno steso a terra senza conoscenza. (...) Mentre aspettavo il medico, il nostro amico ha ripreso conoscenza; ma non parlava. Frequenti gocce di sudore gli colavano dalla fronte e dalle guance, e il suo sguardo, appena visibile tra le palpebre semiaperte, sembrava esprimere una grande angoscia. (...) Poiché il prete si faceva aspettare, ho creduto di dover esprimere al mio sfortunato compagno il dispiacere che mi dava un ritardo, che rischiava di privarlo delle consolazioni che la Chiesa riserva ai moribondi. Non sembrò intendermi. Ma, qualche momento dopo, la sua mano si è posata sulla mia, mentre il suo sguardo mi faceva chiaramente segno di avvicinare l'orecchio alla sua bocca. Ha pronunciato allora distintamente, benché con estrema lentezza, queste parole, che sono certo di riferire esattissimamente: "Che cosa importa? Tutto è grazia". Credo che sia morto quasi subito dopo".
Come è noto, sono queste le parole che chiudono il romanzo. Una conclusione di grande effetto, senza dubbio. Una conclusione che riporta al centro i due grandi temi che qui interessano: la solitudine dell'apostolo e l'imitazione di Cristo.
Attraverso una serie "imperdonabile" di insuccessi umani - la gente rimane diffidente, i bambini del catechismo si prendono gioco di lui, il suo nutrirsi solo di pane e vino lo fa ritenere un alcoolizzato, il conte lo disprezza e sua figlia lo odia, la gestione economica della parrocchia e della casa parrocchiale è disastrosa, il "piano pastorale" non riesce a decollare - il "piccolo" curato giunge alla totale spoliazione di sé, che gli consente una trasparenza assoluta nell'esercizio dell'apostolato.
Egli riesce addirittura a liberare la contessa dalla disperazione, in cui l'ha rinchiusa la morte del figlio: un autentico miracolo.
La solitudine dell'agonia e la radicale spoliazione dell'apostolo - sia egli Gesù di Nazaret o Paolo di Tarso, oppure il curato di Ambricourt - sono in definitiva la paradossale garanzia della vittoria dell'amore sopra la morte. E davvero, in questa prospettiva, che cosa importa ancora? "Tutto è grazia!".
Chi ha trattato con maggiore profondità e ampiezza il tema teologico della solitudine dell'apostolo, con specifico riferimento all'opera letteraria di Georges Bernanos, è uno dei più grandi teologi del secolo ventesimo. Alludo manifestamente a Hans Urs von Balthasar e alla sua poderosa monografia, intitolata Il cristiano Bernanos.
In un paio di passaggi del quinto capitolo, nella seconda parte del libro, von Balthasar descrive l'agonia finale dell'apostolo come "centro stesso della vita". "Il Vangelo - commenta il teologo svizzero, tenendo sempre sullo sfondo l'agonia del Getsemani - ha insegnato a Bernanos che la povertà dello spirito, la spoliazione radicale e la debolezza (...) fanno un tutt'uno con la beatitudine, quella delle braccia spalancate".
Ritornano così - significativamente intrecciati fra loro, e sempre nella contemplazione di Cristo - i grandi temi della passione e della croce, dell'angoscioso silenzio di Dio, dell'abbandono e della solitudine dell'apostolo.
In questa stessa agonia si colloca la comunione dei santi. Come spiega von Balthasar, "affinché si realizzi la comunione dei santi bisogna che ogni membro del corpo mistico doni il suo essere totale - e radicalmente spogliato -, perché divenga parte di un tutto; bisogna che egli si lasci colpire da quelle ferite, che sole permettono la circolazione del sangue attraverso il corpo intero. Ma dopo il Giardino degli Ulivi, questa ferita ha preso la forma dell'agonia, dell'essere che viene meno nell'angoscia. Il carattere gratuito dell'amore si manifesta nella sofferenza sotto forma di inutilità: "Mi sembra", dice il curato di campagna, "che la mia vita, tutte le forze della mia vita, vadano a perdersi nella sabbia". E finalmente, di fronte alla morte: "Piangevo con gli occhi spalancati, piangevo come ho visto piangere i moribondi: era ancora la vita che usciva da me"".
Siamo di fronte al mistero cruciale della "solitudine dell'innocente nel mondo del peccato": quel mistero, per cui il parroco di Torcy - il confidente, o meglio il "direttore spirituale" del curato di campagna - giunge a parlare "della "solitudine sorprendente" e della "tristezza verginale" di Colei che "era l'innocenza", la Madre di Dio, "nata senza peccato"".
Ancora una volta, la solitudine dell'apostolo è consacrata come via di salvezza.



(©L'Osservatore Romano - 7-8 gennaio 2009)

giovedì 1 gennaio 2009

Ravasi: Il mistero di una madre che allatta il suo Creatore

Maria Santissima Madre di Dio

Il mistero di una madre
che allatta il suo Creatore


di Gianfranco Ravasi

"Era molto importante che Dio donasse al mondo questo segno: la Vergine che partorisce, la donna senza uomo: ella, che ha aspettato tutto da Dio e ha dato tutto a Dio, ha ricevuto tutto da lui; così può presentare al mondo il bambino re e salvatore, Dio stesso che viene a cercare il suo popolo". Così Georgette Blacquère, saggista francese, nella sua opera La grâce d'être femme, esaltava la maternità verginale di Maria. E a lei faceva eco un noto teologo suo connazionale, Gustave Martelet, che affermava: "Se Gesù risultasse dall'amore di Giuseppe e di Maria, per quanto grande e santificato fosse questo amore, il futuro sarebbe stato unicamente umano (...) Gesù sarebbe reso figlio da Dio solo per adozione (...) In nessun modo saremmo davanti al mistero che la Scrittura rivela e la fede confessa: quello del Figlio effettivo di Dio fatto uomo con l'Incarnazione".
In pratica si cadrebbe in un'eresia già attestata nell'antichità, quella dell'adozionismo: Cristo sarebbe, sì, nostro fratello, ma con tutti i limiti della nostra realtà, senza la possibilità di trascendere e salvare la nostra condizione. Sarebbe un figlio tra i figli adottivi di Dio, sia pure con un rilievo maggiore.
Sul tema di Maria vergine incinta abbiamo già proposto una precedente riflessione. Ora vorremmo soffermarci su un aspetto apparentemente molto marginale che però ha lasciato una traccia suggestiva nella storia dell'arte e della pietà popolare cristiana: Maria madre che allatta il suo Bambino. Noi ci fermeremo solo sul versante esegetico-teologico, partendo da una "beatitudine" evangelica che sboccia dall'ammirazione di una donna presente nell'uditorio di Gesù. Racconta l'evangelista Luca: "Una donna alzò la voce in mezzo alla folla e disse: Beato il ventre che ti ha partorito e il seno da cui sei stato allattato!" (11, 27).
Luca non usa il termine greco tipico per indicare il latte, gàla, ma ricorre a un verbo squisitamente "femminile", ethèlasas, da thelàzein, "allattare", che è generato da thèlys, "donna, femmina". Il verbo risuona quattro altre volte nel Nuovo Testamento. Fa capolino nell'acclamazione della domenica delle Palme, allorché - sulla base di una citazione del salmo 8, 3 - Gesù stesso accoglie gli "osanna" dei fanciulli, ricordando appunto che "dalla bocca dei bambini e dei lattanti (thelazònton)", Dio si procura la lode più cara (Matteo, 21, 16). Le altre tre presenze del vocabolo sono parallele e identiche nei tre evangelisti sinottici e sono segnate da un fremito apocalittico: nel giorno del giudizio finale sulla storia, "guai alle donne incinte e a quelle che allatteranno (thelazoùsais) in quei giorni!" (Matteo, 24, 19; Marco, 13, 17; Luca, 21, 23).
A questo punto vorremmo idealmente ripercorrere a ritroso la storia biblica di una realtà fisiologica divenuta ben presto un emblema e che potrebbe essere esaminata - come per altro è stato fatto - nell'iconografia mariana. Il latte, in ebraico halab (in arabo leben, "bianco"), produce infatti quasi un filo bianco e dolce che percorre molte pagine anticotestamentarie, legate soprattutto al modello sociale nomadico. Non per nulla il segno più affettuoso dell'ospitalità è nel mondo beduino offrire una tazza di latte fresco, come fa Abramo in quel caldo pomeriggio agli ospiti misteriosi che s'affacciano alla sua tenda sotto le querce di Mamre (Genesi, 18, 8). Attorno al latte si svilupperanno anche tradizioni gastronomiche folcloriche, come quella che darà origine indirettamente alla norma kasher che vieta all'ebreo una dieta che mescoli carne e latticini. Nel libro dell'Esodo si legge, infatti, questa prescrizione: "Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre" (23, 19; il divieto è reiterato in Esodo, 34, 26 e Deuteronomio, 14, 21). Più che a motivi umanitari, come spesso si dice, la proibizione era vincolata al fatto che tale ricetta era in uso presso i cananei, gli indigeni della Terrasanta, nei cui confronti Israele voleva prendere le distanze onde evitare il rischio di sincretismo.
Ma ben presto il latte si trasfigura in simbolo. Incarna, col miele, la rappresentazione della fecondità, della libertà e del benessere, come è attestato da quella celebre formula stereotipata applicata alla terra promessa, "terra ove scorre latte e miele", formula che risuona nell'Antico Testamento almeno una ventina di volte, a partire da Esodo, 3, 8. Il latte è, poi, il segno ovvio del candore: il capo-tribù Giuda, secondo le parole della benedizione del patriarca Giacobbe, ha "i denti bianchi come latte" (Genesi, 49, 12), così come quelli dell'amato del Cantico dei cantici sono "denti bagnati nel latte" (5, 12), mentre la pelle dei giovani di Gerusalemme è "più candida del latte" (Lamentazioni, 4, 7). Questa caratteristica - in un panorama assolato che produce pelli abbronzate - è un indizio di bellezza e di originalità. Il latte è anche evocazione di dolcezza, come si dice riguardo alle parole e ai baci della donna del Cantico, che ha "miele e latte sotto la sua bocca" (4, 11) e il suo amato baciandola dichiara di "suggerne il latte" (5, 1).
Il latte diventa, poi, simbolo dell'era messianica quando l'umanità sarà invitata ad accorrere a dissetarsi con acqua, vino e latte "senza spesa", in un dono che ha al centro i prodotti tipici dell'area mediterranea (Isaia, 55, 1). E alla fine, ecco apparire, solenne e matronale, la personificazione di Gerusalemme come "metro-poli", la città-madre che ha il seno turgido e generoso: "Voi succhierete al suo petto, succhierete deliziandovi all'abbondanza del suo seno" (Isaia, 66, 11). Il latte è, quindi, una componente dell'esistenza che viene assurto a simbolo di benessere, di bellezza, di amore, di speranza e di pienezza. Ed è su questa scia che il latte si affaccia con un suo rivolo anche nel Nuovo Testamento, riproponendosi secondo nuovi profili metaforici.
Abbiamo fatto notare che nel suo grido esclamativo rivolto a Gesù la donna non aveva usato il termine greco gàla, "latte". Questo vocabolo, però, echeggia cinque volte nel Nuovo Testamento e, curiosamente, è solo in un caso che conserva il suo valore di base, realistico e fisiologico. È, infatti, soltanto san Paolo a domandarsi retoricamente: "Chi fa pascolare un gregge senza cibarsi del latte del gregge?" (1 Corinzi, 9, 7). Ma in quella stessa lettera indirizzata ai cristiani di Corinto si assiste subito a un trapasso allegorico, sorprendentemente negativo, sulla base di un'applicazione metaforica che era nota anche al filosofo giudaico Filone di Alessandria e a Epitteto. Il latte diventa, dunque, il cibo degli immaturi, di coloro che sono ancora "carnali", incapaci di un alimento più ricco e raffinato, proprio come accade ai Corinzi "neonati" nella fede e imperfetti nella loro vita spirituale: "Vi ho dato da bere latte - osserva l'Apostolo - non un nutrimento solido perché non ne eravate capaci" (3, 1-2).
Analoga è l'applicazione che ritroviamo in quella grandiosa omelia o trattato teologico che è la Lettera agli Ebrei ove l'autore si rivolge ai suoi interlocutori con queste parole esplicite: "Siete diventati bisognosi di latte e non di cibo solido: chi si nutre ancora di latte è ignaro della dottrina della giustizia perché è ancora un bambino. Il nutrimento solido è, infatti, per gli uomini maturi" (5, 12-14). Siamo, quindi, in presenza di un'inversione di tendenza, destinata a trasformare questo cibo in un'immagine di limite, di imperfezione, di "infantilismo". Tuttavia, proprio sulla stessa base simbolica, san Pietro, nella sua prima lettera, ribalterà il significato e, introducendo il tema della nascita battesimale come evento capitale nell'esperienza cristiana, inviterà i neo-battezzati, "come bambini appena nati, a bramare il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza" (2, 2). Le dottrine dei misteri e della gnosi pagana esaltavano il cibo "pneumatico", ossia spirituale, di cui i loro adepti si nutrivano; Pietro, in contrappunto, celebra invece il latte della parola di Cristo e della salvezza che è offerta ai battezzati: per lui è questo il vero cibo spirituale.
È in questa luce che l'antica arte cristiana catacombale - ad esempio, la cappella di San Pietro nella catacomba romana ad duas lauros, nella ii metà del iii secolo - e quella dei sarcofagi hanno raffigurato Cristo buon pastore che regge tra le mani o depone ai suoi piedi una coppa di latte, destinata al gregge dei fedeli. Ormai il latte si era trasfigurato in un emblema della beatitudine perfetta della vita eterna riservata al cristiano. È a questo punto che ha avvio la successiva tradizione cristiana che, però, abbandonerà la simbologia biblica finora delineata e punterà verso l'immagine centrale della Natività di Cristo, evocata indirettamente dalle parole di quella donna. Si apre, così, un itinerario simbolico e storico che non è nostra intenzione ora percorrere, ma che è già stato perlustrato soprattutto nel suo profilo iconografico.
Certo, una madre che allatta il suo piccolo è un'immagine che appartiene a tutte le culture, soprattutto come simbolo di fecondità. Non per nulla il latte è associato spesso alla luna e alla sua luce "lattiginosa", ma anche alla sua capacità notturna di fertilità. La cosmogonia hindù suppone che la creazione avvenga attraverso la solidificazione - con la zangola cosmica del dio creatore - del mare di latte primordiale. Subentreranno, poi, altre accezioni nella tradizione occidentale: si pensi solo all'iconografia delle due madri antitetiche, quella buona e giusta che allatta creature sante e quella perversa che allatta serpi velenose. Oppure alle curiose raffigurazioni su cui san Bernardo da Chiaravalle riceve da Maria il latte - come, nella mitologia, Eracle da Era - per evocare un segno di adozione filiale da parte della Madre del Signore e forse anche per succhiare un nutrimento di immortalità.
L'elemento radicale e generativo rimane, comunque, il "latte di Maria", espressione di una "sacralità umanizzata" e di un'umanità santificata. Non bisogna ignorare, infatti, che in particolare nell'arte della miniatura (i Libri d'Ore) non si aveva nessun imbarazzo nel rappresentare Maria in evidente stato di gravidanza: talora Elisabetta, anch'essa incinta del Battista, non esitava a toccare il ventre di Maria durante la celebre scena della Visitazione, quasi per sentire i movimenti del piccolo Gesù in gestazione, mentre una sorta di fumetto citava le parole del Vangelo di Luca: "Benedetta tu tra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!" (1, 42). La Chiesa etiopica usa ancor oggi nella liturgia un genere di inni detto malkee (effigie) nel quale si esaltano le parti del corpo di Maria, arrivando a descrivere fino a cinquantadue organi e benedicendo soprattutto il seno che ha allattato e il grembo che ha generato il Signore.
A Betlemme, a destra di chi ammira il grandioso complesso della Basilica della Natività e gli annessi conventi greco e armeno, si apre una via che in inglese ha un nome significativo, Milk Grotto Road. Essa ha sul suo lato destro una chiesa francescana recentemente riedificata secondo un nuovo progetto disegnato dall'architetto e artista francescano Costantino Ruggeri, scomparso nel giugno 2007. Essa è unita a una grotta in tufo bianco, denominata appunto "la Grotta del latte". Secondo un'antica leggenda la madre di Gesù si sarebbe qui rifugiata durante la ricerca dei bambini betlemiti da parte di Erode e, mentre allattava il piccolo Gesù, qualche goccia del suo latte cadde sulla pietra imbiancandola tutta. La grotta attuale - che all'epoca dei crociati aveva accanto un convento latino che era considerato come fondato da Paola, la discepola di san Girolamo - è stata ed è ancor oggi meta di pellegrinaggi di madri anche musulmane che implorano da Maria l'abbondanza del latte per nutrire i neonati. Le stesse reliquie del latte di Maria, diffuse in Italia, Francia e Spagna, nascevano probabilmente dalla devozione di pellegrini in Terrasanta che portavano in Europa questa tradizione e forse qualche frammento di quel tufo biancastro. Dal vii secolo si diffuse poi la tradizione che proprio nella grotta del latte fossero stati sepolti i santi Innocenti, assassinati da Erode.
Certo è che il canto alla figura di Maria che allatta il Salvatore, versando latte su quelle labbra che poi riceveranno fiele sulla croce, come esclama Romano il Melode (vi secolo), si diffonderà nei primi secoli cristiani, nella convinzione che quelle "mammelle hanno nutrito col loro latte Dio", come dirà nell'viii secolo Giovanni Damasceno. Clemente Alessandrino nel suo Pedagogo (i, 6) nel ii secolo stabilirà già un parallelo tra la Vergine Madre che allatta Gesù e la Chiesa che allatta e nutre i fedeli con "santo latte" della parola e del corpo di Cristo. E questo filo poetico e spirituale procederà nei secoli patristici con intensità e passione, come testimonia ad esempio un discorso del v secolo di Fausto, vescovo di Riez in Gallia, che vogliamo idealmente porre a suggello di questa nostra breve analisi tematica: "O Maria, allatta il tuo Creatore! Allatta il pane del cielo, il riscatto del mondo: offri la mammella a lui che la succhia (...) Il piccolo bambino si nutra con il latte del tuo seno".



(©L'Osservatore Romano - 1 gennaio 2009)

Pellegrinaggio nostalgia dell'infinito

Un sogno realizzato camminando


di Tomás Spidlík

Un privilegio della preghiera cristiana - dicono i padri - è il fatto che essa può essere innalzata in ogni luogo. L'assenza di edifici religiosi consacrati esclusivamente al culto cristiano meravigliava i pagani. Nell'Octavius di Minucio Felice, l'interlocutore cristiano si spiega: "Che tempio potrei costruirgli, quando il mondo intero, che è sua opera, non lo può contenere?(...) Non vale di più dedicargli la nostra anima, consacrargli il più intimo del nostro cuore?". Molti padri parlano allo stesso modo. Ma Giovanni Crisostomo aggiunge una condizione: "Se l'uomo non può andare in chiesa".
"Qui regna l'unanimità, l'accordo, un legame d'amore, le preghiere dei sacerdoti. I sacerdoti sono qui per questo: le preghiere della comunità sono più deboli e si uniscono alle loro più forti, e tutte si elevano verso il cielo".
Dopo la pace costantiniana, i cristiani si affrettarono a costruire ovunque santuari più belli di quelli pagani, nota Eusebio di Cesarea. E subito si manifesta anche il fenomeno, ovunque noto, che alcuni divennero più stimati degli altri. La visita ai luoghi sacri più rinomati è una forma di pietà di tutte le epoche, presso tutti i popoli. È il racconto di un pellegrinaggio quello che ci riporta le prime parole di Gesù (Luca, 2, 41 e seguenti). Dopo l'anno 326, data del viaggio dell'imperatrice Elena a Gerusalemme - al quale la tradizione ricollega il ritrovamento della Santa Croce - i pellegrinaggi sono diventati per i cristiani una forma di devozione riconosciuta, quasi un'abitudine. In Russia tutta una classe di persone, chiamate stranniki, passavano la loro vita a visitare santuari, chiese, monasteri.
Il pellegrinaggio verso un luogo di preghiera privilegiato, comporta più elementi che sono altrettante condizioni naturali per elevare l'anima a Dio. "La grande strada - dice Dostoevskij ne I demoni - è qualcosa che sembra non aver fine: è come un sogno umano, la nostalgia dell'infinito".
Il pellegrinaggio comporta sempre uno sforzo, un dono delle proprie forze e del proprio tempo, un sacrificio di sé. In ricompensa, il cammino è una vittoria sul tempo e anche una liberazione dagli affanni della vita quotidiana, un distacco, un deserto. Lo scopo del cammino è unire le cose create, i luoghi, le icone, per mezzo dei quali Dio ha realizzato la nostra salvezza. Il pellegrinaggio è dunque una professione di fede nella santificazione della materia e del mondo. Il suo elemento costitutivo è la "memoria" degli avvenimenti; è dunque una anamnesi che trionfa sul tempo. Ma è anche un'esperienza dell'universalità della Chiesa nello spazio, nell'incontro con degli sconosciuti. Il pellegrinaggio è così, già dall'inizio, una forma efficace di ecumenismo (cfr. Le pèlerinage de l'hégomène Daniel en Terre Sainte de l'a.1106-1108 (Vebevitinov 1883-85; ristampa München,1970). Proprio come la preghiera e l'elemosina, il pellegrinaggio è una delle forme naturali della pietà (Léon Zander, Le pèlerinage, in L'Eglise et les Eglises, Chevetogne, 1955).



(©L'Osservatore Romano - 1 gennaio 2009)